venerdì 31 luglio 2015

Verba volant (110): strage...



Strage, sost. f.

Il sostantivo latino strages ha la stessa radice di sternere, che significa abbattere.
Il 2 agosto 1980 forze oscure e potenti decisero di gettare a terra il nostro paese, facendo scoppiare una bomba nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione centrale di Bologna. Da allora non ci siamo più rialzati.
Sappiamo ormai chi ha messo quella bomba, chi ha ordinato quella strage, chi ha insabbiato e ha coperto per anni esecutori e mandanti. Non sappiamo tutti i loro nomi e, anche quando li sappiamo, non ci sono le prove per condannarli. Probabilmente alcuni nomi non li sapremo mai e, a questo punto, dopo 35 anni da quel terribile giorno di agosto, non arriveranno altre sentenze. Su questo hanno vinto loro, nonostante gli sforzi di alcuni magistrati coraggiosi che hanno provato, nonostante tutto, a cercare la verità, e l’impegno con cui l’associazione delle famiglie delle vittime ha ostinatamente continuato a chiedere giustizia.
Sappiamo chi ha voluto quella strage perché abbiamo studiato qualche libro di storia, perché abbiamo letto l’articolo Cos’è questo golpe? Io so di Pier Paolo Pasolini, scritto per raccontare la verità sulle stragi che hanno preceduto quella di Bologna. Soprattutto perché abbiamo visto cosa è successo dopo quella stagione di stragi, cominciata il 12 dicembre 1969.
C’è qualcosa però in quella strage che non ho mai capito fino in fondo. La strage di Bologna non serviva più, l’Italia era già cambiata, avevamo già capito la lezione. Nel ’69 e negli anni immediatamente successivi la parte oscura del potere di questo paese - politici, militari, industriali, mafiosi - decisero di armare dei gruppi fascisti affinché in Italia ci fosse un clima tale da auspicare una svolta autoritaria o almeno da fermare la crescita di una cultura riformatrice. E così fu. Ma nell’80 non c’era più bisogno delle stragi.
Temevano che l’Italia potesse diventare troppo di sinistra? Era un timore infondato; poche settimane prima della strage questo paese aveva già dato prova della propria fedeltà all’alleanza atlantica, coprendo tutte le nefandezze che americani e francesi avevano commesso sui cieli di Ustica e gli euromissili a Comiso sarebbero stati installati comunque, nonostante le proteste del Pci di Enrico Berlinguer e di Pio La Torre. Volevano dare un segnale ai notabili democristiani? Sarebbe stato sufficiente ucciderne uno, come fece la mafia nel ’92 con Salvo Lima; e poi Aldo Moro era già morto, ucciso da altri, ma con la benevola complicità di questi pezzi oscuri dello stato. Per impaurire Nenni e quelli che avevano combattuto in Spagna e avevano fatto la Resistenza era stato necessario organizzare il golpe Borghese, ma per fermare quelli venuti dopo bastavano un po’ di soldi.
Chi ha deciso di colpire la stazione di Bologna ha voluto certamente colpire la città dei comunisti. Ma credo soprattutto sia stato animato da un odio profondo verso il popolo. Non è stata scelta a caso proprio la sala d’attesa di seconda classe, non è stata scelta a caso la data della strage. Erano i primi giorni di vacanza, la stazione era affollata - come sempre - di viaggiatori, ma soprattutto era piena di famiglie del popolo - operai, impiegati, studenti, gente normale insomma - persone che finalmente potevano permettersi una vacanza, magari breve, magari in carrozza di seconda classe, magari verso la solita pensione della Riviera, ma era una vacanza, qualcosa che solo fino a qualche anno prima si potevano permettere solo i ricchi. E a qualcuno dava fastidio proprio questa spensierata voglia di benessere. Io sono convinto che ci sia anche l’odio di classe dietro la strage di Bologna; anzi è proprio questo odio che ne spiega, in qualche modo, l’efferatezza.
E anche su questo purtroppo hanno vinto loro. Non usano più le bombe, non hanno più bisogno della manovalanza fascista, hanno imparato ad utilizzare sistemi più sofisticati - e apparentemente indolori - ma l’obiettivo è sempre quello: garantire i loro privilegi, le loro ricchezze, il loro potere, contro di noi. E, con tutta evidenza, ci stanno riuscendo, dal momento che si allarga la forbice tra i pochissimi che hanno molto, sempre più, e i moltissimi che hanno poco, sempre meno. E perché si restringono gli ambiti della democrazia, in Italia come nel resto d’Europa.
Hanno vinto loro perché sono riusciti, anche grazie a quella strage, a far sì che il nostro paese fosse come loro volevano diventasse. Per questo io non credo a quelli che dicono che bisogna superare quegli anni, che bisogna arrivare a un clima di pacificazione. Io non credo alla pacificazione e personalmente non la auspico: io “quelli” voglio continuare a detestarli, a odiarli, anche per quello che hanno fatto 35 anni fa alla stazione di Bologna.
Questo 2 agosto non sono a Bologna, non vado da diversi anni alla manifestazione ufficiale, ma il mio pensiero va a quelle persone. Per chi non crede - come me - leggere la lista dei nomi, ripeterli ogni anno, ogni volta che si passa per quella stazione e si ha il tempo per sostare qualche minuto davanti a quella lapide, è una sorta di preghiera laica, la preghiera della memoria.

giovedì 30 luglio 2015

Verba volant (205): decoro...

Decoro, sost. m.

