lunedì 30 maggio 2016

"Per tutte coloro che sono morte" di Erica Jong


Per tutte coloro che sono morte denudate, rasate, rapate.
Per tutte coloro che hanno invocato invano la grande Dea
solo per aver la lingua strappata alla radice.
Per tutte coloro che sono state trafitte, torturate, spezzate sulla ruota
per i peccati dei loro Inquisitori.
Per tutte coloro la cui bellezza suscitò il furore dei torturatori;
per tutte coloro cui la bruttezza fu condanna.
Per tutte coloro che non eran belle né brutte, ma solo donne orgogliose.
Per tutte le abili dita spezzate dalla morsa.
Per tutte le braccia morbide strappate dall'alveolo.
Per tutti i seni in boccio dilaniati da pinze incandescenti.
Per tutte le levatrici uccise per il peccato
di aver fatto nascere l'uomo in un mondo imperfetto.
Per tutte quelle streghe, mie sorelle,
che respiravano più liberamente avvolte dalle fiamme,
sapendo, mentre abbandonavano le spoglie femminili,
e la carne bruciata cadeva come frutta nelle fiamme,
che solo la morte le avrebbe mondate del peccato
per cui morivano il peccato di esser nata donna,
che è più della somma delle parti di un corpo femminile.

martedì 24 maggio 2016

Verba volant (275): biblioteca...


Biblioteca, sost. f.

Le buone notizie tendono a sfuggirci, specialmente quelle che sarebbero in grado di regalarci un filo di speranza. A me questa notizia era colpevolmente sfuggita, ma adesso che l'ho saputa voglio condividerla con voi. Lo scorso 9 maggio è stata riaperta la biblioteca di Sarajevo, un edificio andato quasi del tutto distrutto nell'agosto del 1992, a seguito dei bombardamenti serbi sulla città bosniaca. Quel grande palazzo costruito in stile moresco alla fine dell'Ottocento dagli austriaci fu visitato dall'arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno 1914; pochi minuti dopo, uscito da quelle sale sfarzose, l'erede al trono degli Asburgo venne ucciso e da quel momento il mondo cambiò. Per sempre.
In genere le biblioteche sono bersagli facili da colpire durante un conflitto, anche perché non ci si prende particolare cura della loro difesa. Comprensibilmente sono altre le priorità: bisogna cercare di salvare i ponti, gli aeroporti, le infrastrutture da cui dipendono le vite delle persone e che servono a difendersi nell'immediato. E che permetteranno una più veloce ricostruzione. E le biblioteche non sembrano rientrare tra queste; almeno a prima vista.
E' quello che è successo secoli fa ad Alessandria. Racconta Plutarco che durante la guerra civile egiziana Cesare, assediato con Cleopatra e con poche truppe fedeli nel palazzo reale, mentre il resto della città era in mano ai ribelli, ostili a lui e alla regina, decise di dar fuoco alla flotta romana, per impedire che cadesse in mano al nemico. Quell'incendio, andato fuori controllo, devastò la grande biblioteca. Non sappiamo se quell'incendio fu effettivamente la causa della distruzione di quell'antica istituzione, anche perché in seguito altri conquistatori ebbero la colpa - o si presero il merito - di aver definitivamente raso al suolo quel luogo e distrutto i testi che lì erano stati conservati, studiati, catalogati. Forse più l'inevitabile fluire della storia che una dichiarata volontà distruttrice è stata la vera causa della fine della biblioteca di Alessandria: da sempre l'ignoranza, l'ignavia, la negligenza sono più pericolose del fuoco. Abbiamo perso tante opere degli antichi, anche se non le più importanti, che sono arrivate comunque fino a noi. Omero non ha scritto un terzo poema andato in fumo in quel rogo, Sofocle non ha scritto tragedie più grandi dell'Edipo re e dell'Antigone, e per fortuna neppure le Rane di Aristofane sono andate perdute. Certo abbiamo perduto le opere di qualche storico minore - ma Erodoto e Tucidide li abbiamo completi - non possiamo leggere il secondo libro della Poetica di Aristotele - però ci abbiamo guadagnato un bel romanzo - e in fondo non è neppure così grave che siano andate perdute le opere di Protagora. La storia non si fa con i se, e neppure la letteratura e la filosofia, nonostante siano materie dai contorni decisamente più vaghi. Noi siamo quello che ci hanno insegnato gli antichi, attraverso quello che ci è stato tramandato, ed è sostanzialmente inutile pensare a quello che non è arrivato fino a noi.
Anche nella distruzione della biblioteca di Sarajevo abbiamo perso molti libri. Ovviamente nessuna parola conservata tra quelle mura è andata perduta definitivamente, perché viviamo ormai nell'epoca della riproducibilità assoluta e nulla di quello che è stato scritto andrà mai più perduto, anche se in qualche caso sarebbe un bene. Purtroppo sono stati distrutti molti libri e questa è stata una perdita molto grave. In quella biblioteca erano conservati antichi manoscritti, preziosi incunaboli e su questi le fiamme sono state impietose. Ma si tratta di oggetti, preziosi, in alcuni casi di valore inestimabile, ma pur sempre oggetti. Aida Buturovic, una giovane bibliotecaria di 32 anni, venne uccisa da una scheggia di granata, mentre tentava di salvare qualcuno di quei libri, perché per lei, come per gli altri che in quei drammatici giorni di agosto tentarono quell'impresa, avevano un valore ben maggiore di quello assegnato dagli antiquari o dalle case d'asta.
Eppure la vita di Aida non valeva nessuno di quei preziosi volumi. Una biblioteca è importante per quello che custodisce, ma sarebbe morta senza le donne e gli uomini che la animano e la fanno vivere. Per questa ragione una biblioteca diventa un obiettivo militare in un conflitto e i nemici cercano di distruggerla e per questo è così importante quando una biblioteca viene ricostruita, riaperta, viene fatta nuovamente vivere, diventa ancora un luogo di scambio, di dialogo, di studio, torna a essere uno spazio in cui si fa educazione, dove vive la cultura, dove cresce la civiltà. Per questo ci siamo emozionati a vedere Vedran Smailovic suonare il suo violoncello tra quelle rovine. Per questo sapere che la biblioteca di Sarajevo è tornata a funzionare è una notizia così bella.

