sabato 30 maggio 2015

Verba volant (189): schedatura...

Schedatura, sost. f.

Io un lavoro ce l'ho e non lo cerco, ma, se lo cercassi, probabilmente non potrei lavorare all'Expo. Perché l'Expo è un sito di interesse strategico nazionale e quindi non valgono in quella manifestazione le regole che valgono nel resto del paese. Non potrei lavorare all'Expo non perché troppo vecchio o troppo giovane, troppo qualificato - succede anche questo in Italia - o troppo inesperto - capita nel paese in cui si assumono apprendisti con esperienza - ma semplicemente perché "non gradito alla Questura".
Infatti tutte le aziende che assumono per Expo devono inserire i dati della persona nella "piattaforma accrediti"; questi dati - anche se all'interessato non viene detto - vengono trasmessi alla Questura, che fa una verifica e decide, senza dare alcuna giustificazione o spiegazione, se concedere o meno il permesso. E senza questo parere preventivo non si lavora. Probabilmente io - come è successo ormai a molte persone - non passerei a questo vaglio poliziesco, anche se ho la fedina penale - come si chiamava una volta - pulita. Probabilmente basterebbe quello che scrivo su questo blog, le mie riflessioni sull'Expo o la mia adesione a campagne di disobbedienza civile come Libertà di dimora o le mie critiche - riconosco spesso aspre - alle forze dell'ordine per quello che è successo a Stefano Cucchi e per la vicenda della Diaz, o ancora i toni - anche in questo caso piuttosto accessi - con cui mi sono rivolto al precedente presidente della Repubblica, a cui ho anche scritto direttamente all'indirizzo mail del Quirinale. Si tratta di prese di posizione pubbliche, mai anonime e sempre firmate, in cui ci ho messo e ci metto la faccia. E legittime in una democrazia, garantite dalla Costituzione. Almeno fino ad ora.
Alcune persone si sono viste negare il permesso perché avevano partecipato a movimenti studenteschi o perché sono abituali frequentatori dei centri sociali. Verificando le storie personali delle persone che, nonostante fossero già state assunte, non hanno potuto neppure cominciare a lavorare e quindi sono state licenziate, basta una nota sugli schedari della polizia, una segnalazione o una denuncia mai arrivata a processo per vedersi negato il permesso. Nella piattaforrma sono attualmente registrate circa 30mila persone e per tutti questi - oltre che per i tantissimi che sono stati scartati - è stata avviata una campagna illegale di raccolta di informazioni e di schedatura di massa. E' uno scandalo per ora denunciato dalla Cgil della Lombardia e da pochi organi di informazione, ma di cui dobbiamo parlare, che dobbiamo condividere il più possibile.
Dobbiamo lottare affinché questo archivio illegale venga distrutto, vengano rimosse e condannate le persone che lo hanno promosso e autorizzato e soprattutto che si possa essere assunti all'Expo - come in qualunque altro posto di lavoro - senza che vengano prese informazioni sulle nostre opinioni politiche o filosofiche o religiose.
Le schedature dei lavoratori sono una brutta pagina della nostra storia. All'inizio degli anni '70 alcuni magistrati torinesi - tra cui Raffaele Guariniello - scoprirono l'archivio della Fiat in cui l'azienda aveva raccolto, anche grazie alla complicità di poliziotti e carabinieri corrotti, un'imponente mole di informazioni sui propri dipendenti. Leggere quegli schedari è un viaggio nella storia del paese. Nel 1954 un lavoratore è segnalato perché "ex partigiano, incensurato politicamente e penalmente, iscritto al Pci, attivista, è il propagandista più attivo dello stabile dove abita" , mentre nel '63 di un altro lavoratore si dice che "è simpatizzante Pci" e si mette in luce la sua "reputazione cattiva", anche perché ritenuto un omosessuale. Nel '68 un operaio è schedato con un pessimo giudizio: "trattasi di capellone". Sulle donne le schede Fiat, oltre alle scelte politiche, si dilungano su giudizi morali: "è nubile e madre di una bambina di quattro anni, simpatizza per i partiti di sinistra, conduce vita piuttosto libera" si dice di un'operaia; "è passata a seconde nozze nel luglio scorso; durante la vedovanza ha lasciato a desiderare per la condotta morale e civile, e ha avuto anche un aborto" è scritto nella scheda di un'altra lavoratrice, riferendosi alla "condotta" della madre.
E' una storia che non avremmo voluto più raccontare, anche perché l'art. 8 dello Statuto dei lavoratori, ancora non formalmente abrogato da questo governo, dice:
È fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore.
Questa storia, come era successo a quella delle schedature della Fiat, rischia di passare sotto silenzio; per questo dobbiamo denunciarla. Io all'Expo non potrei entrare come lavoratore, ma naturalmente posso entrarci dopo aver pagato il biglietto. A questo punto però non so se vi darò 39 euro per entrare in un posto dove non mi accetereste come lavoratore.
Come abbiamo visto per molti altri aspetti, Expo gode di una sorta di extraterritorialità, a Expo non vale la Costituzione, anche sui più elementari diritti civili. Invece vale, vale sempre. Ricordatelo voi che ci spiate e ci schedate. E consideratela pure una minaccia. Ma soprattutto ricordiamolo noi, tutti i giorni, perché i diritti vanno coltivati, difesi, ampliati. Farlo è un nostro dovere.

