giovedì 28 gennaio 2016

Verba volant (243): nascondere...


Nascondere, v. tr.

Un curioso paradosso: proprio mentre stavamo celebrando il Giorno della memoria, ossia l'anniversario in cui è stato svelato al mondo l'orrore dei campi di sterminio nazisti, sugli organi di informazione si è parlato soprattutto di due nascondimenti.
Della decisione - non si capisce ancora di chi - di nascondere le statue antiche raffiguranti dei nudi all'interno dei Musei capitolini, per non offendere il presidente iraniano Rouhani, si è parlato molto. Ha fatto molto meno notizia - anche se è più grave, perché non c'è nemmeno l'attenuante della stupidità - un'altra copertura. A Londra, su un muro che si trova proprio davanti all'ambasciata francese, l'artista inglese Bansky ha tratteggiato in lacrime Cosette, nell'immagine divenuta un'icona pop grazie al musical Les Misérables, con alle spalle un tricolore francese sfrangiato e ai piedi una bomboletta e una nube di gas, per denunciare l'uso dei lacrimogeni sparati dalla polizia francese per respingere i migranti a Calais; la società proprietaria dell'edificio ha nascosto l'opera con un pannello di legno, evidentemente per non offendere le autorità francesi.
Se invito a cena un amico vegetariano evito di preparare i tagliolini ai quattro salumi - che pure sono una mia specialità - come nel caso in cui l'amico sia musulmano (in questo caso evito di mettere in tavola anche il vino): si tratta, con tutta evidenza, di regole di buon senso e di educazione, quella che insegnavano le nonne. Lo stesso buon senso avrebbe dovuto evitare di convocare la conferenza stampa di Rouhani proprio sotto l'immagine della Venere capitolina, per fare in modo che non apparisse in tutte le foto del presidente iraniano quel seno scoperto, per quanto di marmo: in quel caso, per non incorrere in una gaffe diplomatica, bastava scegliere un'altra sala. Coprire - e in quel modo - le statue che si trovavano lungo il percorso è stato invece un grave errore, anche dal punto di vista diplomatico, perché abbiamo trattato Rouhani - che è persona intelligente e colta - come un talebano, come un Adinolfi qualsiasi. Però la cosa preoccupante della vicenda di Roma è la stupidità. Sinceramente mi preoccupa che il cerimoniale, che è un aspetto importante e non marginale della vita di uno stato, perché attiene ai simboli che rappresentano il paese e quindi tutti noi cittadini, venga lasciato nelle mani di persone che evidentemente non sono capaci di fare il proprio lavoro. Così come è stato imbarazzante il successivo teatrino del rimpallo delle responsabilità, come se gli unici a dover pagare di questo errore fossero i falegnami che hanno montato quelle brutte casse.
Quella decisione è grave perché è stupida e perché è il segno che la stupidità - e non la fantasia come si sperava una volta - è al potere. Devo dire, per completezza, che è intriso di stupidità anche gran parte del dibattito che è seguito a questa bizzarra decisione. Non è questione di sudditanza all'islam, come hanno tuonato leghisti, fascisti e crociati di varia natura, ma è mancanza di consapevolezza che queste opere sono parte di un patrimonio culturale comune a tutta l'umanità. Se giustamente tutti deploriamo la distruzione di Palmira, allo stesso modo non possiamo nascondere le opere che raccontano la nostra civiltà. Che è anche la loro civiltà, visto che nel museo archeologico di Teheran ci sono opere fondamentali dell'arte greca. Quella Venere doveva essere liberata da quella brutta cassa non solo perché è una statua bellissima, ma soprattutto perché rappresenta le nostre comuni radici. Perché è il bello che ci potrà salvare in questo mondo in cui predominano sempre più il brutto e l'ignoranza.
La decisione di coprire l'opera di Bansky è più grave perché più consapevole. Chi lo ha ordinato sa che quella è un'opera d'arte - anche con un suo valore commerciale - e quindi non l'ha cancellata, come è avvenuto negli anni passati con tanti lavori di quell'artista, ma l'ha nascosta, perché quel messaggio evidentemente disturba. E certamente quel viso piangente, quel gas che sale, quella bandiera strappata, quel tricolore che in tanti altri quadri è simbolo di libertà, di lotta all'ingiustizia, di democrazia, sono un'offesa, un'offesa ben più provocatoria di un seno nudo.
Quell'immagine ci ricorda che oggi, a più di settant'anni dalla fine dei lager nazisti, in questo mondo - anche in questa parte del mondo, quella che ha liberato Auschwitz - ci sono ancora troppi campi di concentramento, che ovviamente non si chiamano più così, ma in cui donne e uomini vengono rinchiusi solo perché arrivano da un certo paese, solo perché la loro pelle ha un certo colore o solo perché sono poveri. Quell'immagine ci ricorda che c'è ancora un potere che usa la forza non per proteggere i deboli, ma difendere i privilegi dei ricchi. E' questo che dà così fastidio a tutti i potenti più di quanto un culo ben modellato offenda i cardinali o gli ayatollah. Bansky, con pochi tratti delle sue bombolette, ci dice che sono ancora troppi i miserabili che vivono nelle nostre città, tentando di fuggire da un potere che non ha nemmeno più l'ideale di ordine e la fedeltà alle leggi di Javert, ma solo l'avidità e la rapacità di Thénardier. E per questo il potere fa crescere in noi cittadini la paura, ci rende sempre più cattivi verso gli altri, che invece sono come noi, soffrono come noi.
E' difficile immaginare due opere d'arte così radicalmente diverse come la Venere capitolina e un graffito di Bansky. Eppure tutte e due sono state nascoste, perché evidentemente il potere ha paura dell'arte, della poesia, della cultura, perché evidentemente quelle due opere, per quello che rappresentano, sono uno schiaffo al potere che ci vuole sudditi ignoranti. Per questo noi abbiamo così bisogno che l'arte non sia nascosta, per questo abbiamo così bisogno che l'ignoranza sia sconfitta, per questo abbiamo così bisogno di cultura.

lunedì 25 gennaio 2016

Verba volant (242): banchetto...

Banchetto, sost. m. 