post scriptum
Tempo fa ho espresso più o meno la stessa idea, provando a raccontare una storia...

sabato 21 maggio 2016

Verba volant (274): prudenza...

Prudenza, sost. f.

L'altra sera guardando un telefilm mi hanno colpito le pubblicità. Non tanto la loro insistenza e la loro pervasività - ormai ci siamo abituati e chissà se i nostri figli riuscirebbero a guardare in televisione un film tutto intero, come potevamo fare ancora noi alla loro età - e neppure la loro ostentata volgarità - purtroppo ci siamo abituati anche all'uso pornografico del corpo femminile per reclamizzare qualsiasi prodotto - mi ha fatto pensare l'oggetto di quelle inserzioni. Praticamente in una ogni due - tra un'auto e un reggiseno, tra un telefonino e un detersivo - venivano offerti dei prestiti.
Ho pensato: ecco la pubblicità ai tempi della crisi. Il telespettatore a casa non fa in tempo a pensare che gli piacerebbe proprio comprarsi quella cosa, sponsorizzata dalla bellezza di turno o dal suo calciatore preferito, e che non ha i soldi per farlo, mentre pensa che quella cosa non se la può permettere, ecco arriva lo spot che ti risolve i problemi: i soldi li puoi avere, facilmente e senza garanzie. Per comprarti anche quello che non ti serve. Anche con i soldi che non hai.
Anche mia moglie e io abbiamo chiesto un prestito per acquistare la casa in cui viviamo: è una cosa piuttosto normale, perché è difficile che una famiglia abbia tutti i soldi necessari per comprarsi una casa. Così come potremmo chiedere un finanziamento per acquistare un'auto nuova, quando la nostra ci lasciasse definitivamente: è una cosa di cui abbiamo bisogno per andare a lavorare e per le necessità della famiglia e quindi dovremmo e potremmo fare un sacrificio del genere. Ma i tizi che chiedono i prestiti negli spot non hanno mai questi bisogni così consueti; chiedono un prestito per rinnovare il bagno, perché vogliono assolutamente quelle mattonelline a mosaico, oppure per abbellire il giardino, per far crepare di invidia il vicino. A me non verrebbe mai in mente di fare un debito per comprare un televisore o un telefonino o per andare in vacanza - ci sono persone che lo fanno - perché i miei genitori mi hanno tenacemente insegnato che ci sono cose - praticamente tutto - che si possono comprare solo quando i soldi si hanno tutti, e anzi quando se ne hanno un po' di più, perché bisogna sempre tenere qualcosa da parte perché non si sa mai. Sarà che i miei genitori sono nati quando c'era la guerra, sarà che che sono cresciuti in famiglie di contadini, che avevano ben chiaro il valore del denaro, dal momento che ne vedevano assai poco. Però mi hanno insegnato così e così avrei insegnato ai miei figli se ne avessi avuti.
I miei genitori - parlo ovviamente dei miei, ma intendo anche quelli di Zaira, così come quelli di molti di voi che mi leggete - avevano il valore della prudenza. A sentire questi corifei della "nuova" economia pare che questo sia un valore superato, addirittura nemico dello sviluppo. Quelli che preparano le pubblicità sembrano volerci dire: spendete i soldi che avete, e anche quelli che non avete, fate girare l'economia. Come se questa fosse la ricetta far crescere il paese, per farlo uscire dalla crisi in cui si trova. Eppure se ci fermassimo un attimo a pensare, dovremmo ricordare che questo paese è cresciuto, è cresciuto davvero, quando erano giovani quelli come i miei e i vostri genitori, quelli prudenti, quelli che non fare il passo più lungo della gamba. E' quella generazione lì che ha permesso a quelli della mia generazione di studiare, di andare a lavorare non da ragazzini come hanno fatto loro, è quella generazione lì che ha portato benessere al nostro paese, con quella mentalità contadina, con quella saggezza che da anni ormai ci insegnano a dimenticare.
E' come quella pubblicità di una marca di telefonini in cui ti spiegano che dopo un anno lo potrai cambiare e anzi la bontà dell'offerta sta proprio nel fatto che ogni anno potrai cambiare telefono. E perché ogni anno dovrei cambiarlo? Queste pubblicità sono pericolose non per quello che ci spingono a comprare - anche se a volte anche questo è un pericolo, perché poi non abbiamo i soldi per onorare i debiti e rischiamo di rovinarci per qualcosa di superfluo, se non di inutile - ma soprattutto perché agiscono su tutti noi, indipendentemente dal fatto che compriamo o meno, che chiediamo o meno un prestito. E' difficile non sentirci come consumatori, perché è sostanzialmente quello che vogliono che siamo, e ce lo ripetono, ogni giorno dell'anno, ogni ora del giorno, in maniera asfissiante. Valiamo non per quello che siamo, per quello che pensiamo, per quello che facciamo, ma per quello che compriamo. Anche se non abbiamo i soldi per farlo.

