domenica 5 marzo 2017

Verba volant (357): prigione...

Prigione, sost. f.

Scrivo questa riflessione con la reticenza e il rispetto che meritano le persone che hanno subito un dolore così atroce. Ricordo bene gli omicidi della banda della Uno bianca. Tra il 1987 e il 1994 questo gruppo di criminali, quasi tutti appartenenti alla polizia, uccisero 24 persone e ne ferirono oltre cento, prima in una serie di rapine violente e poi, con una progressione ancora oscura che li portò, in maniera del tutto gratuita, ad attaccare campi nomadi, a tendere agguati contro i carabinieri, a uccidere persone innocenti lungo le strade; queste azioni si svolsero tra l'Emilia-Romagna e le Marche, alcuni tra i crimini più efferati proprio intorno a Bologna, dove allora vivevo. Partecipai da amministratore del mio Comune al primo anniversario della strage del Pilastro, il 4 gennaio 1992. Nel corso degli anni successivi, per la mia attività politica e per il mio lavoro, ho conosciuto diversi familiari di quelle vittime, persone che, al di là della forza di sopportare il loro indicibile dolore personale, hanno avuto il coraggio collettivo di costituire un'associazione, che svolge un'azione meritoria, costringendoci a ricordare quegli episodi.
Sappiamo molto di quei fatti, sappiamo come si svolsero, conosciamo i nomi dei singoli responsabili, che sono stati tutti catturati, giudicati e puniti. Credo però che non conosciamo davvero tutta la storia; i fratelli Savi e i loro complici erano soltanto una banda criminale? O potevano essere qualcosa di più? Erano un pezzo di un'organizzazione più vasta, creata per altri scopi? Un pezzo di cui presto si perse il controllo e che quell'organizzazione non seppe - o non volle - fermare? Purtroppo la storia di questo paese è così piena di pagine oscure e possiamo avere così poca fiducia in parti rilevanti delle istituzioni, in particolare delle forze dell'ordine e dell'intelligence, per pensare che si tratti soltanto di fantasie. Credo che l'associazione delle vittime serva a questo, a tenere desta una memoria che molti preferirebbero lentamente scemasse.
In questi anni i familiari delle vittime della banda della Uno bianca si sono però assunti anche un altro compito, che io credo travalichi il loro ruolo; e che penso profondamente sbagliato. Nei giorni scorsi uno dei fratelli Savi, che adesso ha 52 anni, dopo 23 anni di carcere, ha ottenuto un permesso di dodici ore, che ha trascorso in una comunità protetta. Nelle settimane passate si era saputo che aveva scritto alcune lettere all'arcivescovo di Bologna, in cui avrebbe dichiarato di essersi pentito. Contro questa decisione del giudice si è scagliata con forza l'associazione delle vittime, criticando aspramente anche quei familiari, pare non appartenenti all'associazione, che avrebbero intrapreso un rapporto di riconciliazione con lo stesso Savi.
Io capisco i familiari delle vittime, credo sarei spietato se mi trovassi nella loro stessa situazione, credo sarei capace di uccidere. Per questo non possono essere i familiari a decidere. In un senso o nell'altro. Decidere sulla libertà o sulla prigionia di qualcuno che ha ucciso una persona a cui vogliamo bene è una responsabilità che non possiamo prenderci, perché può prevalere - come nella maggioranza dei casi, e come immagino farei io - un senso di vendetta, oppure, a causa di profonde convinzioni etiche e religiose, qualcuno può vedere in quella persona un pentimento che vorrebbe ci fosse e magari non c'è. In entrambi i casi rischiamo di sbagliare, punendo una persona che meriterebbe un'attenzione diversa o perdonando qualcuno che non ha fatto nulla per meritarselo.
Uno dei familiari ha detto: per i nostri morti non c'è nessun permesso. E' vero, ma - mi permetta - è una frase stupida: i morti sono morti, per loro nulla cambia. Ragionando in questo modo l'unica pena possibile sarebbe quella di uccidere chi ha ucciso. La legge del taglione è a suo modo equa, ma non è giusta, almeno molte persone non la considerano più giusta. Poi la madre di uno dei carabinieri uccisi al Pilastro ha detto: io non li posso perdonare. E questo invece è giusto, quella madre ha ragione, credo faccia bene a non perdonarli, e credo sia ipocrita chi vorrebbe che lei lo facesse, magari perché quel perdono darebbe credito alla propria visione del mondo. Se il perdono non serve a far star meglio quella madre, non mi interessa che serva a far stare meglio l'assassino. Savi chiede il perdono delle sue vittime per sentirsi meno in colpa? Peggio per lui se i familiari non glielo vogliono concedere. Non ci ha pensato quando ha ucciso e adesso ne deve pagare le conseguenze. Però questo è un piano diverso, che riguarda le vittime, le loro storie, le loro convinzioni, la loro ricerca su come affrontare quel dolore.
I giudici devono fare il loro lavoro, che è molto difficile, perché è complicato, quasi impossibile, capire se una persona che ha commesso un delitto simile abbia davvero capito la portata di quello che ha fatto, il dolore che ha provocato, il male che ha portato nel mondo. Eppure in una società questo compito spetta a loro, non lo possono delegare ai familiari né possono pretendere che questi li aiutino, perdonando gli assassini delle persone che amavano. Non possiamo criticare chi non perdona, ma non possiamo neppure lasciare una persona che è cambiata, in carcere tutta la vita perché qualcuno non l'ha perdonato.
Io ovviamente non conosco Alberto Savi, non so cosa pensi, cosa scriva, come si comporti; so che ha scontato fino ad ora una lunga pena, che neppure quelle dodici ore le ha trascorse da uomo libero e che, se ci arriverà, la sua vita fuori dal carcere non sarà affatto semplice. Non ho titoli per dire se qual permesso l'ha meritato, come non l'hanno i familiari delle vittime. Spero che quel giudice non si sia sbagliato, che la sua decisione sia motivata. Ma temo che quella decisione sia stata fatta in maniera burocratica, che il giudice si sia limitato a controllare delle carte, che abbia fatto un calcolo numerico: l'imputato ha scontato tot anni, si è comportato bene, gli tocca un permesso di tot ore. Non ho fiducia su come funziona la giustizia in questo paese e su come lavorano molti magistrati, né credo che le prigioni, a parte alcune lodevoli eccezioni, funzionino davvero per cambiare le persone che ci vengono rinchiuse. Ma si tratta evidentemente di un altro problema, di cui dovremmo occuparci tutti, indipendentemente dal fatto che qualcuno a cui vogliamo bene sia stato vittima di un crimine. Delle prigioni che non funzionano siamo tutti vittime.

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