Al di là delle inevitabili - e francamente poco interessanti - meschinerie legate alla guerra tra bande che si sta consumando per il controllo del Comune di Roma, la vicenda della capitale è interessante sotto diversi punti di vista. Tra qualche mese Ignazio Marino sarà cacciato dal Campidoglio con l'accusa, infamante, di non aver riportato il decoro nella città eterna, perché ovviamente in pochi mesi non riuscirà a ripulire Roma, almeno secondo i desiderata delle persone che in queste settimane urlano perché la città è sporca e che hanno trovato eco anche su tutti i giornali nazionali e internazionali. Roma - come qualunque altra città, piccola o grande - non sarà mai pulita, o almeno non sarà mai pulita come chiedono questi esagitati, anche perché qualche giornalista "a servizio" troverà sempre una cartaccia per terra o una scritta su un muro, di cui incolpare il sindaco di turno, e perché quelli che vogliono cambiare il sindaco troveranno sempre qualcuno disposto a "sporcare" per loro la città, a costo di pagarlo.
Il problema è ridurre il tema complesso del governo di una città - e tanto più complesso quanto più la città è grande - al decoro. Cos'è il decoro? Chi lo giudica? Chi lo misura? Ma soprattutto è davvero così importante? Una ventina d'anni fa a Parma l'amministrazione guidata da Elvio Ubaldi - fintamente civica, ma saldamente in mano al mondo degli affari e al centrodestra cittadino - si caratterizzò per un notevole impegno nel ripristinare il decoro della città, anche con risultati oggettivamente eccellenti. I parmigiani applaudirono a quegli interventi di facciata - nella città ducale la forma è da sempre più importante della sostanza - e Parma fu vista da tanti come un modello di buon governo cittadino, come un esempio da imitare; eppure proprio in quegli anni è nato quel sistema di malaffare e di corruttela diffusa, che ha portato di fatto la città al fallimento, le cui conseguenze si sentiranno ancora per moltissimi anni e da cui probabilmente la città non si risolleverà più. Rischiamo che il decoro fine a stesso si trasformi in quella roba lì, se si perde il concetto di governare, se non si ha un'idea della città che si vuole costruire.
A Roma è stata scoperta un'organizzazione criminale di tipo mafioso ramificata nella politica e nella pubblica amministrazione e per renzi e il New York Times il problema è il fatto che i marciapiedi non sono puliti. A Roma ci sono bande fasciste che organizzano blocchi stradali davanti ai centri di accoglienza e Alessandro Gassman, immagino in buona fede, propone che i cittadini scendano in piazza armati di ramazze per pulire le strade.
Da molto tempo le città - ed evidentemente anche i cittadini - soffrono questa mancanza di governo, questa assenza di progettualità, che non è solo imputabile al continuo calare delle risorse, all'applicazione rigorosa e sostanzialmente stupida del patto di stabilità, che ha frenato ogni investimento pubblico nelle città italiane. Questo è certamente vero, ma è anche vero che per molti sindaci, se il patto di stabilità non ci fosse stato, avrebbero dovuto inventarlo. Questa mancanza di risorse è stata per tantissimi amministratori un alibi perfetto con cui nascondere la propria incapacità, la propria inadeguatezza, la propria stupidità. Non si ragiona più su cosa deve diventare una città, in che modo deve crescere - o non crescere - su come devono essere distribuite le risorse. Le città, o meglio tanti cittadini che vivono nelle città - qualunque città, il discorso non vale solo per Roma - stanno diventando più poveri e il problema più importante non può essere il decoro, il sindaco non può essere giudicato soltanto da come ha pulito le strade o da come ha sistemato le aiuole, ma anche da come ha aiutato i cittadini a resistere alla povertà, da cosa ha fatto per rendere la sua città più solidale. A Roma c'è un enorme patrimonio immobiliare pubblico, tantissime case per lo più vuote o male utilizzate; l'amministrazione capitolina ha un piano per utilizzare almeno una parte di questo patrimonio? O preferisce, come fanno praticamente tutte le altre amministrazioni comunali, continuare a concedere autorizzazioni per costruire brutte case in periferia? E in questo caso dove sta il decoro?
Poi certamente c'è anche il tema della bellezza della città - visto che Marx ci ha insegnato a volere il pane e le rose - ma la bellezza è qualcosa di profondamente diverso dal decoro. Nella bellezza c'è un'idea, c'è anche una sfida che le città - e chi le amministra - dovrebbero assumersi. I centri commerciali che punteggiano le periferie delle nostre città sono belli? Spesso no. Sono un esempio di decoro? Sì, sono puliti, sono ben curati, sono "decorosi", perché c'è sempre qualche lavoratrice - per lo più straniera - pronta a passare lungo gli scaffali del supermercato o davanti alle vetrine dei negozi per raccogliere le cartacce. E nessuno osa sedersi per terra in un centro commerciale, anche perché chi lo facesse, sarebbe - più o meno gentilmente - accompagnato all'uscita da un robusto bodyguard. Poi a nessuno interessa se la donna che pulisce e l'energico "accompagnatore" siano assunti in regola o in nero o se ricevano una paga adeguata. Il decoro è comunque salvo. E a nessuno interessa quante tangenti siano state pagate per costruire quel centro commerciale, quanti alberi siano stati abbattuti, cosa altro si sarebbe potuto costruire lì. Il decoro è comunque salvo.
In questi anni, l'ho scritto molte volte - a qualcuno ormai sembrerò perfino noioso - c'è stata una progressiva e inesorabile riduzione degli ambiti della democrazia in questo paese, di cui hanno fatto le spese prima di tutto le assemblee elettive e gli enti locali, oltre naturalmente a noi cittadini. D'altra parte, se tutto il governo di una città si riduce alla capacità di tenerla pulita, al rispetto del decoro, alla lotta contro il degrado - altro termine feticcio, che vuol dire tutto e niente - a cosa serve un sindaco eletto dai cittadini? Basta un commissario, e infatti il disegno di renzi per Roma è sostituire Marino, per un tempo indefinito, con il prefetto Gabrielli, che nei prossimi mesi gestirà il Giubileo e poi tutta Roma. Perché un commissario è sicuramente più efficiente, non ha paura di doversi scontrare con nessuno, tanto sa che il suo potere non deriva dalla legittimazione popolare, ma dal favore del governo. Magari è più corrotto perché non c'è nessuno che lo controlli, ma questo non importa a nessuno. Chiaramente renzi - o meglio chi pensa e agisce dietro a questo antipatico fantoccio - immagina, al posto dei Comuni, un sistema di commissari - mi verrebbe da dire di podestà - assoggettati al sindaco d'Italia che siede a palazzo Chigi. In sostanza a cosa serve la politica quando la logica è quella dell'emergenza? In questi anni il capitale ha delegittimato la politica, per delegittimare la democrazia, e così oggi il loro maggior rappresentante a capo del governo è il campione dell'antipolitica, l'uomo che ha distrutto l'ultimo rimasto dei partiti italiani.
Questa parossistica ricerca del decoro, in cui sono impegnati tutti i sindaci d'Italia, con risultati più o meno brillanti, rischia di farci dimenticare cos'è una città. Una città è un organismo, complesso e vivo, in cui abitano, lavorano, si divertono e soffrono le persone. Una città più bella non è solo una città più pulita e più ordinata, ma una città più solidale e una città in cui si produce più cultura, una città in cui si riconosce una storia - e pensate quante storie Roma avrebbe da raccontare - una città che sa accogliere, sia i turisti, anche quelli che la visitano per un giorno solo, sia i nuovi cittadini, arrivati spesso da paesi molto lontani, una città che non ha paura del futuro, una città più onesta e più democratica. Una volta queste erano le sfide della sinistra, che infatti ha espresso alcune generazioni di ottimi amministratori - lo so perché ho avuto la fortuna di conoscerne un po' - adesso sembra che anche su questo punto abbiamo rinunciato, magari per assicurarci un posto nella municipalizzata incaricata di pulire le strade.
E una città così, diventata più bella perché più ricca di cultura e di culture, sarà anche più pulita, perché ciascuno di noi la sentirà propria. E la curerà.

lunedì 27 luglio 2015

Verba volant (204): intercettazione...

Intercettazione, sost. f.

C'è davvero stata quella benedetta telefonata tra Crocetta e Tutino? E se c'è stata, è stata davvero intercettata? Non lo so, non lo sappiamo, ma francamente a questo punto saperlo è quasi superfluo, ininfluente; certamente esiste la notizia di quell'intercettazione e questo è bastato a scatenare quello che chi ha confezionato quella notizia voleva scatenare.
Premetto che io non parteggio per nessuna delle parti in causa: sapete che ho un pessimo giudizio del pd e dei suoi dirigenti e Crocetta è uno dei tanti cacicchi a cui quel partito, specialmente nelle regioni del sud, si è affidato per ottenere voti e per raggiungere il governo; è solo più debole di altri, ad esempio di Emiliano e di De Luca - per fare i nomi di altri due boss molto noti - che invece, forti dei loro voti e dei loro affari, spadroneggiano nei loro territori, ricattando il governo centrale. Fosse per me Crocetta potrebbe andare a casa anche domani, mi è sostanzialmente indifferente a quale "cosca" del pd appartenga il presidente di quell'importante regione del nostro paese, però questa vicenda è inquietante per tanti aspetti e dovrebbe preoccupare chi crede ancora nelle istituzioni e chi spera - forse illudendosi - di poter cambiare veramente, e non solo a parole, questo paese.
Un primo aspetto preoccupante riguarda l'intercettazione in sé. Teoricamente, dal momento che le procure hanno escluso di avere agli atti questa specifica intercettazione, dovremmo dedurre che non esiste e che quindi quella telefonata non si è svolta, o almeno non si è svolta con le modalità ormai note. Però queste smentite non sono servite a niente, perché evidentemente tutti sanno che esiste un sistema illegale di intercettazioni, a cui molte persone sono sottoposte, indipendentemente dal fatto che esista su di loro un'indagine giudiziaria. In questo paese non è possibile avere completa fiducia delle istituzioni a cui è delegata la tutela dell'ordine pubblico, perché sappiamo che negli anni hanno risposto a poteri diversi rispetto a quelli costituzionali, poteri sempre illegali e spesso criminali. Sappiamo che i servizi segreti di questo paese hanno sempre agito - e agiscono - al di fuori della Costituzione e quindi sappiamo che queste intercettazioni "mirate" vengono fatte e che vengono usate. Quindi quella intercettazione, anche se non è stata ordinata dalla magistratura, è possibile che esista.
L'altro aspetto preoccupante è che questa telefonata tra il presidente della Regione e un importante esponente della sanità siciliana - incidentalmente anche suo medico e medico di una buona parte della classe dirigente dell'isola, mafia compresa - è verosimile, perché indicativa della crisi morale, prima che politica, di questo paese - di tutto il paese, non solo delle regioni del sud - in cui gli interessi particolari prevalgono su quelli generali e le consorterie sulla politica, in cui queste telefonate, durante le quali si alternano minacce, blandizie, scambi di favori, di promesse, di segreti, sono ormai comuni, perché raccontano la viscida rete di complicità che tiene legate tra loro le nostre classi dirigenti. Sappiamo che quella telefonata può esserci stata, può essersi svolta nei toni raccontati da quel cronista prezzolato, e questo è comunque grave.
L'elemento più importante però è che chi ha voluto colpire Crocetta, immaginando di poterlo sostituire alla fine di questa vicenda con una persona più gradita, non ha usato l'intercettazione - come avrebbe potuto fare e come solitamente "loro" fanno - in maniera riservata, ma ha organizzato questa messinscena per lanciare segnali obliqui anche ad altre persone. Davvero, come diceva Giovanni Falcone, ci troviamo al cospetto di menti raffinatissime; che poi si tratti di mafia non possiamo saperlo, anzi personalmente penso che la mafia non c'entri affatto. L'intercettazione è stata pubblicata su un giornale direttamente riconducibile ai poteri che sostengono l'attuale presidente del consiglio e la sua cricca e a pochi giorni dall'anniversario della strage di via D'Amelio. Ovviamente nessuna delle due circostanze è casuale.
Scegliendo L'Espresso l'autore di questa vicenda ha voluto dire qualcosa, anche se in maniera indiretta, a quelli che hanno scelto il fantoccio di Rignano, a quelli che governano questo paese manovrando lui e i suoi ministri. Ha detto loro di stare comunque attenti, perché, anche se adesso sono forti e si credono invincibili, c'è qualcun altro, altrettanto forte, che può sparigliare i giochi, magari facendo pubblicare una qualche intercettazione proprio su renzi e i suoi amici oppure facendo qualcosa di molto peggio. Io credo che i veri destinatari di questo attacco non siano tanto a Palermo - Crocetta è una figura debole, che non richiedeva questa operazione per essere delegittimato - ma a Roma, un po' come avvenne nel marzo del '92, in un'altra fase delicatissima della vita del paese, quando uccisero fisicamente Salvo Lima per ammazzare politicamente Giulio Andreotti.
Il 23 maggio e il 19 luglio sono gli unici due giorni, in questo triste paese che ha perso la memoria, in cui si fa davvero qualcosa per far crescere la cultura contro la mafia, un po' per ipocrisia, ma soprattutto per sincera commozione. Due giorni su 365 sono pochi, praticamente nulla, ma anche due giorni danno fastidio alla mafia e a chi con la mafia fa affari e governa. E infatti quest'anno, oltre che a colpire Crocetta e il pd, sono riusciti, con questa notizia, a far passare sotto silenzio l'anniversario della strage di via D'Amelio: forse non è stato il motivo scatenante di questa operazione, anche perché credo che non sia una questione strettamente legata alla mafia, ma certamente un effetto collaterale, gradito e cercato. Altrimenti non avrebbero aspettato proprio alcuni giorni prima del 19 luglio per scatenare questa bagarre. Che è servita a far passare il messaggio che in fondo sono tutti uguali, che si può anche non votare, perché tanto il più pulito ha la rogna e cose così.
In quei giorni, e anche questa cosa è degna di nota, un po' tutti abbiamo fatto la nostra parte in commedia, abbiamo fatto quello che chi ha pensato a tutto questo voleva che facessimo. A partire dalla famiglia di Paolo Borsellino, su cui l'opinione pubblica ha riversato la propria gratitudine verso quello che ha fatto quel magistrato. E anche su questa sorta di transfert emotivo credo che prima o poi dovremmo interrogarci: basta essere il familiare di una persona perbene per essere una persona altrettanto perbene? Personalmente comincio a nutrire qualche dubbio e credo che per primi i familiari dovrebbero stare attenti al potere che hanno, un potere che non hanno certo chiesto, che si sono ritrovati in mano, ma che possono usare bene o male. Non ho motivo per dubitare che Manfredi Borsellino sia un'ottima persona e un bravo poliziotto, ma le sue parole, certamente dettate dall'amore per la sorella, certamente dette in buona fede, hanno finito per chiudere il caso. E' stato proprio il suo discorso a rendere del tutto inutile che l'intercettazione esistesse o meno; e questo il manovratore lo sapeva bene, proprio come sapeva che tanti avremmo scritto parole sdegnate. Proprio perché l'intercettazione ci è sembrata credibile in tanti abbiamo lanciato la nostra pietra, piccola o grande, contro Crocetta, e così abbiamo fatto il gioco dell'abilissimo organizzatore di questo dramma pirandelliano, in cui nessuno è come lo si crede.
Tra qualche mese Crocetta si sarà dimesso - o l'avranno fatto dimettere - tra un po' di tempo ci sarà un nuovo governo in Sicilia, altrettanto incapace di quello che c'è adesso di affrontare i problemi di quella regione, e quindi la mafia sarà ancora un po' più forte, perché più è debole lo stato più è forte la mafia. In questi giorni credo si sia consumato un atto della nuova trattativa tra un pezzo di stato - o chi per lui - e la criminalità: il capitale, in cambio di voti e di soldi, lascia il governo di quella terra ai clan mafiosi, anche perché con loro ormai fa affari in tutta Italia. Pecunia non olet.