giovedì 19 maggio 2016

Verba volant (273): radicale...

Radicale, agg. m, e f.

Giacinto Pannella, detto Marco, è uno che è vissuto della politica. Noi adesso diamo all'espressione vivere della politica un significato deteriore, perché in tanti ormai vivono - e vivono bene - alle spalle della politica, fanno politica perché non hanno trovato un'altra strada nella vita oppure perché hanno capito che le loro qualità - piccole o grandi che siano, spesso piccole - possono procurare loro dei vantaggi, soprattutto economici, una volta avviata questa carriera. Per quelli come Pannella, ma il discorso potrebbe valere anche per tutti i leader di quella generazione lì - da Andreotti a Berlinguer, da Craxi a Moro, in sostanza quelli venuti dopo alla generazione degli "eroi", quelli della guerra e della Resistenza - la politica era la vita. E hanno vissuto intensamente proprio perché intensamente hanno fatto politica.
Credo che Marco Pannella, se non avesse avuto la ventura di nascere e crescere in questo paese, avrebbe fatto una carriera ben diversa da quella che fu costretto a scegliersi. Se in Italia la destra non fosse stata clericale e bigotta, in sostanza così tremendamente cattolica, uno dalle qualità di Pannella, liberale, liberista e libertario, sarebbe diventato in breve tempo uno dei capi della destra. E questo in prospettiva avrebbe anche aiutato la sinistra a essere diversa, magari le avrebbe impedito di diventare a sua volta clericale e bigotta. Ma questa è un'altra storia, è un problema nostro, di noi che stiamo da questa parte della barricata. Mentre Pannella è sempre stato dall'altra parte, al di là delle scelte che l'hanno portato, per calcolo, a sostenere questo o quel governo, soprattutto nel tempo del maggioritario, che lui ha sfruttato con abilità.
Ma la storia, come noto, non si fa con i se e quindi Pannella si è dovuto inventare qualcosa di diverso ed è stato qualcosa di diverso. Adesso facciamo fatica a immaginarlo, visto che i politici fanno i pagliacci nelle trasmissioni televisive, cantano, ballano, dicono parolacce, fanno gesti sguaiati in parlamento, si spogliano. Pannella, in un'epoca in cui la politica erano i completi grigio topo e gli occhiali alla Filini dei notabili Dc o l'austera sacralità di Berlinguer, rompeva gli schemi e in questo modo creò il suo personaggio. E attraverso questo suo personaggio, spesso irritante, a volte inutilmente volgare, sempre chiassoso - anche quando si faceva imbavagliare - eccessivo, è riuscito non solo a fare politica per tutta la sua vita, e quindi a vivere, perché della politica aveva bisogno come l'aria, ma anche a cambiare un po' questo paese. In meglio.
A Pannella dobbiamo alcuni battaglie civili importanti, come il divorzio e l'aborto. In questo caso Pannella non fu tanto un trascinatore, non fu quello che portò la maggioranza degli italiani a vincere queste importanti battaglie civili, ma fu quello che capì, con una lucidità che mancò a molti, anche migliori di lui, che il paese era pronto, che quella maggioranza c'era già. E non sarebbe mai stata la sua maggioranza, ma egli seppe essere la scintilla. E non è poco. E infatti altre battaglie, altrettanto giuste, non riuscì a condurle in porto, ad esempio sull'abolizione dell'ergastolo o sulla condizione delle persone in carcere, perché su questo gli italiani non sarebbero mai stati disposti a seguirlo, e non lo sono neppure oggi.
Poi, succede anche ai migliori artisti, Pannella è rimasto schiacciato dal suo personaggio e la parte finale della sua lunga parabola non rende certo onore a quello che ha saputo fare prima. Immagino che a lui farebbero piacere perfino le ipocrisie di questi giorni, le lodi insincere, i tentativi di intestarsi le sue battaglie per raccogliere qualche voto. L'uomo doveva essere anche vanitoso. Io, da persona di sinistra e quindi da avversario, perché comunque Pannella è sempre, coerentemente, rimasto a destra, lo vorrei ringraziare lo stesso, non tanto per le battaglie civili, ma proprio per quell'idea alta di politica che anche lui, con i suoi modi così poco convenzionali, ha saputo trasmettere. In un tempo in cui invece i politici danno così cattiva prova di sé e soprattutto screditano, per incapacità e per dolo, l'idea stessa di politica, ricordare Pannella dovrebbe servire anche a rivalutare questo aspetto così importante della vita delle donne e degli uomini.