Ho sempre cercato di avere attenzione e rispetto per le parole, anche prima di imbarcarmi in questa avventura di scrivere un vocabolario, perché credo che le parole raccontino molto, anche al di là del modo in cui noi le usiamo, o le sappiamo usare. Mi hanno colpito oggi alcune espressioni usate per raccontare la visita del presidente iraniano Rouhani in Italia. L'Italia al banchetto iraniano titola un giornale; nell'articolo si parla dei molti accordi commerciali che verranno firmati e viene usata l'espressione bottino italiano, per dire che saranno particolarmente lucrosi per alcune imprese di questo paese. Queste parole non sono state usate in senso negativo, ma in un articolo, peraltro ospitato in un giornale dei padroni, il cui autore voleva esprimere evidentemente tutto il proprio entusiasmo per questi soldi in arrivo verso le aziende del nostro paese.
In uno sketch degli anni Ottanta in cui si mettevano alla berlina i primi politici leghisti che allora cominciavano ad apparire in televisione, il rappresentante di uno di questi fantomatici partiti del nord - peraltro interpretato da un comico del sud - diceva: non siamo noi a essere razzisti, siete voi a essere meridionali. Ecco, a proposito di quell'articolo mi verrebbe da dire: non siamo noi a essere anticapitalisti, siete voi a essere ladri. Perché non lo riuscite proprio a nascondere che in fondo il capitalismo è quella roba lì: un furto su larghissima scala, in cui le autorità che dovrebbero sanzionarvi non solo non fanno rispettare le leggi e la giustizia, ma sono vostri complici. I guadagni di queste aziende che da oggi torneranno a commerciare con l'Iran non rappresentano un beneficio per tutto il paese, ma solo per i padroni di quelle aziende. Per anni ci hanno fatto credere che fosse vera la frase attribuita a Gianni Agnelli che ciò che va bene per la Fiat va bene per l'Italia. No, non è così: ciò che va bene per la Fiat va bene per i padroni della Fiat, e gli interessi dei padroni della Fiat sono diversi, in alcuni casi, in conflitto, con gli interessi del paese, a partire da quelli dei lavoratori; eppure questa retorica funziona ancora, è entrata in circolo come un veleno e non riusciamo più a eliminarla. Anzi in nome di questa retorica, e degli affari che questa nasconde, si conduce tutta la politica. Il viaggio di Rouhani lo dimostra bene.
Leggendo quel titolo mi è venuta in mente anche la scena con cui si conclude La Fattoria degli animali di George Orwell, il banchetto in cui, per la prima volta, si ritrovano allo stesso tavolo i maiali e i proprietari delle fattorie vicine; gli altri animali, che guardano da fuori della finestra, non riescono più a distinguere quali siano gli uomini e quali i maiali. Ancora noi li distinguiamo i nostri maiali dai loro, perché il nostro presidente ha la cravatta e il loro ha un turbante, ma quelli del seguito, quelli per cui è stato davvero organizzato questo viaggio, sono indistinguibili, perché gli affari sono affari e quelli parlano tutti la stessa lingua, quella dei soldi, hanno tutti le stesse facce. Facce di cui non possiamo fidarci.
Ci sarebbero molte ragioni per essere soddisfatti di questo viaggio del presidente iraniano, della fine delle sanzioni, del ruolo che quel paese torna a svolgere in un'area del mondo in cui ha da sempre rappresentato un elemento centrale. Ci sarebbe da essere soddisfatti perché potrebbe significare che quel regime è destinato a cambiare, anche sotto la pressione di un'opinione pubblica che è tutt'altro che monolitica e in cui i giovani stanno svolgendo un ruolo importante. Noi dovremmo guardare con più attenzione a quel grande paese, dalla storia così ricca, cercando di capire come aiutare chi sta provando davvero a cambiare. Eppure questo è solo un viaggio per fare affari, per far arricchire ancora di più quelli che sono già ricchi e far diventare più poveri quelli che sono già poveri, perché il capitalismo, a cui nonostante tutto, nonostante tutta la retorica, anche gli ayatollah si sono piegati, come hanno fatto, prima di loro, i dirigenti comunisti cinesi, ha vinto. E vuole stravincere; anche nell'uso delle parole.

mercoledì 20 gennaio 2016

Verba volant (241): licenziare...

Licenziare, v. tr. 