giovedì 23 luglio 2015

Verba volant (203): rogo...

Rogo, sost. m.

Il 13 luglio 1920 i fascisti bruciarono a Trieste il Narodni dom, la Casa nazionale degli sloveni della città, la sede delle loro organizzazioni, in cui si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un caffè e un albergo, l'Hotel Balkan. Quell'incendio fu, secondo gli storici, uno dei primi atti dello squadrismo, che, in quei lunghi mesi che precedettero la marcia su Roma, uccise migliaia di persone, distrusse sedi di partito, camere del lavoro, redazioni e tipografie di giornali. E' una delle pagine più drammatiche della storia recente del nostro paese, che portò al regime fascista e alla guerra. A leggere le cronache di quegli anni colpisce, insieme alla violenza verbale dei fascisti che rivendicavano con orgoglio quelle aggressioni, l'ignavia di tanti democratici che sottovalutarono quel fenomeno, provarono a spiegarlo, a giustificarlo, a ridimensionarlo. E le poche voci che provarono a denunciarlo - che pure ci sono state - furono o messe a tacere con la forza o semplicemente ignorate.
Questo è uno dei tanti anniversari che non siamo soliti ricordare in questo paese, che ha volutamente perso la memoria. E siccome quelli che dimenticano la storia, sono condannati a riviverla, quasi negli stessi giorni, in queste assolate e calde giornate di luglio, squadre fasciste sono tornate in azione, a Treviso e a Roma, usando ancora il fuoco e colpendo, ancora una volta, gli stranieri, i diversi. E purtroppo, ora come allora, sono troppe le voci che cercano di sottovalutare queste azioni. Naturalmente sono molto preoccupanti le reazioni di quegli esponenti politici, a volte anche con rilevanti incarichi istituzionali, che hanno giustificato queste violenze, che hanno dato la loro solidarietà agli aggressori invece che agli aggrediti. Sappiamo che c'è in Italia, come in Europa, una destra che esaspera queste contraddizioni e ha bisogno, per sopravvivere, di questi fenomeni di violenza. Purtroppo è sempre più difficile arginarla, anche perché in molti casi i loro voti vengono cercati, i loro leader vengono blanditi, anche da quelle forze di destra che pure dovrebbero avere una storia antifascista: Zaia - non dobbiamo mai dimenticarlo - governa il Veneto con i voti di tutto il centrodestra italiano. In Francia una parte rilevante della destra repubblicana non è disponibile a un'alleanza con il partito di Marine Le Pen, in Italia invece questo argine è rotto da tempo e ormai non può più essere riparato.
A me però quello che preoccupa di più non è la violenza verbale della Lega o di Fratelli d'Italia o di quei partiti che cercano di intestarsi, per calcolo elettorale, questo razzismo xenofobo, alimentato dalla crisi e dalla povertà, ma la sostanziale indifferenza con cui questi episodi sono stati affrontati e soprattutto l'incapacità - o la non volontà - di chiamare le cose con i loro nomi. Sono stati episodi di squadrismo, compiuti da gruppi, organizzati e conosciuti, di fascisti. Abbiamo letto commenti che tendono a ridimensionare questi gravi episodi di violenza, e che, pur condannandoli, cercano di attenuarne la portata; in molti casi abbiamo letto espressioni come "guerra tra poveri" oppure analisi sulla composizione sociale dei cittadini che avrebbero partecipato a queste violenze, sottolineandone l'esasperazione. Come è accaduto anni fa a Rosarno, in questi casi non sono stati i cittadini, per quanto esasperati, per quanto poveri, per quanto rancorosi verso i nuovi arrivati - ancora più poveri di loro - a bruciare i letti destinati all'accoglienza dei migranti o ad organizzare i blocchi, ma allora furono le cosche dell'ndrangheta e ora sono state le bande fasciste legate a CasaPound.
Non possiamo girarci intorno, non possiamo fare finta che non esistano. Ci sono e naturalmente c'è qualcuno a cui va bene che ci siano, qualcuno a cui conviene che queste bande fasciste rimangano in attività, pronte ad intervenire, per tenere alto un livello di tensione, che evidentemente a loro fa comodo. Sappiamo ormai bene chi finanziava le squadre fasciste negli anni Venti, sappiamo che ricevevano denaro e ordini dai grandi proprietari terrieri e dagli industriali per stroncare sul nascere ogni richiesta dei socialisti. Le squadre fasciste si sono diffuse nel paese perché la loro azione serviva alle classi dominanti per tenere a freno il nascente movimento socialista. Ora non ci sarebbe neppure più il bisogno di intimidirci, visto che la sinistra in Italia si è suicidata, consegnandosi a renzi e al pd, eppure, per antica paura o per inveterata abitudine, tengono questa arma sempre carica, sempre pronta a colpire.
Per questo dobbiamo denunciare ogni volta che le forze del capitale usano i fascisti, per questo dobbiamo spegnere i roghi non appena si accendono. Perché più tardi si interviene più è difficile farlo.