lunedì 16 maggio 2016

Verba volant (272): indagare...

Indagare, v. tr.

Ormai lo sapete: ho fatto politica per molti anni, quasi venti. Ma certo non sapete - a meno che non siate bolognesi dotati di buona memoria - che in questo lungo periodo della mia vita - per molti aspetti così importante - una volta sono stato iscritto nel registro degli indagati. In quegli anni a Bologna c'era un sostituto procuratore che si era specializzato in indagini riguardanti i dirigenti del Pds e poi dei Ds. Praticamente tutte queste sue indagini caddero nel vuoto: fu così anche per quella che riguardò me e altre persone, tra cui un sindaco di Bologna e gli esponenti della sua giunta. Al termine del tempo previsto, dopo tutte le proroghe possibili, fu lo stesso sostituto a chiedere l'archiviazione; per tutti. Quelle indagini comportarono delle spese a carico dei cittadini, richiesero tempo, probabilmente distolsero l'attenzione da altre questioni più importanti, ma, al di là di tutto questo, francamente ho sempre avuto l'impressione che a lui interessasse poco il merito della questione, tanto il suo obiettivo era stato raggiunto: qualche articolo del Carlino, quando la notizia venne fuori, a cui naturalmente non ne seguì nessuno quando fu decisa l'archiviazione. Il messaggio era chiaro: sono tutti uguali, anche "loro" rubano come gli altri. Non incontrai mai quel magistrato, se non qualche volta al cinema - Bologna è una città piccola - ma naturalmente lui non sapeva chi ero io. Non gli interessava minimamente: voleva colpirmi per quello che facevo, per quello che ero. Produssi molti documenti per spiegare le mie ragioni e davvero di quei mesi ricordo soprattutto che feci tante fotocopie, spesso di documenti che avevo già presentato settimane prima e che non si sapeva dove fossero finiti.
Ho ricordato questo episodio di molti anni fa, per dire che il rapporto non sano - per usare un eufemismo - tra politica e magistratura non è certo questione di oggi. Personalmente, anche prima che mi capitasse questa disavventura, non ero mai stato tra coloro che apprezzavano quelli che sventolavano i cappi o lanciavano le monetine. Davo allora - e dò oggi - un giudizio molto duro di Bettino Craxi, ma più per la politica, più per quello che ha fatto - e non ha fatto - quando ha avuto la possibilità di guidare questo paese che per le vicende giudiziarie, che pure sono gravi e che hanno determinato la sua fine politica. Allo stesso modo non mi sono mai scagliato contro la magistratura, anche se ne ho conosciuto la parte peggiore. Ricordo che alla notizia dell'indagine, un consigliere dell'opposizione di Granarolo, un craxiano convinto con cui spesso mi ero scontrato, mi espresse la sua solidarietà, dicendo che finalmente avrei capito quello che avevamo fatto passare al suo segretario e disse che un po' mi invidiava, perché nella sua militanza politica non poteva vantare un'indagine a suo carico. A me sinceramente quell'indagine non fece alcun piacere, non la considerai una cosa di cui vantarmi, ma, proprio perché ero sicuro che non avevo commesso nessun illecito, non pensai neppure di dimettermi dalle cariche che avevo allora o di smettere di fare politica. Tutt'altro: sentii la spinta a continuare.
Ripensando a quegli anni credo che se ci dobbiamo imputare qualche colpa sia stata quella di essere "teneri" nella polemica verso quei magistrati che usavano il loro ruolo, il loro potere, il loro prestigio, contro una classe politica che di prestigio ne aveva sempre meno. Penso che sbagliammo a lasciare la polemica contro i giudici agli altri, molti dei quali erano poi effettivamente colpevoli. Avremmo forse dovuto dire che il sistema stava prendendo una direzione che sarebbe stato difficile modificare. Era complicato allora fare questa distinzione, non ne avemmo il coraggio, perché i magistrati erano tutti eroi e i politici erano tutti gente poco perbene, nell'immaginario dell'opinione pubblica, immaginario peraltro ben costruito da soggetti che avevano tutto l'interesse a delegittimare la politica. Certo non lo facemmo. Molti di noi subirono queste indagini in silenzio.
