mercoledì 11 gennaio 2017

Considerazione libere (416): a proposito di due sì...

In questi giorni potremmo dedicare il nostro tempo a riflettere sui motivi, legittimamente giuridici o inconfessabilmente politici, che hanno spinto i giudici della Consulta a emettere questa sentenza oppure a discutere su come sono stati scritti i quesiti o ancora a pensare alle conseguenze politiche di questa sentenza, sull'opportunità che si voti prima possibile il referendum o che si vada a elezioni anticipate. O su come questo referendum ci servirà a ricostruire una sinistra in Italia. Francamente però oggi non abbiamo questo tempo. Ne abbiamo pochissimo. E abbiamo scarse energie. E il nostro poco tempo e le nostre scarse energie dobbiamo dedicarle a fare propaganda per il SI', a spiegare qual è il vero significato di questi referendum, di quelli su cui saremo chiamati ad esprimerci e anche di quello che per ora non è stato ammesso. Ed è qualcosa che non riguarda solo strettamente il tema dell'utilizzo dei voucher o quello degli appalti o finanche quello, seppur fondamentale, dell'art. 18. Sono temi che abbiamo affrontato e su cui torneremo. Ma la questione vera riguarda la dignità costituzionale del lavoro, che i costituenti vollero sancire in maniera solenne - e assolutamente inedita - in quell'art. 1 molto citato, ma poco applicato.
La battaglia in cui dobbiamo essere impegnati già da queste ore e su cui dovremo saper costruire un fronte il più ampio possibile - speriamo maggioritario - è simile a quella che ci ha impegnato nei mesi passati. Perché anche lo scorso 4 dicembre in gioco non era tanto la sopravvivenza del Senato o il meccanismo di formazione delle leggi, quanto l'idea stessa di democrazia rappresentativa. Oggi allo stesso modo questi referendum ci servono a ribadire la centralità costituzionale del lavoro, l'idea che i diritti delle persone che lavorano devono essere garantiti a partire dalla legge fondamentale del nostro ordinamento.
Perché il nostro lavoro, il lavoro di tutti, deve essere uno sforzo libero. Pare scontato, ma non lo è: lo sforzo di uno schiavo, di un uomo o di una donna costretti a cedere il proprio tempo e le proprie energie, non può essere considerato lavoro. Le meraviglie architettoniche dell'antichità furono costruite da schiavi e oggi sono schiavi quelli che producono le magliette che indossiamo o i telefonini con cui ci teniamo continuamente in contatto, e questo non è lavoro. E non serve andare in Asia o in Africa, basta fermarsi nelle campagne dove si raccolgono le arance e i pomodori o andare in qualche fabbrica o in un call center. Lo dobbiamo ricordare quando valutiamo la crescita di un paese: la schiavitù conviene dal punto di vista puramente economico, dal momento che garantisce bassi costi di produzione e crescita della ricchezza complessiva. Però quello non è lavoro e non realizza la prosperità comune. Perché il lavoro di ciascuno di noi realizza a un tempo noi stessi e la società. E’ abbastanza semplice capire che il lavoro libero di ciascuno di noi contribuisce al bene della comunità, è qualcosa di cui abbiamo immediata evidenza. Forse non abbiamo ancora capito quanto il lavoro sia importante per ciascuno di noi. A chi è successo - a me è successo intorno ai quarant’anni - di non avere un lavoro sa che si tratta di un momento che si ricorda con dolore e ansia. Chi non lavora non esprime la sua capacità di essere, in qualche modo non è. L'art. 1 dice questo e dice che la democrazia si realizza con il lavoro e che il lavoro si tutela con la democrazia.
Troppo spesso in questi anni ci hanno fatto credere che il lavoro sia solo un dovere o, ancora peggio, una concessione che ci viene fatta, qualcosa per cui dobbiamo ringraziarli. Invece il lavoro è un nostro diritto. In gioco nel prossimo referendum c'è semplicemente questo. La domanda che quei due quesiti rivolgono a tutti noi è questa: abbiamo diritto al lavoro, un lavoro sicuro, un lavoro retribuito in maniera proporzionale ed equa? SI'.

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