Sono un dipendente pubblico, che cerca di fare il proprio lavoro nel miglior modo possibile. Tempo fa - una vita fa, a dire il vero - sono stato anche un amministratore, in un Comune. Per esperienza quindi so che ci sono tanti dipendenti pubblici bravi e naturalmente so anche che ce ne sono alcuni che meriterebbero di essere mandati a casa; in meno di 48 ore.
Proprio perché lavoro in un Comune sono contento che alcuni miei "colleghi" che lavoravano a Sanremo siano stati licenziati; spero anche che il lavoro della commissione disciplinare non si fermi lì e verifichi bene le responsabilità di quello che è accaduto. Perché se tante persone lavorano così male o non lavorano affatto, come pare sia accaduto in quell'ente, è difficile credere che la colpa sia solo di quei dipendenti infedeli, anzi sarebbe troppo comodo cavarsela così, con un po' di licenziamenti, peraltro sacrosanti - lo ripeterò allo sfinimento per non essere frainteso. Come mai i dirigenti ben pagati di quel Comune ci hanno impiegato così tanto tempo a capire cosa stava accadendo, peraltro in maniera così sfrontata e plateale? Dove erano gli amministratori che avrebbero dovuto accorgersi di quello che succedeva nella loro, neppure grandissima, città?
In Italia spesso siamo abituati ad affrontare le cose con questo impeto gattopardesco: ci infuriamo se qualcosa va male, incolpiamo qualcuno - in genere uno dei più sfigati - e poi ci disinteressiamo delle cause di quel problema, che infatti si ripresenterà, magari dopo qualche anno, in maniera perfino più grave. Pensate a quello che è successo negli anni Novanta con il fenomeno che ci siamo abituati a chiamare Tangentopoli: tutti in piazza, indignati verso chi rubava, tutti a richiedere misure esemplari, tutti a sventolare cappi o a gettare monetine, poi qualche pesce piccolo è rimasto nella rete, qualcuno ha fatto un po' di meritata galera, ma dopo qualche anno abbiamo scoperto che sostanzialmente il sistema delle tangenti è rimasto in piedi, a volte con gli stessi protagonisti di allora, specialmente tra i pagatori, che furono abbastanza scaltri e lesti da mettersi dalla parte delle vittime.
Adesso è popolare scagliarsi contro i dipendenti pubblici, anzi in questo paese lo è sempre stato: da sempre siamo oggetto di satira e di sberleffo, molto prima che arrivasse Checco Zalone. E quindi la politica cavalca questo sentimento popolare, anche se non proprio commendevole. Si richiedono interventi esemplari, ci spiegano che servono norme severe, severissime, per punire i dipendenti che fanno i furbi, che devono essere licenziati in 48 ore. Non ci dicono però che le leggi per licenziare i dipendenti che rubano lo stipendio, o che rubano altro, ci sono già, bisogna applicarle, come hanno fatto a Sanremo e, come ho detto, bisognerebbe applicarle con più rigore, andando più a fondo, senza guardare in faccia a nessuno, senza timore di urtare equilibri politici e sindacali consolidati e ben oliati. Perché - e lo dobbiamo dire senza ipocrisie - anche un certo modo di fare sindacato all'interno della pubblica amministrazione ci ha portato a questa situazione.
Non so se si farà questa legge per il licenziamento veloce. Spero di no, perché sarebbe un grave errore. Ma ormai non è neppure importante farla, perché il messaggio è passato: il governo è schierato con i cittadini vessati dai burocrati che timbrano il cartellino in mutande e sarà implacabile nel punirli. E da domani - al massimo da dopodomani - tutto tornerà come prima. Quelli che meriterebbero di andare a casa staranno lì, a fare poco o niente - quando va bene e non fanno danni - perché protetti da un sistema che in fondo non vuole davvero risolvere i problemi della pubblica amministrazione, ma preferisce tenerci così, come un alibi sempre a disposizione, quando qualcosa va male; e qualcosa che va male c'è sempre. Questo non va? E' colpa di quei dipendenti pubblici incapaci. Quest'altro non funziona? E' colpa di questi altri che hanno rubato. Ma tutto si risolverà, in 48 ore e poi in 24 e poi all'istante, perché prima o poi verrà il ministro che proporrà il licenziamento immediato, con l'esposizione del colpevole sulla pubblica gogna. E non dimentichiamo che ci sono quelli che ci guadagnano a dire che noi dipendenti pubblici siamo incapaci, inetti, furbastri, perché sono gli stessi che dicono che i privati - ossia loro - possono fare meglio di noi quello che noi facciamo male. Ovviamente lo fanno prendendo più soldi di quanti ne prendiamo noi e nessuno a loro sembra chiedere conto di come fanno quello che fanno, perché il privato è sempre bello e il pubblico sempre brutto e cattivo.
Ovviamente dopo questa ennesima sfuriata rimarranno al loro posto gli amici, gli amici degli amici, gli iscritti al circolo della canasta - ormai ai partiti non si iscrive più nessuno - e quelli che rubano molto, perché in genere sono quelli che hanno più amici. E anche noi rimarremo, noi che lavoriamo, noi che abbiamo pochi amici, noi che ci arrabattiamo con una legislazione sempre più confusa e bizantina, con mezzi sempre meno adeguati e con risorse ogni giorno più modeste. In attesa della prossima sfuriata che non cambierà nulla.