Come potrete immaginare, ho ripensato a queste vicende lontane, guardando a quello che succede nel nostro paese, in particolare in una dimensione che conosco bene, ossia quella delle amministrazioni comunali. Oggi è difficile fare il sindaco senza essere indagato, senza essere il destinatario di un avviso di garanzia. Anche perché per l'opposizione fare degli esposti, delle denunce, è diventato il modo normale di fare politica. Perché prendersi la briga di fare opposizione, di studiare, di elaborare delle alternative, tutte cose difficili? Basta scrivere un bell'esposto e tanto un giudice a cui non va bene l'amministrazione in carica lo si trova sempre. Parte l'indagine, magari il sindaco si dimette - o o fanno dimettere i suoi - e, visto che abbiamo inventato questo sistema che se va a casa il sindaco, si va a a casa tutti, si fanno nuove elezioni. E arriva un nuovo sindaco, magari un esponente dell'opposizione. Contro cui viene presentato un nuovo esposto e così via. Ricomincia la giostra.
La prima responsabilità di questa situazione sta naturalmente nella debolezza della politica, in parte intrinseca, in parte - come dicevo - indotta a forza. Ma c'è anche un sistema di leggi, di norme, di codici e codicilli, farraginoso e bizantino, in cui è difficile districarsi, anche perché spesso all'interno delle amministrazioni comunali mancano le competenze. In questi anni alla debolezza della politica si è accompagnata una debolezza della struttura amministrativa, della burocrazia, anche perché i dirigenti vengono scelti più per la propria fedeltà all'amministrazione che per le reali competenze, e così si alimenta un corto circuito pericoloso.
Non entro nel merito delle ultime vicende di attualità, ma oggettivamente adesso a chi mai verrebbe voglia di fare il sindaco? A Forrest Gump o a Pietro Gambadilegno. Il primo non si rende conto di cosa gli succede intorno e rischia di diventare una facile pedina per gli interessi di altri, il secondo ha ormai una scorza così dura che l'ennesimo avviso di garanzia non gli fa né caldo né freddo, anche perché i cittadini - tutti noi - siamo così abituati alla corruzione, che non ci facciamo neppure più caso. E piano piano i cittadini normali, quelli che non sono troppo stupidi o troppo corrotti, si allontanano, e, anche quando si avvicinano, vengono allontanati. Non si sa mai: a volte la normalità è contagiosa.
Da tutto questo chi ci guadagna? Sempre i peggiori ovviamente, quelli che riescono a piegare la politica ai loro interessi, quelli che se ne fregano dei bisogni dei cittadini o della difesa del territorio, ma hanno bisogno di costruire nuove strade, nuovi centri commerciali, nuove case in cui non andrà ad abitare nessuno. E ci guadagna soprattutto chi ha interesse a convincerci che la politica fa schifo, tutta, da tutte le parti, chi ha interesse che la partecipazione al voto cali, perché è più economico corrompere pochi che molti. Ci guadagnano quelli sta preparando una soluzione in cui la politica serva sempre meno, perché la politica costa - e quindi togliamo di qui e di là, dai senatori ai consiglieri provinciali - perché la politica è troppo lenta - mentre uno solo decide in fretta - perché la politica fa nascere contrapposizioni, mentre ci sono soluzioni tecniche che sono perfette, che vanno bene a tutti, che non sono né di destra né di sinistra. Se vi sembra di riconoscere formule e personaggi che in questi tempi vanno per la maggiore è perché è proprio così che è andata. Quelli di Repubblica e del Corriere non vedevano l'ora che fossero indagati i sindaci del Movimento Cinque stelle, perché questo è il segno che la politica è irrecuperabile e la soluzione è sempre quella: meno democrazia.
Naturalmente possiamo anche andare avanti così e continuare a essere contenti se il sindaco del partito a noi avverso riceve un avviso di garanzia - e io, da vecchio fazioso, continuo a essere contento quando un sindaco del pd ne riceve uno - ma se andiamo avanti per questa strada, se continuiamo a preferire la via giudiziaria a quella politica, se non richiamiamo i cani che tutti abbiamo sguinzagliato, ne farà la spese la democrazia. Che sta sempre peggio.

sabato 7 maggio 2016

Verba volant (271): costituzione...

Costituzione, sost. f.