mercoledì 22 luglio 2015

da "Homer & Langley" di E.L. Doctorow

Il principale progetto di Langley era la raccolta dei giornali allo scopo ultimo di creare un numero unico ed eterno che andasse bene per qualsiasi giorno. […] Il progetto di Langley consisteva nel contare gli articoli di cronaca e archiviarli secondo la categoria: invasioni, guerre, stragi, incidenti d'auto, disastri ferroviari e aerei, scandali rosa, scandali ecclesiastici, rapine, omicidi, linciaggi, stupri, malefatte politiche con una sottocategoria per i brogli elettorali, reati della polizia, crimini della malavita, truffe finanziarie, scioperi, roghi di casamenti popolari, processi civili, processi penali, e così via. C'era una categoria a parte per i disastri naturali come epidemie, terremoti e uragani. Non le ricordo tutte. Langley mi spiegò che alla fine - non disse quando - avrebbe avuto sufficienti prove statistiche per circoscrivere i risultati agli avvenimenti definibili, per la loro frequenza, come manifestazioni fondamentali del comportamento umano. Dopodiché, grazie a ulteriori confronti statistici, avrebbe ottenuto un modello fisso in base al quale stabilire quali articoli andassero in prima pagina, quali in seconda, e così via. Anche le fotografie andavano commentate e scelte per la loro tipicità, ma questo, ammetteva, era difficile. Forse non avrebbe usato fotografie. Era un'impresa colossale, che lo teneva occupato parecchie ore al giorno. Correva fuori a comprare tutti i giornali del mattino, e più tardi quelli della sera, e poi c'erano i quotidiani finanziari, le pubblicazioni erotiche, quelle che trattavano dei vaudeville e dei fenomeni da baraccone, e così via. Voleva fissare la vita americana in un'unica edizione, quello che definiva il giornale di Collyer senza data, eternamente attuale, il solo giornale di cui la gente avrebbe avuto bisogno.

da "Ragtime" di E.L. Doctorow

La Mamma portò il lutto per un anno. Alla fine di questo periodo, Tate, avendo accettato che sua moglie era morta, le chiese di sposarlo. Naturalmente, non sono barone, disse, sono un ebreo lituano socialista. La Mamma accettò senza esitare. Lo adorava, e le piaceva stare con lui. Ciascuno trovava deliziosi i tratti del carattere dell'altro. Si sposarono con una cerimonia civile in un'aula del tribunale di New York City. Si sentirono benedetti. La loro unione fu felice, anche se senza prole. Tate fece un mucchio di denaro scrivendo sceneggiature di film a serie Nido di spie, e L'ombra del sottomarino. Il suo grande successo doveva ancora venire. La famiglia trovò un inquilino per la casa di New Rochelle, e si trasferì in California. Andarono ad abitare in una grande casa bianca, con le finestre arcuate il tetto di tegole arancione. Lungo il marciapiede v'era una fila di palme, e nel giardino aiuole di fiori rossi. Una mattina, Tate guardò fuori dalla finestra del suo studio, e vide i tre bambini seduti sul prato. Dietro di loro, sul marciapiede, c'era un triciclo. Stavano parlando, mentre prendevano il sole. Sua figlia, dai capelli neri, il figliastro dal capelli color grano, e il figlio adottivo, il bambino nero. D'un tratto gli venne un'idea per un film. Un gruppo di bambini, tutti amici, bianchi, neri, grassi, magri, ricchi, poveri, di ogni qualità, birbantelli, piccoli manigoldi, protagonisti di mille avventure buffe, un mazzo di furfantelli come tutti noi, una banda, che si cacciava nei guai e ne veniva fuori. In realtà, da quest'idea nacque non un solo film, ma diversi. E per allora, l'era del Ragtime era ormai finita, come se la storia altro non fosse che un'aria suonata da una pianola. Avevamo fatto la guerra e l'avevamo vinta. L'anarchica Emma Goldman era stata deportata. La bella e appassionata Evelyn Nesbit aveva perduto la sua bellezza ed era caduta nell'oscurità. E Harry K. Thaw, ottenuto il rilascio dal manicomio, ogni anno sfilava a Newport, nella parata dell'Anniversario dell'Armistizio.

venerdì 17 luglio 2015

Verba volant (202): povero...

Povero, agg. e sost. m.

I più antichi etimologisti decompongono il termine latino pauper - da cui deriva l'italiano povero - in pau-ca e par-iens, quindi il povero è letteralmente colui che produce poco; mi pare significativo che già la storia della lingua metta in relazione la povertà e il lavoro. 
Gli statistici inevitabilmente misurano la povertà utilizzando un criterio quantitativo, ossia calcolano quanto denaro è necessario per acquistare i beni e i servizi ritenuti essenziali per uno standard di vita minimo, ma questo dato - per quanto significativo - non riesce a descrivere e raccontare la povertà, che è un fenomeno sociale più complesso e che dovremmo saper misurare anche usando criteri qualitativi. E non solo per concordare con l'antico adagio secondo cui i soldi non danno la felicità, proverbio peraltro inventato da chi i soldi li ha e cerca in questo modo di consolare chi invece non li ha.
In questi giorni è uscita l'ultima indagine dell'Istat che fotografa la povertà in Italia e i dati sono, come sempre, sconfortanti. Nel 2014 l'incidenza della povertà assoluta nel nostro paese è sostanzialmente stabile: 1 milione e 470mila famiglie - il 6,8% della popolazione residente, pari a 4 milioni e 102mila persone - sono in condizione di povertà assoluta, con una percentuale che sale nel Mezzogiorno all'8,6%. E il fatto che, dopo due anni in cui i poveri sono aumentati, quest'anno il dato sia rimasto stabile non è una buona notizia. La cosa preoccupante è che non si incide sulle cause che determinano questa povertà, limitandosi a qualche intervento di maquillage come i bonus, così cari a questo governo, o qualche altra regalia, interventi che comunque lasciano il tempo che trovano.
Torniamo quindi al valore etimologico del termine e proviamo a considerare povero chi non lavora. Chi non ha un lavoro è povero non soltanto per il fatto che non ha, per sé e per la propria famiglia, i soldi necessari per comprare il pane, ma soprattutto perché perde in dignità, in competenza, in libertà. 
Per la generazione di mio padre il lavoro ha rappresentato un elemento fondamentale della propria formazione. Mio padre aveva la licenza elementare, ma ha sempre lavorato e lavorando ha sviluppato tutte le proprie competenze, anche tecniche. In particolare mio padre sapeva fare - e bene - diverse cose in campo elettromeccanico e le ha imparate esclusivamente facendole - e sbagliando all'inizio - osservando le persone più vecchie di lui che le sapevano già fare, soprattutto non smettendo mai di aggiornarsi; e le ha continuate ad imparare, anche mentre le insegnava a persone più giovani di lui. Per mio padre il lavoro - insieme alla politica - è stato un'agenzia formativa molto più importante della scuola; e questo vale per tantissime persone di quella generazione. Per quelli della generazione di mio padre l'art. 1 della Costituzione non era una formula rituale, ma qualcosa che vivevano giorno per giorno, per cui avevano lottato e che avrebbero voluto trasmettere a noi.
Per quella generazione il saper fare - e questo valeva per ogni lavoro, perché ogni lavoro aveva una propria dignità - significava poter lavorare e quindi essere un cittadino. Perché il lavoro, insieme al salario - che è importante e deve essere equo - dà alle persone una ricchezza non quantificabile, perché è il lavoro, e non il salario, che rende cittadini liberi. Per questo le forze del capitale hanno svalutato in questi anni il lavoro, lo hanno impoverito, lo hanno precarizzato, lo hanno dequalificato, oltre naturalmente ad avergli dato meno valore attraverso salari sempre più bassi e non più equi. Magari possono concedere un reddito di cittadinanza, perché una paga senza lavoro non crea cittadini, ma sudditi; e loro, come abbiamo visto anche in questi giorni in Grecia, hanno bisogno di sudditi, non di cittadini.
La vicenda greca è paradigmatica di questo scontro. La povertà non si combatte con il rigore. In Grecia l'austerità e gli interventi di svalutazione del lavoro hanno provocato un crollo del pil del 25%, hanno portato la disoccupazione al 27% e fatto diminuire stipendi e pensioni di oltre il 35%. In un paese che aveva bisogno di lavoro, non sono stati fatti interventi per stimolare la competitività e la crescita, ma sono stati fatti solo tagli ai servizi pubblici, è stato reso più precario il lavoro e più difficile studiare. E così i poveri sono aumentati e sono destinati, purtroppo, a crescere ancora.
Per questo lottare contro la povertà significa essenzialmente garantire opportunità di lavoro, sicuro, che garantisca alle persone un reddito equo e una prospettiva di continuità, che permetta loro di crescere, di formarsi, di avere dignità. Perché - ed è il più grande insegnamento che ci ha lasciato la generazione di mio padre - una persona che ha dignità non è mai povera.

lunedì 13 luglio 2015

Verba volant (201): battaglia...

Battaglia, sost. f.