post scriptum
Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto il fascicolo che fecero su di me i carabinieri di Granarolo in quanto eletto nel 1990 nella lista del Pci. So che c'era, perché in occasione di un lieve incidente che ho avuto con lo scooter anni fa, un appuntato ingenuamente me lo fece vedere. Ovviamente c'era assai poco, perché io ero allora - come oggi - poco pericoloso. E immagino anche che quei carabinieri - che lavoravano bene e con impegno - assolvessero a quel compito di schedatura dei membri del Pci con scarsa lena, più che altro per rispettare un formale adempimento burocratico. A noi dipendenti pubblici capita a volte di fare cose solo perché si facevano prima, anche se non ne capiamo bene il senso. La schedatura dei comunisti è un'altra pagina vergognosa di questo paese, una pratica che evidentemente è stato molto duro abbandonare.
Quindi, cari amici della Questura che state facendo il mio fascicolo, non affannatevi a cercare quel vecchio incartamento, non ci troverete nulla di interessante. Meglio Facebook.

mercoledì 27 maggio 2015

Verba volant (188): prospettiva...

Prospettiva, sost. f. 

Quattro uzbeki di religione musulmana sono morti nel parmense durante la Resistenza. Cosa ci facevano quei quattro giovani sulle nostre colline? Come erano arrivati fin qui dalle steppe dell'Asia centrale? E' una storia che merita di essere raccontata.
Erano stati fatti prigionieri dalla Wehrmacht durante l'Operazione Barbarossa, ossia l'invasione dell'Unione sovietica da parte delle truppe naziste. Con il procedere degli scontri, mentre cresceva la consapevolezza che il conflitto non sarebbe stato così breve, come avevano previsto Hitler e gli alti comandi dell'esercito, la Germania decise di utilizzare parte di quei prigionieri come truppe di complemento per altri fronti e così i nostri uzbeki - insieme a molti altri - furono inquadrati nell'esercito tedesco e destinati all'Italia, dopo che il nostro governo aveva firmato l'armistizio di Cassibile. Nonostante queste truppe servissero al Reich, erano trattate con una sprezzante superiorità ariana e spesso destinate o a lavori defatiganti o alle prime linee degli scontri: vera carne da macello. Anche per questo, e per l'ostilità che l'occupazione tedesca aveva suscitato in quegli anni fino alle più remote regioni dell'Asia, i quattro uzbeki ben presto disertarono e decisero di unirsi, insieme ad altri fuggiaschi, alla bande dei partigiani che si stavano costituendo in montagna qui nella provincia di Parma.
Verosimilmente avevano una ben scarsa consapevolezza di quello che stava succedendo intorno a loro, di dove si trovavano e di cosa stavano facendo, ma hanno combattuto e sono morti combattendo, per noi, per la nostra libertà, mentre lottavano, con in cuore la speranza di fare finalmente ritorno nella loro terra, dalle loro famiglie. E' giusto ricordare anche loro, onorarli insieme ai "nostri" caduti. Anche se i loro visi avevano fattezze orientali - mongole probabilmente - e la loro religione è quella che adesso viene presentata come nemica della nostra civiltà.
L'anonimo partigiano che a volte vediamo ritratto nelle statue - spesso piuttosto brutte - che stanno al centro delle nostre città è sempre un maschio di razza caucasica. La prossima volta che ci passiamo accanto, cambiamo prospettiva, proviamo a immaginarlo con gli occhi a mandorla. Oppure come una donna. Ci farà bene. 