Una persona che legge abbastanza regolarmente quello che scrivo, anche se apprezza poco la mia eversiva radicalità, commentando una delle mie consuete prese di posizione a favore del NO al prossimo referendum costituzionale, mi ha chiesto quali sarebbero le mie proposte di riforma. Non so se quella domanda manifestasse un vero interesse o fosse semplicemente una sfida polemica, ma il tema mi sembra comunque interessante. E merita una risposta.
Sono anni che ci arrovelliamo intorno a questo tema, che discutiamo, anche aspramente, su quali riforme istituzionali fare o non fare - alcune sono state approvate, altre sono state cancellate a seguito di un referendum, altre ancora giacciono da anni in parlamento - ma ormai nessuno pare interrogarsi se queste riforme siano davvero necessarie. Abbiamo ormai dato per scontato che le riforme siano indispensabili; l'ho detto anch'io, tante volte, quando facevo un altro mestiere. Sinceramente non ne sono più convinto.
La Costituzione approvata in via definitiva il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio dell'anno successivo non è forse la più bella del mondo, come ama dire un guitto, che si è fatto un po' di pubblicità grazie a questo tema, e come viene ripetuto da molti, con scarsa originalità. Però è una costruzione solida. La parola costituzione condivide, non a caso, la radice con il verbo costruire; una casa può essere bellissima, ma se non può essere abitata, se non è abbastanza solida, se non è abbastanza sicura, non serve al proprio scopo e quindi quella sua bellezza è perfettamente inutile.
La nostra Costituzione è naturalmente figlia del suo tempo, è nata in un particolare contesto storico, politico e culturale, è stata scritta da uomini e da donne che avevano subito una dittatura e una guerra dagli esiti drammatici. Non possiamo cercare nella Costituzione cose che non possono esserci. Ci sono temi su cui la Costituzione - anche nella sua prima parte, quella più "sacra" - segna il passo, penso ad esempio ai diritti delle persone che costituiscono - o costruiscono - una famiglia, perché per i Costituenti, indipendentemente dalla loro fede religiosa e dalle loro opinioni filosofiche, era semplicemente impensabile un matrimonio contratto da due persone dello stesso sesso. Allo stesso modo non possiamo pretendere di trovare, in un testo scritto settant'anni fa, risposte ai quesiti a cui la scienza, nella sua rapidissima evoluzione, ci ha messo di fronte, ad esempio sul tema della fine vita. Né i Costituenti potevano immaginare che ci sarebbe stata la rete e che l'accesso a essa avrebbe comportato diritti e doveri: erano saggi, erano intelligenti, ma non erano indovini.
La Costituzione del '48 però, al di là di questi limiti oggettivi, ha una sua unità, una sua coerenza, che credo sia uno degli aspetti più significativi dello sforzo delle persone che l'hanno redatta. La nostra Costituzione è una costruzione ben progettata, con le fondamenta solide e con una propria armonia funzionale: non ci sono né finestre cieche né stanze a cui non si riesce ad accedere. Le riforme che si sono succedute negli anni successivi, specialmente negli ultimi venti, hanno avuto la pretesa di modificare questo o quel punto, ma sono state per lo più disorganiche e, proprio perché rispondevano a idee spesso divergenti tra di loro, hanno finito, quando sono state approvate, per peggiorare la Costituzione.
La Costituzione di oggi - quella adesso vigente, non parlo delle riforme imposte da questa minoranza arrogante e volgare, a cui dovremo dire comunque NO - è peggiore di quella uscita dalle penne dei Costituenti, proprio perché ha perso in parte quel disegno unitario che allora era così forte. Penso ad esempio alla riforma fatta nel 2012 che, modificando gli articoli 81, 97, 117 e 119, ha introdotto l'obbligo del principio del pareggio di bilancio e in questo modo ha tolto sovranità allo stato, introducendo un elemento che limita il potere legislativo, sottomettendolo a un criterio che è alieno allo spirito del resto della Carta. Per non parlare della confusione che è stata fatta nelle varie riscritture del Titolo V, su cui si sono esercitati personaggi per lo più incompetenti, e che ha dato vita a un conflitto permanente tra diversi livelli istituzionali.
La mia proposta di riforma costituzionale è allora piuttosto semplice. Torniamo alla Costituzione del 1948, togliamo le ultime, farraginose e abborracciate modifiche, e proviamo ad applicarla questa Costituzione, con maggior rigore di quanto sia stato fatto in questi settant'anni.