Non è stata la battaglia di Maratona, in cui l'esercito ateniese, pur inferiore per numero, sconfisse l'armata persiana, grazie al coraggio dei propri soldati e all'abilità dei propri strateghi. Ma non è stata neppure la battaglia delle Termopili, anche se qualcuno in Germania avrebbe voluto sterminare i governanti greci, come fecero le truppe di Serse con gli opliti spartani. E' stata una sconfitta - è onesto dirlo - perché la sproporzione delle forze in campo era evidente. Tsipras e gli altri che con lui hanno trattato hanno capito evidentemente che quello era il massimo risultato che potevano raggiungere, sono stati realisti e hanno fatto bene a fare quello che hanno fatto, portando a casa alcuni risultati possibili, soprattutto la concessione di un prestito notevole, per tre anni, che per un po' di tempo metterà quel paese al riparo da queste trattative continue e dal furore cieco dei nemici della Grecia.
Comunque sia è stata una battaglia importante, perché ha svelato qualcosa che fino ad ora erano riusciti a mascherare, a celare. Alle forze del capitale non è mai interessato risolvere la questione del debito greco - un problema tutto sommato economicamente poco rilevante - il loro vero obiettivo è sempre stato quello di eliminare - con le buone o con le cattive - il governo greco perché espressione di una sinistra non addomesticabile, non disposta a piegarsi ai voleri del liberismo. Punire la Grecia era indispensabile perché occorreva mandare il segnale, agli spagnoli prima di tutto, ma anche a tutti quelli che potevano mai pensare di ribellarsi, che la punizione sarebbe stata terribile. Tsipras e Syriza hanno avuto il merito storico, anche grazie all'intuizione di indire il referendum, che non si trattava di una questione economica, ma esclusivamente politica, di uno scontro politico violentissimo, in cui le forze del capitale erano disposte a tutto, pur di affossare il governo greco.
E questo - almeno per ora - non sono riuscite a farlo. Spero che Tsipras resista, che riesca a continuare a guidare quel paese, che possa essere lui a gestire questo accordo, perché un nuovo esecutivo di "larghe intese", un governo tecnico, significherebbe davvero la fine di quel paese. Il referendum è stato il baluardo che ha difeso il governo greco; senza quel voto - di cui dovremo sempre ringraziare le donne e gli uomini della Grecia - la violenza delle forze del capitale sarebbe stata incontenibile, il paese sarebbe stato umiliato, vilipeso, schiacciato, dagli sgherri delle forze del capitale.
Lo scontro di questa notte ha segnato un passaggio di epoca. L'Europa non potrà più essere la stessa, perché questa trattativa ha fatto capire quali sono le forze in campo, ha fatto capire che la cosiddetta sinistra riformista è ormai un docile strumento in mano alle forze del capitale. Però ci ha anche mostrato che un'alternativa è possibile, che una sinistra di governo, non settaria e votata alla pura testimonianza, è possibile, senza abdicare ai propri principi e ai propri valori. Questa sconfitta richiede a tutti noi un rinnovato impegno, a non arrenderci, a non pensare che ogni nostro sforzo sia vano, a non rimanere passivamente ad aspettare che altri vengano a risolvere i nostri problemi, a prendere in mano la bandiera della lotta. E a lottare, per scalfire la forza del nemico, come hanno fatto in questi giorni i greci e come dovremo fare noi nei prossimi anni.
Ευχαριστώ, grazie compagne e compagni greci.
ΑΝΤΙΣΤΑΘΕΙΤΕ για την Ελλαδα για την Ευρωπη, RESISTETE per la Grecia per l'Europa.

sabato 11 luglio 2015

Verba volant (200): conflitto...

Conflitto, sost. m. 

Srebrenica, 11 luglio 1995: è nostro dovere di uomini ricordare, è nostro dovere di europei. Perché europei erano gli 8.000 uomini che furono uccisi in quella strage, europee erano le donne - mogli, madri, figlie - che furono costrette ad abbandonare quella città, con il dolore nel cuore per i mariti, i figli, i fratelli che avevano lasciato là insepolti, europei erano quelli che li ammazzarono, europei erano i soldati che, nonostante fossero là a garantire, se non la pace, almeno la tregua, lasciarono compiere quella tragedia. Alcuni di quegli europei erano cristiani, altri erano musulmani, perché ci sono anche gli europei musulmani - sono pochi forse, ma ci sono, con buona pace dei crociati in servizio permanente effettivo; alcuni erano di origine serba, altri di origine bosniaca, altri ancora, prima di quella guerra, non sapevano esattamente come definirsi, perché in quella terra antica e complicata è da sempre difficile distinguere in maniera netta le genealogie, poi un giorno scoppia la guerra, io rimango da una parte, tu dall'altra e da amici che siamo diventiamo nemici; altri infine erano olandesi, ma potevano essere francesi, inglesi, italiani e la storia non sarebbe stata diversa da come purtroppo è stata.
Quelli della mia età hanno la fortuna di non aver visto la guerra, ce l'hanno raccontata - se abbiamo voluto ascoltare le loro storie - i nostri nonni, i nostri genitori, ma noi non sappiamo proprio come sia fatta quella bestia lì. Poi delle guerre da qualche parte del mondo ce ne sono sempre, qualcosa sappiamo di quei conflitti, a volte perfino ci coinvolgono, almeno da un punto di vista politico. Per quelli della mia età le manifestazioni contro la Guerra del Golfo - quella di Bush il vecchio, il più assennato della famiglia - sono state un'occasione per avvicinarsi alla partecipazione politica. In quel caso sembrava abbastanza semplice schierarsi, perché quella guerra era un errore madornale, oltre che un crimine, e le vicende degli anni successivi - anche al netto dei disastri combinati dal Bush meno assennato - hanno dimostrato purtroppo che avevamo ragione noi. La guerra in Bosnia è stata oggettivamente fin dall'inizio più difficile da capire e credo che uno dei motivi per cui oggi l'Europa sia questa cosa che non ci piace sia anche l'incapacità di allora di affrontare in maniera netta quel tema.
Rispetto a quel conflitto io ebbi l'opportunità - tra il '94 e il '96 - di poter dare una mano al gruppo che a Bologna cercava di aiutare i profughi di quel conflitto. Sono andato alcune volte nel campo profughi d Ribnica, in Slovenia, dove c'erano molte famiglie bosniache e durante l'estate organizzavo il soggiorno qui di alcuni gruppi di bambini. E' stata una delle esperienze più belle della mia attività politica, perché è stata anche l'unica possibilità che ho avuto di capire un po' cosa significa davvero la guerra.
La prima volta che i bambini - allora avevano quattro e cinque anni - sono venuti in Italia mi colpì come si attaccassero a me e agli altri ragazzi volontari, volessero di continuo giocare con noi. La cosa mi stupì, ma poi, quando qualche mese dopo andai per la prima volta al campo, mi resi conto di una cosa che forse doveva essere ovvia: in quel campo gli unici adulti erano donne, e quindi in qualche modo, approssimativo e imperfetto, noi dovevamo essere i loro fratelli maggiori. Quando una notte si svegliarono spaventati - dormivamo nella scuola elementare di Granarolo - perché in un paese vicino c'era uno spettacolo di fuochi artificiali, fu molto difficile rimetterli a letto a farli riaddormentare; allora ho intuito davvero cosa sia la paura.
Conoscendo quelle persone, andando qualche volta in qual campo, ho capito anche che il loro essere musulmani era tutt'altra cosa da quello che ci stavano cominciando a raccontare. Anch'io posso genericamente definirmi cristiano, perché sono cresciuto in questo paese, ho partecipato - per amore o per forza - a delle funzioni religiose, conosco le preghiere, festeggio il natale e così via, ma questo non fa di me un fondamentalista. La stessa cosa valeva per loro: più della religione era importante mantenere una serie di tradizioni, anche molto antiche, a cui erano giustamente legati, ma questo non faceva di loro dei fondamentalisti. Temo che uno degli esiti più pericolosi di quel conflitto sia di aver spazzato via tutto questo e di aver riportato indietro la storia, quando per la religione, da entrambi le parti, era lecito uccidere. E infatti oggi la Bosnia è uno dei luoghi dove l'integralismo islamico recluta con più facilità per la propria guerra contro l'Occidente. Non perdonerò mai a chi ha voluto quella guerra di aver fatto così male a quei bambini, di aver loro insegnato il fanatismo.
Sono passati vent'anni da quella strage. Al di là degli accordi, più o meno fragili, al di là dei processi, più o meno efficaci, non sono stati vent'anni di pace e credo che il mondo che vedono ora da adulti quelli che allora erano bambini non sia migliore. E questa è una nostra sconfitta.

da "Il ponte sulla Drina" di Ivo Andrić


Il mio defunto padre sentì una volta da šeh-Dedija e raccontò poi a me quand'ero bambino, da che cosa deriva il ponte e come venne eretto il primo ponte del mondo. Quando Allah il potente ebbe creato questo mondo, la terra era piana e liscia come una bellissima padella di smalto. Ciò dispiaceva al demonio, che invidiava all'uomo quel dono di Dio. E mentre essa era ancora quale era uscita dalle mani divine, umida e molle come una scodella non cotta, egli si avvicinò di soppiatto e con le unghie graffiò il volto della terra di Dio quanto più profondamente poté. Così, come narra la storia, nacquero profondi fiumi e abissi che separano una regione dall'altra e dividono gli abitanti di una dalle altre e disturbano coloro che viaggiano per la terra che Dio ha dato loro come giardino per il loro cibo ed il loro sostentamento. Si dispiacque Allah quando vide che cosa aveva fatto quel maledetto; ma poiché non poteva tornare all'opera che il demonio con le sue mani aveva contaminato, inviò i suoi angeli affinché aiutassero e confortassero gli uomini. Quando gli angeli si accorsero che gli sventurati uomini non potevano superare i burroni e gli abissi per svolgere le loro attività, e si tormentavano, si guardavano e si chiamavano invano vicendevolmente da una sponda all'altra, al di sopra di quei punti spiegarono le loro ali e la gente cominciò a passare su di esse. Per questo, dopo la fontana, la più grande buona azione è costruire un ponte, così come il peggiore peccato consiste nel metterci addosso le mani, dato che ogni ponte, dalla trave gettata su un torrente montano fino a questa costruzione di Mehmed Pascià, ha il suo angelo che lo guarda e lo sostiene, finché gli è destinato da Dio di sussistere.

mercoledì 8 luglio 2015

Considerazioni libere (403): a proposito di una vittoria difficile...