Spesso ce ne dimentichiamo - perché la nostra prospettiva è sempre troppo parziale e limitata - ma quella guerra fu davvero mondiale, perché coinvolse donne e uomini di tutto il mondo. A Forlì c'è il cimitero dei soldati indu e sikh che combatterono nell'esercito inglese e il cui sacrificio fu determinante per lo sfondamento della Linea gotica. Quindi i tantissimi sikh che vivono nella nostra regione e allevano, con competenza e passione, le mucche da cui viene l'italianissimo parmigiano-reggiano non sono stati i primi a venire qui, ma i nipoti di quei soldati, che si ritrovarono catapultati dall'altra parte del mondo, strappati dalle loro case in India, per venire a combattere al fianco dei nostri nonni.
E potremmo citare tanti altri casi. Ricordo, ad esempio, che a Vergato, poco distante da Marzabotto - luogo caro alla nostra memoria - c'è un monumento che ricorda i soldati brasiliani caduti nel conflitto, a fianco degli Alleati. Eppure per noi i soldati hanno sempre la pelle bianca o al massimo sono neri degli Stati Uniti, come quello che mise incinta la ragazza di Napoli protagonista, insieme al suo bambino niro niro, di quel bellissimo canto popolare che è Tammuriata nera. Invece ci furono anche tanti di quelli che ora chiamiamo, con una qualche ipocrisia, extracomunitari. E che allora erano considerati appartenenti a razze inferiori. Allora naturalmente, perché oggi noi "uomini bianchi" siamo molto più evoluti e non crediamo più a queste cose; almeno spero.
E, allo stesso modo, anche la Grande guerra fu davvero mondiale, combattuta da soldati provenienti da ogni angolo della terra. Nella battaglia della Somme morirono soldati algerini, indiani, indocinesi, congolesi, caraibici, arruolati dalle potenze europee che in quel tempo dominavano praticamente tutte le terre conosciute. E quella guerra - anche se spesso lo dimentichiamo e neppure lo studiamo - fu combattuta, forse con ancora più violenza e più brutalità, in Africa, per il controllo delle colonie tedesche in quel continente. E nelle colonie i conflitti erano condotti dai soldati di quei paesi, guidati da ufficiali europei che li mandavano a combattere male armati e con equipaggiamenti inadeguati, dimostrando verso le "loro" truppe un disprezzo che non era solo di classe - come quello dei generali europei verso i soldati dei loro paesi - ma anche apertamente razzista. Sono centinaia di migliaia i caduti "stranieri" della prima guerra mondiale e forse il milite ignoto è nero.
Di questo non abbiamo assolutamente parlato in questo centesimo anniversario, eppure sarebbe stato molto utile per capire da dove arriviamo; e dove, forse, arriveremo. Perché la storia va studiata anche quando ci dà fastido, anche quando racconta verità che preferiremmo sottacere, anche quando mette in crisi le nostre certezze, i nostri giudizi e soprattutto i nostri pregiudizi.
Per questo dovremmo imparare a cambiare prospettiva, anche correndo il rischio di cui ci parla Eugenio Montale:
le cose sono fatti e i fatti
in prospettiva sono appena cenere

martedì 26 maggio 2015

"In memoria del vescovo Romero" di Davide Maria Turoldo


In nome di Dio vi prego, vi scongiuro,
vi ordino: non uccidete!
Soldati, gettate le armi…
Chi ti ricorda ancora,
fratello Romero?
Ucciso infinite volte
dal loro piombo e dal nostro silenzio.
Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.
Ucciso perché fatto popolo:
ucciso perché facevi
cascare le braccia
ai poveri armati,
più poveri degli stessi uccisi:
per questo ancora e sempre ucciso.
Romero, tu sarai sempre ucciso,
e mai ci sarà un Etiope
che supplichi qualcuno
ad avere pietà.
Non ci sarà un potente, mai,
che abbia pietà
di queste turbe, Signore?
nessuno che non venga ucciso?
Sarà sempre così, Signore?

domenica 24 maggio 2015

Verba volant (187): bandiera...

Bandiera, sost. f.