Ho già detto che la nostra Costituzione è figlia del suo tempo, ma questo non è soltanto un aspetto negativo. Anzi. Gli anni immediatamente successivi al conflitto mondiale hanno rappresentato probabilmente il punto più alto di un'elaborazione politica tesa a riconoscere il ruolo preminente dello stato sull'economia, la necessità di garantire diritti universali ai lavoratori, l'obiettivo di trovare strumenti per la redistribuzione della ricchezza, il bisogno di creare una rete di servizi pubblici, finanziati dalla collettività, per aiutare le persone in difficoltà, allo scopo di riconoscere a tutti uguali condizioni di partenza.
La storia del Novecento è stata segnata dalla grande crisi del capitalismo, una crisi di cui adesso - in un'epoca in cui questo è tornato vincente in maniera così violenta - facciamo fatica a capire le possibili conseguenze. Molti, a seguito della crisi del '29, pensarono che il sistema capitalista fosse destinato a sparire, che si fosse completato quel ciclo descritto da Marx e che sarebbe nato, dalle ceneri del capitale, qualcosa di diverso. Sappiamo che a seguito di questa crisi ci fu la risposta antidemocratica del fascismo, ma - una volta che questo fu sconfitto - si provò a immaginare un sistema che in qualche modo imbrigliasse la bestia del capitale, che ne mitigasse la violenza, anche per ripagare lo sforzo di quelle classe sociali più povere, il cui contributo alla sconfitta del fascismo era stato determinante, che avevano retto lo sforzo durante il conflitto, che si erano messe alla prova, e che avevano vinto quella sfida. Naturalmente sarebbe anacronistico giudicare la nostra Carta - come tutte quelle scritte all'indomani della fine della seconda guerra mondiale - come una costituzione socialista, eppure in essa ci sono tanti elementi socialisti, molti di più di quelli che i conservatori avrebbero voluto concedere, ma che i popoli in qualche modo si presero con la forza, perché avevano combattuto. E avevano vinto.
La vicenda italiana è in qualche modo emblematica di questa storia, che non è appunto solo italiana. Era chiaro che l'Italia non sarebbe diventato un paese socialista, perché così avevano deciso i vincitori della guerra, ed era chiaro che la guida del paese sarebbe toccata ai conservatori, ma le forze socialiste, grazie al ruolo che avevano avuto nella Resistenza e nella guerra di liberazione, assunsero un protagonismo di cui non si poteva non tenere conto e che si tradusse in un dettato costituzionale di forte impianto progressista. Quando diciamo che la Costituzione è nata dalla Resistenza esprimiamo con uno slogan tutto questo.
Sappiamo però che il capitalismo non è stato affatto sconfitto, anzi ha superato quella crisi, si è liberato, a partire dalla fine degli anni Settanta, dai vincoli che le forze progressiste gli avevano imposto finita la guerra ed è tornato a dominare il mondo, sfrenato e violento, come all'inizio del secolo, anzi con una arroganza ancora maggiore. Ha stravinto perché è riuscito a imporre la propria visione del mondo anche alle forze che avrebbero dovuto rappresentare il campo progressista - basti pensare a cosa sono diventati oggi i socialisti europei, per tacere dello schifo che c'è in Italia, dove la sinistra si è suicidata - e domina il mondo con brutalità selvaggia. L'unico limite a questa violenza di classe è rappresentato dalle nostre "vecchie" costituzioni, che infatti sono finite nel mirino delle forze del capitale, che vorrebbero emendarle, modificarle, attenuarne la portata riformista, con la scusa che occorre adeguarsi ai tempi, che servono nuovi strumenti per affrontare le sfide nuove e tutte le menzogne che dicono quelli come renzi, per convincerci che la nostra Carta è da buttare - o da riformare come dicono loro.
Votare NO al prossimo referendum è il nostro modo per cercare di fermare questo attacco, prendendo un po' di tempo e di fiato. Ma non illudiamoci: ne seguirà un altro, e un altro ancora, perché il loro scopo è distruggere queste costituzioni, e le loro risorse sono moltissime, praticamente illimitate. Non possiamo limitarci a stare fermi, a difenderci dentro le mura assediate: saremmo destinati alla sconfitta, anche perché i traditori sono già qui tra di noi, pronti a venderci al nemico. Una volta che avremo resistito a questo nuovo, subdolo, assalto, dovremo avere la forza di gettarci noi all'attacco.
Io comincerei proprio dalla nostra Costituzione, dalla richiesta di applicarla con rigore. Nella Carta c'è già scritto tutto quello per cui vale la pena di lottare: la difesa della sanità e della scuola pubbliche, il riconoscimento dei diritti dei lavoratori, la salvaguardia dei beni comuni, il riconoscimento delle prerogative democratiche. Perché chi vuole cambiare la Costituzione ha sempre due obiettivi: limitare la democrazia e toglierci diritti. Questi due valori viaggiano sempre insieme e per questo noi dobbiamo continuare a chiedere più democrazia e più diritti.
Così il nostro NO si trasformerà in una vittoria.