Abbiamo vinto, in maniera netta e inequivocabile; e non ci succedeva da tempo. Abbiamo festeggiato, forse con un po' troppa enfasi, ma - dovete scusarci - non ci siamo abituati. Adesso però è il momento di riflettere su cosa ha significato il successo del no nel referendum greco dello scorso 5 luglio, un risultato per molti aspetti storico. E le ragioni per essere preoccupati, nonostante tutto, sono molte.
In questa considerazione non voglio soffermarmi sugli aspetti più propriamente economici della crisi. Il governo greco in questi giorni è impegnato in una trattativa difficile. Le forze del capitale non si sono certo arrese e vorranno punire la Grecia per lo sgarro subito, ma credo che, alla fine e nonostante tutto, un accordo lo troveranno. Si preparano comunque giorni difficili per quel popolo, la loro lotta sarà dura e devono sentire tutta la nostra solidarietà. Non basta aver fatto il tifo la scorsa settimana, non basta aver gioito la notte del 5 luglio, dobbiamo continuare a seguire quello che avviene in Grecia, possibilmente sfuggendo alla controinformazione dei giornali e delle televisione di regime che ci raccontano una realtà distorta. E soprattutto dovremmo provare a fare come la Grecia; che è la cosa più difficile, specialmente qui in Italia. 
E qui vengo al punto che mi interessa di più, ossia alle prospettive della sinistra a seguito di questo voto. E' vero che abbiamo vinto, che siamo riusciti a far passare, per la prima volta, un'opzione politica diversa rispetto all'imperante ideologia ultraliberista, che però è tutt'altro che sconfitta, anzi ha dimostrato, ancora una volta, una pervasività inquietante.
Un elemento che mi preoccupa - molto - è la sostanziale e totale adesione della maggior parte degli esponenti del Pse all'ideologia ultraliberista. In questa vicenda Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, pur essendo i rappresentanti di due famiglie politiche formalmente contrapposte, hanno detto e fatto le stesse medesime cose. Anzi Schulz è quello dei due che ha usato i toni più minacciosi, che ha rinunciato da subito alle blandizie diplomatiche, dichiarando esplicitamente che il loro obiettivo era la caduta del governo Tsipras e la creazione di un esecutivo più malleabile, sostanzialmente prono ai voleri della Troika. In questa settimana era impossibile capire chi fosse del Ppe e chi del Pse. Rajoy e renzi sono intervenuti con la stessa virulenza contro il fronte del no, il primo comprensibilmente preoccupato per la crescita di Podemos - che certamente sarà galvanizzato da questo risultato - il secondo, che - purtroppo per noi - non ha questo pensiero, per puro servilismo; eppure Rajoy e renzi sono uno del Ppe e uno del Pse, ma sono ormai indistinguibili per scelte politiche e azione di governo.
Di fatto questo referendum ha segnato il suicidio politico dei socialisti europei, la loro resa di fronte alle forze del capitale. E anche chi - come me - in questi anni è sempre stato critico verso quel movimento e lo ha ritenuto inadeguato, non può essere contento di questa fine ingloriosa.
Pensate a quello che è successo in questi giorni: la piccola Grecia, che rappresenta il 2% del pil di tutta l'Unione europea, è riuscita a bloccare le forze del capitale, perché queste, per tracotanza, hanno costruito un sistema monetario che non prevede l'uscita dall'euro di uno dei paesi aderenti. L'uscita della Grecia dall'area euro e il conseguente ritorno alla dracma è stato il bluff usato in questi mesi dalle forze del capitale, che pure sapevano che questa opzione avrebbe causato più danni a loro che alla Grecia. La forza di Syriza è stata quella di denunciare questo bluff, di dire, come il bambino della fiaba, che il re è nudo. Pensate se questa presa di posizione fosse stata presa, mesi fa, dai paesi governati da esponenti del Pse - dalla Francia, dall'Italia, dalla Danimarca - non sarebbe servito il referendum greco, non sarebbe servito il sacrificio di quel popolo che, per difendere l'Unione, anche per noi, ha messo in pericolo i propri risparmi. Invece il Pse ha scelto il rigore, le privatizzazioni, la legislazione che limita i diritti dei lavoratori, l'aumento della tassazione indiretta e la diminuzione di quella diretta, in buona sostanza ha scelto di abbandonare a se stessi i poveri, i lavoratori, per difendere i ricchi, i privilegiati, ha deciso di allearsi con le forze del capitale, giustificando questa scelta nel nome della modernità.
Come ho scritto molte volte, di questa deriva portiamo la responsabilità tutti noi che abbiamo fatto politica in questi anni nel campo della cosiddetta sinistra riformista e fino a quando non rifletteremo, senza infingimenti, su questo nostro passato recente, che tiene avviluppato ancora tanti, non faremo passi in avanti. Il Pse è il morto che rischia di far annegare il vivo.
Poi c'è un'altra considerazione che riguarda proprio i cittadini greci. A quello che sappiamo la stragrande maggioranza dei giovani di quel paese ha votato no. Credo sia comprensibile, visto che proprio loro sono quelli che hanno subito più duramente gli effetti di questa crisi, che o non trovano lavoro - la disoccupazione giovanile supera il 60% - o, se lo trovano, è sottopagato e precario. Mi piacerebbe sperare che sia cresciuta tra quei giovani una forte consapevolezza di sinistra, ma temo non sia così. Soprattutto in questa generazione è penetrata a fondo l'ideologia ultraliberista, anche perché noi abbiamo offerto loro un pessimo esempio, in questi anni non abbiamo mai davvero rappresentato un modello alternativo per questi ragazzi. 
I ragazzi greci sono così diversi dai loro coetanei italiani? Non credo. Tra i nostri giovani prevale la sfiducia nella politica, la difficoltà a riconoscere i valori della condivisione pubblica, l'idea che perseguire egoisticamente il proprio benessere sia un valore positivo. E' l'ideologia ultraliberista che ha ormai inculcato nei nostri ragazzi l'idea che ognun per sé, Dio per tutti. Questo egoismo, che si trova nei giovani, ma prevale nettamente anche tra i vecchi - basta osservare i comportamenti collettivi di gran parte dei nostri contemporanei - è la destra "interiorizzata", il capitalismo che ormai ha infettato i cervelli e inaridito i cuori, che si è diffuso come un cancro. Così ad esempio la difficoltà di condurre battaglie comuni, e il parallelo tentativo di trattare ognuno il proprio particulare, è uno dei motivi che indebolisce il movimento sindacale. Spero di sbagliarmi, ma credo che il voto dei giovani greci sia la reazione rabbiosa di una generazione con le pezze al culo, e non il prodromo di una rinnovata spinta di sinistra, del diffondersi dell'idea di partecipazione solidale.
Oggi fortunatamente in Grecia Syriza è riuscita a intercettare queste pulsioni, ma in altri paesi, dove la crisi non ha toccato così ferocemente la carne viva della persone, non è la sinistra a svolgere questo ruolo, ma la destra fascista, quella che vive e si rafforza esacerbando il conflitto tra gli ultimi e i penultimi, oppure la destra qualunquista, quella che dice che tutto va male, perché sono tutti uguali. E sempre nella storia, questi movimenti hanno fiancheggiato le forze del capitale, le hanno aiutate, sono state le loro naturali alleate.
Era importante vincere e Tsipras e i compagni di Syriza hanno fatto bene a usare tutti i mezzi per sconfiggere le forze del capitale, ma quanto di quel voto è frutto di un taglio decisamente nazionalista che il governo ha dato a questa consultazione, sfruttando anche il naturale risentimento antitedesco? Probabilmente molti hanno deciso di votare no spinti più dal desiderio di vendicarsi della Germania o dall'orgoglio greco che dall'adesione a un progetto politico così radicalmente di sinistra. Così come per noi è imbarazzante la compagnia delle persone con cui ci siamo ritrovati a festeggiare per l'esito del referendum: il nostro no non è quello della Lega, della Meloni, di Brunetta o di Grillo. In Italia abbiamo rischiato di rappresentare il no quasi solo come un'opzione della destra, della destra peggiore.
Francamente ho visto un po' troppo entusiasmo intorno al risultato del voto greco. L'euforia è giustificata, perché adesso sappiamo che le forze del capitale non sono imbattibili, perché le vediamo costrette a trattare con gli "impresentabili", con quelli senza cravatta, perché probabilmente adesso dovranno accettare di rinegoziare il debito; e tutto questo sarà un'iniezione di fiducia per i compagni di Podemos, per i compagni del Sinn Fein, per i tentativi che si stanno compiendo in Europa di costruire una sinistra nuova. Tra l'altro, morto il Pse, ossia il rappresentante della cosiddetta sinistra riformista, anche il senso della dicotomia tra sinistra riformista e sinistra radicale cade. Dal momento che la sinistra riformista non esiste più - o è una caricatura, come in Italia - la sinistra radicale deve anch'essa ridefinirsi, perché non basta più dire di essere a sinistra del Pse. A sinistra di niente non c'è posto per niente.
Mi pare che in Italia in particolare ci sia la tentazione di riunire tutta la sinistra, senza aggettivi, che si dia un'eccessiva enfasi alla necessità di stare tutti insieme. Capisco che sia importante, vista anche la nostra naturale tendenza a scinderci. Ma se è vero quello che ho detto prima, credo invece che qualche aggettivo occorra usarlo, altrimenti rischiamo che l'entusiasmo che si è creato intorno al pur importantissimo risultato del referendum greco venga vanificato nel lungo periodo. Come sapete io sono particolarmente affezionato all'aggettivo socialista, perché credo che questa parola possa esprimere ancora molta della sua potenzialità, possa spiegare il conflitto che c'è nel mondo - e lo abbiamo visto agire in questi giorni - tra le forze del capitale e quelle del lavoro. Una volta la chiamavano lotta di classe, altro termine che io voglio ricominciare a usare, perché spiega che si sta da una parte o dall'altra e che queste due parti sono destinate a scontrarsi. E infatti essere socialisti significa lottare per un'uguaglianza sostanziale, che è in antitesi alla concezione prettamente individualistica oggi così in auge; essere socialisti significa credere che esistano dei beni comuni da sottrarre al mercato, che la ricchezza debba essere redistribuita, che la piena occupazione e la dignità del lavoro possano porre dei limiti all'iniziativa privata, che il welfare debba essere universalistico.
Ad esempio credo sia significativo il fatto che una delle richieste della Troika su cui si è arenata la trattativa, sia stata quella di impedire al governo Tsipras di reintrodurre la contrattazione collettiva nazionale, abolita dai precedenti governi di destra. Dal momento che questa misura non ha incidenza sul debito che la Grecia è stata costretta ad accumulare, è chiaro che l'Unione europea ha condotto tutti i negoziati in questi mesi - e li sta conducendo oggi - con uno spirito violentemente ideologico, con l'obiettivo di cancellare i diritti conquistati dai lavoratori nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. E, guardando all'Italia, è altrettanto chiaro che il tanto decantato riformismo renziano, che ha prodotto - tra le altre castronerie - il jobs act, non è altro che la mera esecuzione di ordini che vengono dalle forze del capitale; anche per questo il risultato del referendum è stato così importante.
E' stato necessario, ma non sufficiente. E' stato necessario votare no, per fermare l'attacco del capitale, per guadagnare un po' di tempo, per prendere coraggio, ma non è sufficiente per costruire una vera alternativa socialista, che prospetti un sistema radicalmente diverso dei rapporti economici e sociali. Mi pare che i compagni greci ci stiano provando. Noi purtroppo no.