So che le idee di quei sindaci sono molto distanti dalle mie, che il loro intento è provocatoriamente polemico e soprattutto che non condividiamo le ragioni di fondo per cui faremmo alla fine la stessa scelta, ma francamente trovo assennata e molto condivisibile la presa di posizione di quelle amministrazioni comunali che hanno deciso di non esporre la bandiera italiana il 24 maggio - limitandosi a lasciarla a mezz'asta, per ricordare i morti di quel sanguinoso conflitto - senza esaltare l'inizio di una guerra di cui non c'è davvero nulla che valga la pena di essere celebrato.
Sono passati esattamente cent'anni dal giorno in cui l'Italia decise di far partire, dal Forte Verena sull'altopiano di Asiago, il primo colpo di cannone verso le fortezze austriache che si trovavano sulla Piana di Vezzena, dando così il via alle operazioni militari che si sarebbero concluse quasi quattro anni dopo, con oltre un milione di morti. Non c'è nulla da festeggiare, non è più il tempo di lanciarsi in tirate retoriche di sapore patriottardo, di citare il Piave marmorante e altre stupidate del genere. Fu una guerra sbagliata, a cui l'Italia non avrebbe mai dovuto partecipare e che fu condotta con un misto pericoloso di dilettantismo e di arroganza; una guerra che l'Italia ha vinto, solo perché hanno perso gli altri. Possiamo soltanto - ed è doveroso naturalmente - commemorare i caduti, senza appunto gli orpelli della propaganda nazionalista, e cercare di capire cosa è successo davvero cent'anni fa. Sperando che la storia possa insegnarci qualcosa.
Quella guerra è stata devastante per il nostro paese, così come per il resto dell'Europa. I morti sono stati più di 15 milioni, secondo le stime più prudenti, anche se la cifra dovrebbe essere molto più alta, aggiungendo tutti quelli che sono morti per altre cause, comunque provocate e favorite dalla guerra, come l'epidemia di spagnola scoppiata a partire dal '17. In Italia quella guerra è stata voluta dalla monarchia, dagli alti gradi dell'esercito, dai grandi capitalisti, dalle classi dirigenti più retrive e conservatrici, compresa ovviamente la chiesa cattolica - in sostanza dalla parte peggiore di questo paese - per manifestare un inutile e fallace orgoglio nazionalista, per soddisfare un tronfio militarismo, ma soprattutto per colpire il più duramente possibile le classi più povere del paese. E siccome quel conflitto non riuscì - come tutti costoro avrebbero voluto - a spezzare le nascenti energie del socialismo e del movimento operaio, anzi in qualche modo le rafforzò, grazie a quello che era successo in Russia, grazie all'esempio della Rivoluzione d'ottobre, quelle stesse forze alcuni anni dopo avrebbero delegato il compito di finire l'opera alle squadre di Mussolini, senza rendersi conto delle conseguenze. Il regime fascista è la logica conseguenza di quella guerra, delle vere ragioni che spinsero tutta l'Europa a quella carneficina.
C'è una riflessione lucidissima di Antonio Gramsci, scritta nel '21, che racconta bene cosa è stato quel conflitto, chi l'ha voluto e chi ne ha tratto vantaggio e che fa capire quello che è accaduto negli anni successivi, perché la terribile stagione dei totalitarismi fascisti deriva da quella guerra. Quel conflitto è stato in Europa - e in Italia - una delle fasi dello scontro delle forze della reazione contro quelle del progresso, della guerra di classe che queste forze hanno dichiarato contro gli strati più poveri della società, guerra di classe dei ricchi contro i poveri che è continuata in tutto questo secolo e che continua ancora, purtroppo, anzi adesso in maniera più violenta e sfrenata che mai.
Poi quando i potenti decidono - per i loro motivi inconfessabili, per difendere i propri interessi e per arricchirsi - di cominciare una guerra, trovano sempre dei servi capaci di giustificare quel conflitto, di ammantarlo di nobili ideali, di convincere i popoli che quella guerra viene fatta nell'interesse di tutti. E capaci di "inventarsi" un nemico. Allora erano gli austriaci e ci dissero che avremmo dovuto combattere per Trento e Trieste, poi sarebbero state la perfida Albione e le altre "democrazie plutocratiche e reazionarie", poi i comunisti, gli integralisti islamici, i marziani e così via, passando di nemico in nemico. Mentre il nostro vero nemico è sempre quello: il capitale.
La Grande guerra è stata per tutta l'Europa - e per l'Italia in particolare - una strage, pagata a caro prezzo da migliaia di contadini e di operai strappati dalle loro terre e dalle loro case per combattere nelle trincee. E' stata il primo grande crimine contro l'umanità, per questo credo sia un grave errore sventolare una bandiera che finisce soltanto per nascondere, dietro una retorica di maniera, questa verità.
E se dobbiamo trovare una pagina che racconti davvero la partecipazione dell'Italia in quel conflitto, che rappresenti il nostro paese, non dovremmo ricordare né il Piave né il bollettino di Diaz, ma Caporetto. La stupidità e l'incompetenza degli alti comandi dell'esercito, l'atteggiamento sprezzante con cui questi mandarono al macello i loro soldati, i tanti disertori e renitenti uccisi dai plotoni di esecuzione perché si rifiutavano di avanzare o perché cercavano giustamente di lasciare quel fronte: ecco la pagina di storia che racconta meglio l'Italia, perché in fondo siamo sempre lì, a un'eterna Caporetto, per colpa dell'arroganza e dell'incapacità delle nostre classi dirigenti. Il vero pericolo per tanti giovani italiani non erano i nemici che si trovavano di fronte, ma i capi che erano alle loro spalle. E la storia purtroppo si è ripetuta troppe volte: quante altre volte in questo paese i cittadini non hanno potuto aver fiducia nelle istituzioni, che li hanno usati, ingannati, traditi.
Quindi ammainiamo le bandiere, evitiamo di sventolarle stupidamente e senza capire che vergogne nascondono. Quei morti meritano il nostro ricordo, ma soprattutto ci chiedono di non abbandonare la lotta, di continuare a combattere per la nostra libertà e per i nostri diritti, e per la pace, contro quelli che, facendoci combattere per difendere i loro interessi, ci tolgono libertà e diritti.