martedì 19 gennaio 2016

"Ai miei amici di Romagna" di Andrea Costa

Lugano, 1879

Miei cari amici,
fin da che uscii dal carcere di Parigi e potei ritornare a me stesso e parlare e scrivere liberamente, pensai di rivolgervi alcune parole, che vi dimostrassero come io, nonostante la lunga separazione e le pratiche diverse della vita e gli avvenimenti, era pur sempre vostro e non domandava di meglio che di riprendere con voi l’opera della nostra comune emancipazione; ma le poche notizie che aveva del movimento attuale italiano, le tristi condizioni di buona parte dei nostri amici e un po’ anche il mio stato di salute, mi trattennero dallo scrivervi.
[...] Miei cari amici! Noi ci troviamo, parmi, alla vigilia di un rinnovamento. Noi sentiamo tutti o quasi tutti che ciò che abbiam fatto fino ad ora non basta più a soddisfare né la nostra attività, né quel bisogno di movimento senza cui un partito non esiste: noi sentiamo insomma che dobbiamo rinnovarci o che i frutti del lavoro che abbiam fatto fin qui saran raccolti da altri. Io sono ben lungi dal negare il passato. Ciò che facemmo ebbe la sua ragion d’essere; ma se noi non ci svolgessimo, se non offrissimo maggior spazio alla nostra attività, se non tenessimo conto delle lezioni che l’esperienza di sette od otto anni ci ha date, noi ci fossilizzeremmo: noi potremmo fare oggi a noi stessi le medesime accuse che facevamo ai Mazziniani nel ‘71 e nel ‘72. Quando non si va avanti, si va necessariamente indietro: io credo che noi vogliamo tutti andare avanti.
Noi facemmo quello che dovevamo fare. Trovandoci da un lato tra un idealismo stantìo (il Mazzinianesimo) che senza tener conto dei postulati della scienza metteva la ragion d’essere dei diritti e della nobiltà dell’uomo non nell’uomo stesso, ma al di fuori di lui - in Dio -; trovandoci dall’altro tra un partito d’azione generoso, ma cieco e senza idee determinate, vagante dalle elevate concezioni della democrazia alla dittatura militare, (dei partiti governativi e del clericale non parlo perché sono fuori di discussione), noi rivelammo energicamente ed affermammo la forza viva del secolo - la classe operaia; ma senza racchiudervi in uno stretto cerchio di casta, voi accettaste il concorso fraterno di quella piccola parte della borghesia, di quei giovani soprattutto, che, i privilegi della loro classe, essendo loro odiosi, si mescolarono fra di voi, e vi sostennero coi mezzi medesimi che la borghesia loro aveva dati, aprendo ad essi l’adito alla scienza. Nel tempo stesso che noi affermavamo l’emancipazione dei lavoratori (cioè coloro che producono cose utili), noi sollevammo ed agitammo tutte le questioni che vi si riferiscono: proprietà, famiglia, stato, religione, dando ad esse una soluzione in armonia con la scienza e con la rivoluzione. Oltre a ciò noi non negammo le tradizioni rivoluzionarie del popolo italiano e soprattutto quel principio che inspirava fin dal ‘57 i nostri eroici precursori della spedizione di Sapri, la propagazione delle idee per mezzo dei fatti. Donde, il lavoro che facemmo contemporaneamente: lavoro di svolgimento intellettuale e morale per mezzo delle conferenze, dei giornali, dei congressi e tentativi rivoluzionarii per abituare il popolo alla resistenza e propagare colla evidenza dei fatti le idee ed ove fosse possibile attuarle.
Ma i tentativi di rivoluzione falliti avendoci privati per anni interi della libertà, o avendoci condannati all’esilio, noi ci disavvezzammo disgraziatamente dalle lotte quotidiane e dalla pratica della vita reale: noi ci racchiudemmo troppo in noi stessi e ci preoccupammo assai più della logica delle nostre idee e della composizione di un programma rivoluzionario che ci sforzammo di attuare senza indugio, anziché dello studio delle condizioni economiche e morali del popolo e de’ suoi bisogni sentiti ed immediati. Noi trascurammo così fatalmente molte manifestazioni della vita, noi non ci mescolammo abbastanza al popolo e quando, spinti da un impulso generoso, noi abbiamo tentato d’innalzare la bandiera della rivolta, il popolo non ci ha capiti, e ci ha lasciati soli.
Che le lezioni dell’esperienza ci approfittino. Compiamo ora ciò che rimase interrotto. Rituffiamoci nel popolo e ritempriamo in esso le forze nostre...
Noi dobbiamo fare assai più di quel che facemmo sino ad ora; ma in sostanza dobbiamo restare quel che fummo: un partito di azione. Ma essere un partito d’azione non significa voler l’azione ad ogni costo e ad ogni momento. La rivoluzione è una cosa seria. Un partito deve comporsi di elementi diversi che si compiano a vicenda. Ed un partito come il nostro che si propone di affrettare la trasformazione inevitabile delle condizioni sociali e dell’uomo - che s’inspira alla scienza - che non vede limiti al suo svolgimento - che non si occupa solo degli interessi economici del popolo, ma vuole soddisfatte tutte le sue facoltà intellettuali e morali, oltre al proletariato - uomini e donne - deve necessariamente comporsi della gioventù, dei pensatori e delle donne della borghesia a cui l’attuale stato di cose riesce odioso e che desiderano maggiore giustizia nei rapporti sociali: esso deve infondere nell’uomo uno spirito nuovo e - per quanto lo permettono le tristi condizioni sociali in cui viviamo e la cattiva educazione che abbiamo tutti ricevuta - dare a’ suoi membri quella forza e quella vita morale che li renderà un esempio vivente di vita nuova.
Non pensiamo che basti gettare al popolo il grido del «Pane!» per sollevarlo. Il popolo è di natura sua idealista (il Lazzaretti ce l’ha provato) e non si solleverà se non quando le idee socialistiche abbiano per lui il prestigio e la forza di attrazione che ebbe un tempo la fede religiosa.
Ma verrà tempo di occuparci come conviene anche delle questioni morali. Ora ne abbiamo altre che ci stringono più da vicino.
La rivoluzione è inevitabile; ma l’esperienza ci ha, credo, dimostrato che non è affare né di un giorno né di un anno. Perciò, aspettando e provocando il suo avvenimento fatale, cerchiamo quale è il programma generale intorno a cui si raccolgono tutte le forze vive e progressive della generazione nostra. Questo programma è, secondo me: il Collettivismo come mezzo, l’Anarchia come fine - programma d’oggi, che fu il nostro programma d’ieri. Intorno al Collettivismo si raccolgono oggi non solamente gli operai italiani che si occupano della loro emancipazione, ma la maggioranza degli operai francesi, belgi, spagnuoli, tedeschi, danesi e gran parte dei nichilisti russi. Non solo, ma il suo avvenimento inevitabile è così evidente, che dei pensatori usciti dalla borghesia, degli economisti, dei professori all’università di ogni nazione lo accettano a fondamento inevitabile del riordinamento sociale.
L’accomunamento della terra e degli strumenti da lavoro avrà per conseguenza necessaria l’accomunamento dei prodotti del lavoro; e quando questo accomunamento abbia luogo, ogni legge che regoli i rapporti fra gli uomini deve necessariamente sparire giacché e l’abbondanza della produzione e la nuova educazione, che le nuove condizioni sociali e la pratica della solidarietà umana daranno all’uomo, le renderanno inutili. Allora potrà attuarsi quel comunismo anarchico che oggi apparisce come il più perfetto ordinamento sociale. Ma per noi non si tratta solamente di proporre un ideale lontano che fra qualche anno forse potrà sparire offuscato da un ideale ancor più luminoso. Per noi si tratta di sceglierci un programma immediatamente attuabile, e questo crediamo di trovarlo nel collettivismo considerato come fondamento economico della società e nella federazione dei comuni autonomi considerata come organamento politico. Giacché la rivoluzione si compierà e non potrà compiersi che in condizioni economiche e morali relativamente all’avvenire assai tristi e non attuerà immediatamente, se non ciò che la maggioranza avrà dentro. Onde la necessità di un ordinamento interno. Quanto tempo questo abbia a durare, non so; ma esso si trasformerà ogni qualvolta ne sarà sentito il bisogno e si andranno man mano scoprendo le leggi dei rapporti sociali, giacché i fenomeni sociali come i naturali avvengono secondo leggi determinate, che non s’inventano né si decretano ma si scoprono; e l’uomo naturalmente - senza violenza alcuna - vi si uniformerà come si uniforma oggi alle leggi della gravitazione.
Il programma largo ed umano che mi sforzai di tracciarvi è oggi sostenuto dalla maggior parte de’ socialisti; ed io spero che sarà accettato da tutti coloro che non vogliono chiudersi la via ad un’azione efficace sul loro secolo e sul loro paese. Or mi resterebbe a dirvi quali mezzi pratici io penso che si debbano mettere in opera per farci sempre più largo tra il popolo, quale condotta dobbiamo tenere, sia verso il governo, sia verso gli altri partiti politici e quale importanza daremo alle riforme politiche, nella speranza delle quali si culla oggi gran parte del popolo italiano; ma la mia lettera è già troppo lunga; ed io spero che tali questioni le risolveremo insieme in un Congresso che si terrà quando che sia. Per ora, secondo me, la cosa più importante da farsi è quella di ricostituire il Partito socialista rivoluzionario italiano, che continuerà l’opera incominciata dall’Internazionale e che, federandosi o prima o poi coi partiti simili esistenti negli altri paesi, ristabilirà su basi solide la Internazionale, ora dappertutto in isfacelo. L’Internazionale - come esisté fino ad ora - rappresentò un momento storico della vita delle plebi; ma non potrebbe rappresentare tutta la loro vita: noi non abbandoneremo per altro il nome dell’Internazionale; ma vogliamo che non sia un semplice spauracchio, si bene che si fondi sull’organamento solido de’ partiti socialistici esistenti ne’ paesi diversi.
Questo, amici miei, è quanto doveva dirvi. Come vedete, non si tratta di rigettare il nostro passato, di cui, nonostante le sventure e i molti disinganni sofferti, possiamo per sempre andar fieri: né di cessar di essere quel che fummo; si tratta solamente di far di più e di far meglio. L’Internazionale ha fatto molto in Italia. Pensate a quel che eravamo sette od otto anni fa e a qual punto siamo ora, e vedrete.
[...] Coraggio adunque! Pensate quanti tentativi falliti prima che l’indipendenza d’Italia si compisse; e non isgomentiamoci se fino ad ora non ottenemmo tutto quello che avremmo voluto. Prepariamoci ad ottenere maggiormente. Grande compito è il nostro, o amici; e il momento di attendervi è propizio. Il movimento di pacificazione fra le diverse fazioni di socialisti, incominciato al Congresso di Gand, si va operando, grazie sopratutto alle persecuzioni internazionali dei governi. I vari partiti socialistici desistono dalle loro pretensioni assolute e, in luogo di cercare la divisione, si cerca dappertutto il contatto fraterno perché si sente che s’avvicina un tempo in cui dovremo disporre di tutte le forze nostre. Gli uomini, conosciutisi meglio, cominciano a stimarsi; e, se non vanno compiutamente d’accordo, non ricomincieranno giammai le polemiche dolorose degli anni passati. Le idee e il sentimento umano che si svolge ogni giorno più in noi ci animano alla lotta.
All’opera dunque! All’opera!