mercoledì 4 maggio 2016

Verba volant (270): solidarietà...


Solidarietà, sost. f.

Forse la notizia in questi giorni vi è sfuggita. Una trentina di migranti accolti in una struttura a Reggio Emilia hanno protestato davanti alla questura della città emiliana per lamentarsi della scarsa qualità del cibo servito dagli operatori che gestiscono quella struttura. Un politico locale ha criticato questa protesta, dicendo che lamentarsi significa "sputare sulla nostra generosa ospitalità". Ha rincarato la dose, spiegando che "l'unica risposta che avrei dato a una protesta del genere è un sonoro calcio nel culo, altro che delegati e dialogo", criticando implicitamente il questore che aveva ricevuto alcuni rappresentanti dei rifugiati, impegnandosi a verificare la vicenda e la fondatezza delle loro rimostranze.
Quel politico è un esponente locale del pd, ma in fondo questo conta assai poco - il mio pessimo giudizio su quel partito non peggiorerà certo per questo episodio. Al di là di qualche reprimenda di maniera, più per l'opportunità che sul merito delle cose dette, immagino che quel tipo non pagherà dazio per queste sue affermazioni, perché ha espresso quello che hanno pensato in tanti leggendo quella notizia, anzi ha espresso un'opinione largamente diffusa nella nostra società, indipendentemente dalle opinioni politiche o dal credo religioso, l'idea di una maggioranza molto ampia, anche con una volgarità che è ormai dilagante e permeante. Quel tale è stato meno ipocrita di tanti altri che hanno fatto lo stesso commento, e nessuno di loro si è preso la briga di mettersi un momento a pensare a quello che diceva, a cosa rappresentano quelle parole, che idea del mondo rispecchiano. E infatti il nostro paese fa largamente schifo.
Non entro nel merito della vicenda, che non conosco. Ricordo soltanto che quella cooperativa ha già avuto problemi per un uso, diciamo, disinvolto dei fondi assegnati per la gestione dei centri per i rifugiati. Credo - per quel poco di esperienza di ristorazione collettiva che ho - che incassando dallo stato 33 euro a persona, a giorno, si possa gestire in maniera adeguata, oltre agli altri servizi, una cucina, garantendo proposte variate e di qualità. Mi pare che per troppi soggetti - mi vengono in mente anche alcuni albergatori della mia città, che magari dicono di votare Lega e che la domenica non si perdono una messa - questa presenza dei rifugiati sia un affare lucroso, che impegna poco le loro scarse qualità imprenditoriali.
Il tema però è quel "calcio in culo" che tanti - la maggioranza - vorrebbero sferrare a quei rifugiati "ingrati". Ci pensavo confrontando questa storia con le vicende raccontate dal film I compagni di Mario Monicelli. Di questo film ho già parlato - lo so - ma offre così tanti spunti che credo ci tornerò su altre volte. Tutta la storia, ambientata nella Torino operaia di fine Ottocento, è punteggiata dalle collette organizzate da quegli operai, per aiutare un loro compagno che ha perso una mano, per sostenere un altro che è stato sospeso, per mantenere la famiglia di un altro ancora che è stato messo in carcere e così via. Per quasi tutto il film vediamo Omero, il più giovane degli operai, girare con il cappello tra i colleghi per raccogliere i soldi delle collette. Non erano più buoni di quanto lo siamo noi - o forse lo erano, ma non è questo il tema - è che sapevano benissimo che in quel tempo quelle collette erano l'unico aiuto che potevano ricevere e quindi dare oggi un qualche soldo per un compagno in difficoltà, e quindi fare un sacrificio perché la miseria era nera per tutti, significava poter ricevere qualcosa domani, quando loro avessero avuto bisogno. La solidarietà è semplicemente questa cosa qui, non bisogna essere dei santi per aiutare gli altri, basta essere uomini, con tutti i nostri limiti, con tutti i nostri difetti. Quegli operai organizzano una colletta anche per la famiglia dell'operaio siciliano, così diverso da loro - anche fisiognomicamente - su cui pure le loro opinioni non sono affatto benevole, su cui hanno dei pregiudizi, che sfiorano il razzismo. Erano i siciliani allora quelli che vengono a rubarci il lavoro. Quelle donne e quegli uomini erano ignoranti, molti di loro non sapevano né leggere né scrivere, però intuivano un concetto che noi, con tutte le nostre filosofie, non riusciamo più a ricordare, ossia che i poveri si salvano solo se stanno insieme, solo se si aiutano, anche quando non si stanno reciprocamente simpatici.
Poi è vero che adesso c'è il welfare, ci sono i servizi - che noi finanziamo con le nostre tasse, quelli che le pagano - e non possiamo anche farci carico personalmente di aiutare tutti quelli che arrivano qui. Poi è vero che non possiamo aiutare tutti. Poi è vero che tra quelli che arrivano qui ci sono dei delinquenti, degli scansafatiche, dei perdigiorno. Ci sono molte ragioni per essere egoisti, ciascuno di noi è bravissimo a giustificare la propria grettezza. Però la vera questione è che noi non siamo poveri, non lo siamo più - o non lo siamo ancora - mentre quei "negri" che rifiutano la "nostra" pastasciutta, dicendo che è scotta, sono poveri, molto poveri. E questa non è una buona ragione per prenderli a calci in culo.
Naturalmente noi continueremo a fare schifo, a guadagnare su quei poveri che pure diciamo di non volere, e insegneremo loro a essere meschini come siamo noi, insegneremo loro a odiarci, e sarà giusto che ci odino. Quando ci prenderanno a calci in culo non dovremo protestare, perché glielo abbiamo insegnato noi.