domenica 5 luglio 2015

da "I Persiani" di Eschilo (vv. 230-244)

Atossa
Questo voglio sapere, amici: in quale parte della terra dicono che si trovi Atene?
Coro
Lontano, dove Sole potente si tuffa languendo.
Atossa
E spasima, mio figlio Serse, di catturare una tale città?
Coro
Tutta la Grecia s'inchinerebbe al Gran Re.
Atossa
Pari a noi contano nerbo d'uomini armati?
Coro
D'una tempra che già diede tormento ai Persiani.
Atossa
In pugno? Lampo di freccia a incurvare lo scatto dell'arco, o...
Coro
No, no: picche immote, corazzate di scudi.
Atossa
E in più, che altro? Scorte domestiche d'oro?
Coro
Pare una vena d'argento. Forziere è la terra.
Atossa
Ma quale capo li comanda? Chi guida il loro esercito?
Coro
Di nessun essere umano essi sono detti schiavi o sudditi!
Atossa
Ma allora come possono reggere all'assalto di genti nemiche?
Coro
Come? Tanto bene ci riescono che hanno fatto a pezzi un'armata di Dario, grande e potente.

venerdì 3 luglio 2015

Considerazioni libere (402): a proposito della Grecia che amiamo...

Spero che José Saramago mi possa perdonare per aver usato, cambiandolo un po', un bellissimo brano tratto da "La zattera di pietra", adattandola a quello che succede in questi giorni in Grecia e in Europa.

La razza degli inquieti, fermento del diavolo, non si estingue facilmente, per quanto si adoprino gli àuguri in pronostici. È lei che segue con gli occhi il treno che passa e si rattrista, nostalgica, per il viaggio che non farà, è lei che non può vedere un uccello nel cielo senza provare la bramosia di un volo alcionio, è lei che, nel dileguarsi di una barca all’orizzonte, libera dall’anima un sospiro tremulo, l’amata ha creduto perché fossero sì vicini, solo lui sapeva perché era sì lontano. Fu dunque uno di quegli insoliti e inquieti uomini che per la prima volta osò scrivere le parole dello scandalo, segnale di una evidente perversione, Nous aussi, nous sommes grecs, le scrisse su un muro, in un angolino, timidamente, come chi, non potendo ancora proclamare il suo desiderio, non ce la fa più a nasconderlo. Essendo stato scritto, come si può leggere, in francese, si penserà che il fatto sia accaduto in Francia, è il caso di dire, Pensi ciascuno ciò che vuole, poteva esser successo anche in Belgio, o in Lussemburgo. Questa dichiarazione inaugurale dilagò rapidamente, comparve sulle facciate dei palazzi, sui frontoni, sull'asfalto delle strade, nei corridoi della metropolitana, sui ponti e sui viadotti, i fedeli europei conservatori protestavano, Questi anarchici sono pazzi, è sempre così, si fa scontare tutto all'anarchia.
Ma la frase oltrepassò le frontiere e dopo che le ebbe oltrepassate ci si accorse che, alla fin fine, era già comparsa anche negli altri paesi, in tedesco Auch wir sind Griechen, in inglese We are Greeks too, in italiano Anche noi siamo greci, e di repente fu come una miccia, ardeva dappertutto a lettere rosse, nere, blu, verdi, gialle, viola, un fuoco che sembrava inestinguibile, in olandese e fiammingo Wij zijn ook Grieken, in svedese Vi ocksa ar greker, in spagnolo Nosotros también somos griecos, in danese Vi er også grækerne. Ma il culmine, l'auge, l'acme, parola rara che non torneremo a usare, fu quando tra le mura del Vaticano, sulle venerabili pareti e sulle colonne della basilica, sullo zoccolo della Pietà di Michelangelo, sulla cupola, a enormi lettere azzurro chiaro sul pavimento di Piazza San Pietro, la stessa identica frase apparve in latino, Nos quoque graeci sumus, come una sentenza divina al plurale majestatis.
Alla sera al mattino l'Europa si svegliò coperta di queste scritte. Ciò che, all'inizio, forse era stato solo il mero e impotente sfogo di un sognatore continuò a dilagare fino a diventare grido, protesta, manifestazione di piazza.

mercoledì 1 luglio 2015

Verba volant (199): no...

No, avv.