Il vostro Andrea Costa

lunedì 18 gennaio 2016

Verba volant (240): vittima...

Vittima, sost. f.

Secondo l'etimologista Otorino Pianigiani ci sono diverse ipotesi per spiegare l'origine di questa parola. Potrebbe derivare da victus, ossia vitto, perché si trattava appunto del cibo offerto agli dei; oppure potrebbe essere legata al termine victoria perché gli antichi immolavano agli dei affinché questi li aiutassero a vincere le battaglie e, una volta ottenuta la vittoria, erano proprio i vinti le prime vittime dei loro sacrifici; infine potrebbe essere collegata al verbo vigere, ossia essere forte, perché venivano sacrificati gli animali più robusti, migliori, per compiacere in questo modo gli dei. Fortunatamente non esiste nessun dio e, se esistesse, non si curerebbe affatto di queste nostre inutili offerte.
Oggi voglio parlarvi di una vittima, il cui sacrificio è stato certamente inutile e l'etimologia mi viene davvero in aiuto. Ashley era certamente migliore dell'uomo che l'ha uccisa, che forse lo ha fatto proprio perché si è sentito più debole di quella donna indipendente e libera. Ashley era certamente migliore di molti di quelli - per lo più maschi - che hanno parlato e scritto di quell'omicidio. Perché Ashley è stata non solo la vittima di quell'uomo che l'ha uccisa, ma è stata soprattutto la vittima di un'ipocrisia diffusa, di una morbosità pornografica imperante nei mezzi di informazione. Se la vittima di quella tragica notte di sesso fosse stato il maschio, i commentatori avrebbero certamente accusato la donna, colpevole di aver eliminato quell'uomo che l'aveva voluta solo per una notte; quel maschio sarebbe stato presentato come un dongiovanni, un donnaiolo, ma nessuno avrebbe scritto se l'è andata a cercare. Ashley invece è colpevole anche se è stata uccisa, perché evidentemente una donna, per di più fidanzata, che si porta a letto un uomo, per di più nero - e irregolare ricordano i leghisti - solo per una notte, in fondo è un po' zoccola e quindi lei se l'è andata a cercare, come molti hanno pensato, o almeno non è stata prudente, come molti altri, più ipocriti, hanno scritto. Niente candele sui social per una così, niente di quelle forme di pietà a buon mercato che esibiamo quando muore qualcuno di cui ci importa poco o nulla, ma che ci servono a far bella figura in questa piazza virtuale.
Ashley era una donna di trentacinque anni - smettiamola anche di etichettarla come giovane, solo in una società gerontocratica, maschilista e sessuofoba come la nostra una donna di trentacinque anni è una giovane, e quindi stupida - era una donna libera e capace di scegliere, che aveva il diritto di scegliere e doveva essere sicura quando lo faceva, libera anche di scegliere chi portarsi a letto; anche solo per una notte.
Sono più di vent'anni che la nostra sedicente civiltà è in guerra, con il pretesto di portare in un altro mondo il nostro stile di vita, giustificando quell'eterno conflitto con la necessità - che nessuno di noi nega - di riconoscere alle donne di quei paesi i diritti che sarebbero riconosciuti alle nostre donne. Anche il diritto di fare sesso con chi vogliono? Anche per una sola notte? Curiosamente quelli che sono così battaglieri nel voler togliere il burqa alle donne islamiche sono gli stessi che dicono che una donna occidentale - nostra figlia, nostra sorella, una nostra amica - in minigonna o con i jeans attillati non può essere considerata una vittima, perché ha provocato il povero uomo, evidentemente incapace di intendere e di volere. Sono davvero pedanti questi maschi che pretendono di dire cosa le donne devono o non devono indossare. Forse allora il problema di questi maschi non sono i vestiti, ma sono proprio le donne, perché si sentono minacciati da loro.
So bene che le donne di questa parte del mondo - diciamo per semplicità la nostra - stanno meglio delle donne dell'altra parte, per merito soprattutto delle donne, della loro capacità di lottare, perché se avessero aspettato noi maschi sarebbero rimaste ancora un bel po' indietro. Però la storia di Ashley ci dice che quel cammino non è compiuto, perché in una società in cui la mobilità sociale è così frenetica può succedere che si incontrino elementi di culture così differenti e che l'incontro tra un maschio cresciuto in una società fortemente misogina - perfino più della nostra - e una donna libera abbia esiti drammatici. Perché per molte persone - specialmente maschi purtroppo - il sesso è ancora qualcosa di misterioso, difficile da capire e da interpretare; e quello che potrebbe essere un atto di gioia, un momento di incontro, anche occasionale, diventa una relazione di potere, qualcosa che possiamo ottenere pagando, in segno del nostro potere, visto che, finite le guerre di conquista e la possibilità di stuprare le prigioniere, ci rimangono solo le puttane. Perché ancora per troppi giudici dei nostri civilissimi paesi se una donna apre le gambe non è stupro. E perché, nel modo in cui raccontiamo questo incontro - specialmente quando diventa scontro, come nel caso di Ashley - c'è ancora qualcosa che tradisce tutti i nostri pregiudizi, tutta la la nostra arretratezza, tutta la nostra ignoranza.
Dovremmo riconoscere che sono più forti, migliori di noi, ma non per questo devono diventare vittime.

domenica 10 gennaio 2016

Verba volant (239): bomba...

Bomba, sost. f.

I miei lettori più giovani non lo possono ricordare, ma per noi - e soprattutto per la generazione prima della nostra - la bomba è stata una minaccia reale, molto concreta per quanto lontana. Noi avevamo paura della bomba, anche se naturalmente nessuno ne aveva subito gli effetti e - per fortuna - li avrebbe mai subiti. Ovviamente non mi riferisco alle bombe "convenzionali" che purtroppo abbiamo visto e sentito scoppiare, anche molto vicino a noi, alle bombe che hanno ucciso a Milano, a Brescia, a Bologna, ma alla bomba atomica e a quella ad idrogeno, le bombe che erano state usate soltanto ad Hiroshima e a Nagasaki e che riempivano gli arsenali degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica e di alcuni altri paesi.
Razionalmente sapevamo che quelle bombe erano efficaci solo se non scoppiavano, anzi proprio perché non sarebbero mai scoppiate, che servivano a quella che si chiamava deterrenza, eppure ne avevamo comunque paura, perché i loro effetti sarebbero stati imprevedibili. Avevamo paura che una bomba scoppiasse per errore o per mano di un folle, dando così il via a un conflitto dagli esiti catastrofici per l'intero pianeta. La paura della bomba era qualcosa che tentavamo di esorcizzare in molti modi, perfino a scuola, nei disegni in cui ingenuamente rappresentavamo gli uomini di paesi diversi, un bianco, un nero, un cinese e così via - anche se i neri non avevano la bomba - tenersi la mano in un girotondo di pace, in un mondo finalmente libero dalla bomba. Capita ancora qualche volta di imbattersi in cartelli con la scritta Comune denuclearizzato; anche quello era un modo per esprimere, in maniera certamente velleitaria, l'impegno per la pace e per un mondo senza bombe. Quei cartelli avevano la stessa efficacia dei disegni che noi facevamo alle elementari. La bomba era un pericolo reale e incombente, contro cui le nostre speranze e anche il nostro impegno finivano inevitabilmente per soccombere.
Dopo qualche anno, a un certo punto, praticamente all'improvviso, abbiamo smesso di avere paura della bomba. Le bombe c'erano - e ci sono - ancora, sono sempre là dov'erano prima, custodite negli stessi arsenali - anche se in qualche caso è cambiata la bandiera che ci sventola sopra. Molte negli anni sono state distrutte, ma non tutte, e sappiamo che quelle poche che sono rimaste sarebbero sufficienti per distruggere il pianeta. Non c'è ragione per essere tranquilli, eppure non abbiamo più paura. Immagino che a scuola non si facciano più gli stessi ingenui disegni che facevamo allora e i cartelli Comune denuclearizzato sono ormai un oggetto di "archeologia amministrativa". Eppure il mondo è più complesso ora di allora, ci sono più soggetti fuori controllo, le bombe potrebbero molto più facilmente di allora cadere in mano a pazzi o a fanatici o a disperati. Ma non abbiamo più paura, neppure la notizia che forse il regime della Corea del nord potrebbe avere la bomba ci ha davvero spaventato, nonostante l'impegno con cui i mezzi di informazione hanno tentato di far rinascere la paura, disegnando un "nuovo cattivo" contro cui dovremmo batterci.
Forse è successo perché adesso abbiamo una paura più concreta, più reale, più probabile, come quella di rimanere vittime di un attentato terroristico, mentre assistiamo a un concerto, a una partita di calcio, o semplicemente perché un giorno abbiamo preso un vagone della metropolitana piuttosto che un altro o imboccato con la nostra auto una strada proprio in quel fatale momento.
In fondo la bomba ci proteggeva, perché contribuiva a dare un ordine al mondo che, mancata la paura della bomba, è andato inesorabilmente perduto. Ovviamente questo è qualcosa che riguarda soltanto noi, che abbiamo avuto la fortuna di vivere in questa parte del mondo, quella che aveva la bomba, perché nei quasi cinquant'anni in cui è durata la "pace delle bombe", negli altri paesi del mondo, quelli che non avevano la bomba, le guerre sono continuate e là le donne e gli uomini hanno continuato a morire per colpa delle bombe "normali". Noi vivevamo protetti dal fungo atomico, mentre là fuori i poveri si scannavano, quasi sempre in conflitti in cui combattevano al nostro posto. Allora qualcuno di noi pensava e diceva che le guerre, tutte le guerre, dovevano finire, che non avrebbe più dovuto esserci la bomba, ma che avremmo dovuto anche rimuovere le cause che provocavano quei conflitti, che si continuavano a combattere con i fucili, in alcuni casi perfino con le spade e i coltelli. Non è successo. La bomba è stata in qualche modo disinnescata, ma le cause di quei conflitti sono ancora tutte lì, anzi sono state in qualche modo acuite, perché è cresciuto il divario tra i pochissimi che hanno quasi tutto e i moltissimi che non hanno quasi niente, perché la guerra di classe che i ricchi combattono contro i poveri è sempre più violenta e crudele. E così la guerra delle bombe "normali", dei fucili, perfino dei coltelli è tornata anche qui, dove ci eravamo dimenticati cosa significasse. Per questo dobbiamo riannodare il filo del nostro impegno politico, ricordare cosa dicevamo un tempo, fare in modo che la nostra lotta sia la lotta di quella degli altri popoli, che non devono più essere nostri nemici, ma diventare nostri alleati. Dobbiamo ricordare, a noi e a loro, che i poveri del mondo devono combattere la stessa guerra, perché hanno gli stessi nemici, mentre ora ci fanno combattere su fronti opposti. E che, se vinceremo, vinceremo insieme.
E' così che ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba.