In politica non è facile rispondere con un o con un no, perché in genere le questioni sono più complicate di così, faticano a essere incasellate in questa dicotomia elementare, richiedono una risposta più articolata e soprattutto perché tra il e il no c'è tutta una varietà di possibili risposte, tra cui spesso si trova quella giusta. Peraltro anche nella vita è così, raramente è solo o solo no. Però ci sono delle volte, in politica - come nella vita - in cui non c'è più spazio per questi distinguo e bisogna rispondere, in maniera secca: o no.
Il prossimo 5 luglio io voterei no, convinto, convintissimo, e spero che tanti greci - la maggioranza - facciano questa stessa scelta. Il no ha molti significati, ma alla fine è sostanzialmente una scelta di campo: di qua noi e di là "loro".
Devo dire che "loro" ci stanno aiutando parecchio a definire i campi. Non fanno neppure finta, non cercano di apparire diversi da quello che sono. "Loro", rifiutando fino all'ultimo - anche in queste drammatiche ore - le proposte elaborate dal governo greco, hanno detto chiaramente che l'obiettivo che perseguono non è quello di risanare l'economia greca o di trovare una soluzione alla crisi europea, magari la soluzione "tecnica", asetticamente neutra, come dicevano - mentendo - solo pochissimo tempo fa. "Loro" vogliono distruggere la Grecia perché ha osato eleggere un governo diverso da quello che "loro" avrebbero voluto, un governo che fa proposte di sinistra, neppure troppo radicali, proposte che un tempo avremmo definito socialdemocratiche. A "loro" non interessa sapere se il governo greco pagherà o non pagherà i propri debiti - una cifra alta, ma in fondo sopportabile, una cifra che potrebbe essere estinta, in tutto o in parte, senza troppi contraccolpi, come è avvenuto con il debito tedesco negli anni Cinquanta. Invece "loro" chiedono quattro cose: riduzione drastica delle pensioni, abbassamento dei salari e abolizione dei diritti dei lavoratori, smantellamento dei servizi pubblici e privatizzazioni. E' quello che hanno imposto all'Italia, con i governi di Monti, poi di Letta e infine di renzi; dalla riforma Fornero all'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori le leggi fatte in Italia vanno tutte in questa direzione. E' quello che hanno imposto alla Germania, alla Francia, a tutti i paesi dell'Unione europea. E' quello che vogliono dalla Grecia.
Per questo non possono tollerare che un piccolo paese rifiuti questo schema, magari avendo la presunzione di offrire una propria ricetta per tentare di uscire dalla crisi. Il governo greco ha proposto, tra le altre misure, di aumentare l'imposta sulle società dal 26 al 29%, di introdurre una tassa speciale del 12% per le imprese con profitti superiori ai 500mila euro l'anno, di aumentare la tassa sul lusso e sugli yacht privati, di tassare le licenze di telefonia mobile, di tagliare 200 milioni dalle spese per la difesa: si tratta evidentemente di misure che colpiscono direttamente i greci ricchi e i capitalisti internazionali. E contemporaneamente ha varato dei provvedimenti per tutelare la fascia dei più poveri. Si tratta chiaramente di uno scontro di classe - non ci sono altre parole per dirlo, anche se sembrano desuete - di una fase, violentissima, dello scontro tra il capitale e le forze del lavoro. E se saremo sconfitti, questa volta sarà difficilissimo pensare di tornare in gioco, almeno per quelli della mia generazione impossibile.
La decisione del governo greco di indire questo referendum, di far decidere ai cittadini greci se accettare o meno l'accordo tra la Grecia e i suoi creditori, è l'altra ragione per cui la reazione del capitale è così rabbiosa. In questi anni abbiamo registrato una progressiva riduzione degli ambiti e delle prerogative degli istituti democratici, proprio mentre si cercavano di annullare le conquiste del movimento dei lavoratori. Anzi le due cose sono andate perfettamente di pari passo. Anche in questo caso le vicende italiane sono significative: tutte le riforme varate in queste anni - e segnatamente quelle che portano la firma di quest'ultimo disgraziato governo - vanno nella direzione di una concentrazione di potere in capo all'esecutivo, a scapito di quello legislativo, e di una centralizzazione, a scapito delle autonomie, portando quindi il segno di una svolta autoritaria.
In questi giorni occorre scegliere da che parte stare e - al di là del risultato di domenica - questo referendum avrà un significato storico, perché mostra la verità, squarcia il velo sulle ipocrisie della politica di questi anni infelici. Questo referendum segna in particolare la sconfitta dei socialisti europei, la loro irrilevanza politica. La decisione dei partiti socialisti, sia di quelli che sono al governo sia di quelli che nei loro paesi sono all'opposizione, di schierarsi per il , di accettare supinamente quello che viene loro imposto dalle forze del capitale, segna un passaggio storico, così come la decisione dei socialdemocratici tedeschi di votare i crediti di guerra all'inizio del primo conflitto mondiale segnò la fine dell'Internazionale. Da oggi il Pse non esiste più, perché ha decretato la propria fine arrendendosi al proprio nemico. Anche in questo caso purtroppo l'Italia ha anticipato i tempi di questa crisi: la decisione dei Democratici di sinistra di far nascere il pd ha rappresentato il suicidio dei socialisti in Italia, di cui l'attuale sciagurato governo - il cui capo ovviamente si spertica, anche nel suo improbabile inglese, a favore del - rappresenta soltanto la naturale e inevitabile degenerazione.
Non sappiamo cosa succederà il prossimo 5 luglio, non sappiamo cosa decideranno i greci: la pressione affinché votino è fortissima, tutti i mezzi di informazione europei sono schierati per il , dipingono scenari foschi in caso di vittoria del no. Sarà difficile per i greci resistere a questa tensione. E soprattutto non sappiamo cosa succederà dopo il 5. Se vincerà il non è detto che le forze del capitale si limitino ad applicare lo schema dell'accordo che avevano chiesto a Tsipras di firmare, probabilmente chiederanno altre misure: si prepara per quel popolo nobile e fiero una tristissima agonia, perché il capitale si avventerà su quel paese con una violenza inaudita, con spirito di vendetta e per dare una lezione preventiva agli altri popoli europei, caso mai avessero la tentazione di votare a sinistra. Votare equivale a insaponare il cappio a cui quel popolo sarà appeso.
Se vincerà il no non sappiamo cosa succederà, probabilmente le forze del capitale non riconosceranno l'esito del referendum e, nel chiuso delle loro stanze, stanno già preparando un colpo di stato, per quanto non convenzionale, per esautorare il governo Tsipras. Lo hanno fatto in Italia, quando napolitano, forzando e violando la Costituzione, fece dimettere Berlusconi che, nonostante tutto, era stato eletto, e impose al parlamento il governo Monti. I leader dei partiti greci dell'opposizione, compresi i traditori del Pasok, sono già stati a Bruxelles e a Berlino per trattare la resa e probabilmente anche in quel paese useranno il presidente della Repubblica, esponente di Nea Dimokratia, per bloccare il tentativo di Tsipras.
Se vincerà il no il governo legittimo della Grecia potrà, con la forza della democrazia, dire che quei debiti sono illegittimi perché concessi, con il solo intento speculativo, quando si sapeva che non sarebbero stati onorati, e perché il cercare di pagarli metterebbe in ginocchio un popolo. E perché la Grecia è la terra di Solone, il primo legislatore che varò un provvedimento per l'estinzione dei debiti quando questi potevano essere pagati soltanto a prezzo della schiavitù del debitore.
Spero di aver fatto capire perché per me quello che succede in questi giorni, in queste ore, in Grecia non è qualcosa che riguarda soltanto quel popolo, a cui noi possiamo guardare con più o meno solidarietà, a seconda del legame che abbiamo con quella terra - che per me è fortissimo, come sapete - ma è qualcosa che ci riguarda direttamente, riguarda il futuro nostro e dei nostri figli. Domenica le donne e gli uomini della Grecia voteranno anche per noi. E non sono chiamati a un referendum tra l'euro e la dracma, come ha detto renzi, con la sua solita arroganza clownesca, non sono chiamati a un referendum pro o contro l'Europa: la Grecia è naturalmente Europa, non può non esserlo, visto che l'Europa è nata lì, in quelle città. E' un referendum pro o contro questa Europa, che non è l'unica Europa possibile, ma solo l'Europa che il capitale ha costruito per difendere i propri interessi. Anche per chiarire che c'è una bella differenza tra il nostro no - che è il no di Syriza e della migliore sinistra europea - e il no della destra fascista e nazionalista, della destra delle piccole patrie, dei muri, dei respingimenti oppure il no qualunquista e opportunista di quelli che vogliono approfittare del momento per raccogliere qualche consenso in più, con la loro antipolitica volgare e urlata.
Il nemico è potente, fortissimo, ma questa volta abbiamo un vantaggio, perché il capitale, credendosi invincibile, ha peccato di orgoglio - di ybris avrebbero detto gli antichi Greci - e ha costruito un sistema che non prevede vie di uscita. Non pensava che un giorno uno dei paesi dell'area euro avrebbe avuto un governo come quello che c'è adesso in Grecia o come ci potrebbe essere l'anno prossimo in Spagna; pensava che ci sarebbe sempre stato un fantoccio facilmente manovrabile, un Samaras, un renzi, o robe del genere. Per questo hanno paura, perché il rischio che salti l'euro, una volta uscita la Grecia, è un'opzione possibile, a cui non sono preparati. Noi dobbiamo sfruttare questa loro paura, dobbiamo sapere che, per una volta, abbiamo noi il coltello dalla parte del manico. E vogliamo usarlo.
Per questo voterei no, perché questo è un voto per la democrazia, per i diritti politici e civili, per il lavoro, perché questo è un voto per il socialismo.
Forza, compagne e compagni greci, gridiamo forte insieme il nostro OXI.