lunedì 4 gennaio 2016

Verba volant (238): rovescio...

Rovescio, agg. e sost. m. e f.

In questi primissimi giorni del 2016 si sta parlando molto, e quasi sempre a sproposito, dell'errore di oltre un minuto con cui Rai Uno ha annunciato in anticipo l'arrivo del nuovo anno. Ormai non sanno fare più nemmeno il conto alla rovescia, ma francamente mi pare un errore veniale. Non è scandaloso quello sbaglio nella sincronizzazione dell'orologio con cui tanti di noi hanno fatto il conto alla rovescia per stappare le bottiglie di spumante e in fondo non è neppure scandalosa la bestemmia scritta in un sms da un telespettatore e trasmessa inavvertitamente per pochi secondi, insieme agli altri auguri che passavano velocemente nella parte bassa del teleschermo.
Naturalmente la cosa sta facendo rumore perché è stato nominato Dio invano e questo disturba l'azionista di maggioranza della televisione pubblica italiana: se fosse stato un insulto a carattere sessuale rivolto a una donna le gerarchie vaticane avrebbero fatto molto meno casino e di questo episodio non parleremmo più. Il funzionario colpevole di questa disattenzione ha detto che quella bestemmia gli è sfuggita perché prima aveva già dovuto cancellare più di trecento messaggi con contenuti inappropriati e questo la dice lunga sul genere di società in cui viviamo, se trecento persone si sono prese la briga di mandare un sms con una bestemmia o una sconcezza solo per il gusto di vederla in televisione. Per non parlare di quelli che hanno letto tutti quegli inutili messaggi con la sola segreta speranza di leggere una bestemmia o qualche altra volgarità.
E questo paese è anche così becero e spesso squallido, perché la televisione è becera e spesso squallida: e lo spettacolo dell'altra notte ne è l'esempio più eclatante. Lo scandalo vero, la cosa di cui dovremmo indignarci, è che il più importante canale televisivo pubblico di questo paese non sia riuscito a fare nulla di meglio di uno spettacolo indecoroso e triste come L'anno che verrà, anzi che da molti anni non riesca a fare nulla di meglio di così. Lo scandalo è l'assoluta incapacità di fare qualcosa di meglio di questa esanime e ripetitiva sagra da strapaese.
La Rai quest'anno ha deciso di trasmettere lo spettacolo di fine d'anno da Matera e non più da Courmayeur, un po' perché la Regione Val d'Aosta ha deciso di smettere di tirare fuori dei soldi per finanziare questo preteso "evento", e un po' per avere il pretesto di festeggiare la prossima capitale europea della cultura. E così i guitti sono scesi, armi e bagagli, nella città lucana - miracolando Rocco Papaleo, per la ragione che è l'unico lucano che conoscono - e hanno messo in piedi un carrozzone fatto di battute di terz'ordine, di qualche ragazza scosciata, di imitazioni di basso livello, di qualche canzone troppo conosciuta: ormai qualunque telespettatore con un po' di memoria potrebbe indovinare quali brani verranno trasmessi in una trasmissione del genere. Ai preti, ai benpensanti, agli intellettuali di questo paese non dà fastidio che le donne in televisione vengano usate solo come tappezzeria? Che vengano valutate solo per la taglia del reggiseno? Ai preti, ai benpensanti, agli intellettuali non disturba la stupidità, la mancanza di fantasia, la scarsa professionalità? No, a loro importa solo dell'ora esatta e delle bestemmie. L'unica idea avuta dagli autori dello spettacolo è il rapporto con il pubblico, che fa tanto social, rappresentato appunto da quello scorrere di messaggi inutili e sgrammaticati, che ha tirato fuori il peggio dei telespettatori, al netto della censura poco efficace. Non c'è da stupirsi, se la televisione da anni insegna che per far ridere basta dire merda o cazzo e che un bel sedere fa alzare l'audience cosa possiamo aspettarci da quelli che smanettano da casa con il loro cellulare?
Nessuno si aspetta che lo spettacolo di fine d'anno debba essere un evento culturale, debba essere qualcosa di memorabile. In molte case si accende la televisione proprio perché c'è il conto alla rovescia e quindi se ormai non serve neppure a questo c'è poco da guardare. Né potevamo pensare che quello spettacolo davvero rappresentasse la cultura dell'Italia o di Matera o del nostro Mezzogiorno, o forse purtroppo la rappresenta, anche troppo bene.
Quello spettacolo dovrebbe essere soltanto uno spettacolo, un varietà si diceva una volta, qualcosa di leggero, che possa accompagnare le famiglie che rimangono a casa e davanti alla televisione, fino alla mezzanotte, possibilmente senza sbagliare nell'indicare l'ora esatta. Non sarebbero necessari fior di autori o i più bei nomi dello spettacolo italiano, basterebbe che vi è impegnato sapesse far bene il proprio lavoro. Spesso è impietoso confrontare il livello dei varietà della Rai in bianco e nero con quelli di oggi, eppure bisogna farlo per capire come è peggiorata non solo la televisione, ma tutta la nostra società. E quella era pure una società chiusa, bigotta, maschilista - democristiana in una parola sola - che la televisione, governata appunto dai democristiani, rappresentava in tutti i suoi limiti. Però chi faceva la televisione lo sapeva fare. Il "segreto" di quegli spettacoli che adesso ancora guardiamo divertendoci, è piuttosto semplice: erano realizzati da artisti, da autori, da tecnici, capaci di fare il proprio mestiere, da bravi artigiani, da "lavoratori dello spettacolo", secondo la definizione dell'Enpals. A volte erano artisti di grande livello, a volte no, ma erano comunque persone del mestiere. Perché bisogna essere capaci, anche a fare i censori.
Altrimenti si rischia inevitabilmente di andare a rovescio.

sabato 2 gennaio 2016

Verba volant (237): allarme...

Allarme, sost. m. 

E così, in qualche modo, abbiamo passato anche questo capodanno, con tutta la sua retorica, con tutti i suoi annessi e connessi.
Da qualche anno uno dei topos dell'informazione nella settimana tra Natale e san Silvestro è rappresentato dai botti. Nessun telegiornale, nessun organo di informazione, si fa mancare una serie di servizi per invitare alla prudenza nell'utilizzo dei fuochi d'artificio, leciti e illeciti. Vengono intervistati pompieri, medici del pronto soccorso, esperti in fuochi artificiali e poi la solita compagnia di giro degli opinionisti, ossia di quelli che, non occupandosi di niente, hanno un'opinione su tutto. Alcune amministrazioni comunali, seguendo la moda imperante, hanno fatto ordinanze, inapplicabili e sostanzialmente inapplicate, per vietare i botti nei loro rispettivi territori, e quelle che non le hanno emanate, per realistico buon senso, sono state costrette a giustificarsi, invitando comunque i propri cittadini al buon senso. Molti cittadini hanno chiesto ai propri sindaci che fossero vietati i botti, gli stessi che si sarebbero fieramente opposti se i loro sindaci avessero emesso un'ordinanza per vietare l'uso delle auto, a causa dell'inquinamento. I detrattori dei botti hanno poi trovato dei formidabili alleati tra coloro che amano gli animali e, dal momento che molti prestano più attenzione alle sofferenze degli animali che a quelle dei cristiani, verso i botti è stata montata una vera e propria campagna denigratoria, che è riuscita a limitarne la vendita e l'utilizzo. Personalmente non me ne rammarico: i botti mi sono sempre piaciuti poco e fatico ad associarli alle feste.
Vorrei però farvi notare una cosa. Nella notte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio al pronto soccorso del Maggiore di Parma è arrivata una sola persona con una ferita provocata dai botti, mentre ne sono arrivate quindici con problemi legati all'abuso di alcol; e qualcosa di sostanzialmente analogo è avvenuto negli altri ospedali della nostra regione. E mentre i botti sono un problema prettamente di questo periodo festivo, il numero delle persone portate all'ospedale perché ubriache è pressoché costante tutto l'anno. Allora chiediamoci cosa fa più danni? La faciloneria con cui alcuni improvvisati "bombaroli" danno fuoco alle polveri o l'uso smodato di alcolici? Almeno numericamente il secondo, però il problema dell'abuso di alcol non è avvertito come un dramma sociale, non è sentito come un problema, non c'è alcun tipo di allarme e nessun organo di informazione si sognerebbe mai di fare un servizio il 31 dicembre per raccontare dei morti per alcol nel nostro paese. Anche perché nessuno fa ubriacare il proprio cane.
Leggendo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, l'uso di alcol nel 2012 ha causato nel mondo 3,3 milioni di morti, ossia il 5,9% di tutti i decessi, e il 5,1% degli anni di vita persi a causa di malattia, disabilità o morte prematura. Il consumo di bevande alcoliche è responsabile o aumenta il rischio dell'insorgenza di molte malattie ed è responsabile di molti danni indiretti dovuti a comportamenti associati a stati di intossicazione acuta, ad esempio infortuni sul lavoro, incidenti stradali ed episodi di violenza domestica. L'alcol è una sostanza tossica, potenzialmente cancerogena e con la capacità di indurre dipendenza: causa danni diretti alle cellule di molti organi, soprattutto fegato e sistema nervoso centrale, e in particolare alle cellule del cervello. Però non c'è un allarme sociale sui rischi dell'abuso di alcol, così come c'è un allarme sociale sull'abuso di tabacco. E infatti l'alcol è disponibile ovunque e non c'è alcun controllo all'acquisto e al consumo: un minorenne può tranquillamente acquistarlo al supermercato e nessuno gli dirà mai nulla. Di alcol in giro ce n'è tanto, costa relativamente poco e può essere acquistato senza problemi.
L'allarme sociale sull'abuso del tabacco comincia a dare i suoi frutti, perché, anche se meno lentamente di come si potrebbe sperare, cala il numero dei fumatori e soprattutto cresce la percezione che il fumo sia un problema e che fumare sia un segno distintivo negativo. Sul bere non abbiamo fatto nulla e così per molti giovanissimi - ragazzi e anche moltissime ragazze - bere superalcolici è ancora un rito di passaggio, un modo per sentirsi grandi, per sentirsi apprezzati dagli altri. Ovviamente non credo che proibire sia la strada giusta - come mi è già capitato di dire, io sono anche per la legalizzazione di alcune droghe - ma credo sia necessario avviare una campagna sull'abuso di alcol, che in questo paese non abbiamo mai davvero cominciato. Sul tabacco abbiamo fatto tante campagne, tanto lavoro nelle scuole, spesso inutilmente retorico, ma a volte efficace. Bisogna cominciare a farlo anche sull'alcol. Se ci dedicassimo con lo stesso impegno con cui parliamo dei botti credo sarebbe già un successo.