giovedì 21 maggio 2015

Verba volant (186): utile...

Utile, agg

Per molti anni non ho avuto bisogno di un aggettivo per definire il mio voto. Votavo per il partito a cui ero iscritto, di cui sono stato per molto tempo militante - come si diceva una volta - e di cui sono stato dipendente per quasi sei anni e dirigente, anche se questa parola mi sembra pretenziosa, ripensando alla mia esperienza di quegli anni; ma serve per capirsi. Poi tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007 quel partito ha deciso di suicidarsi e da allora per me votare è sempre stato più complicato e il mio voto ha avuto bisogno di un aggettivo per definirsi, per giustificarsi.
Alcune volte ho annullato la scheda perché non sapevo cosa votare e altre ho cercato di dare un voto utile. In questi ultimi casi in genere ho sbagliato, ossia il mio voto non è stato affatto utile, o almeno non come intendevo io. Anzi il mio voto nelle elezioni del 2013 non solo non è stato utile, ma è stato terribilmente dannoso, letale direi, e mi rammarico ogni giorno di averlo dato.
Il mio voto di prima era utile? Francamente non so: alcune volte è servito a far vincere il partito e la coalizione, altre volte non è servito, alcune volte quel mio voto è andato al governo e altre all'opposizione. E comunque non mi sembrava che l'utilità fosse il motivo per cui votavo. Votavo perché ci credevo, perché condividevo i valori e le idee, perché quel voto mi raccontava e descriveva la comunità in cui ero cresciuto e mi ero formato: era in sostanza un voto identitario e valoriale.
Quando io ero un ragazzino, nel piccolo paese in cui vivevo - nel contado bolognese - era una cosa normale dichiarare la propria appartenenza politica, dire per chi si votava. Certo il voto era segreto e c'erano un po' di persone che "sfuggivano" a questa regola, ma più o meno sapevamo chi era comunista, chi socialista, chi democristiano e così, a scendere, fino ai "saragattiani", ai radicali, e ad altre eccentricità del genere. Quando lavoravo a Castel Maggiore, uno dei comuni più "rossi" della provincia di Bologna, mi raccontarono un aneddoto riferito alle prime elezioni comunali, svoltesi nella primavera del '46. I comunisti erano in nettissima maggioranza, c'erano pochi socialisti e ancor meno democristiani, mi pare una trentina; sul muro dove erano esposti i risultati di quel primo importante scrutinio, qualcuno scrisse, accanto al numero che indicava i voti della Dc, "vi conosciamo", certo con intento non velatamente minaccioso. Comunque sia li conoscevano davvero, perché quel mondo lì era fatto così, perché la politica aveva un significato ben più importante di quello che ha adesso e serviva a definire una persona, una famiglia, una comunità.
Poi, anche grazie al maggioritario, siamo arrivati al voto utile; anche noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscere quella politica lì, quella bella politica. Naturalmente il voto utile è cosa ben diversa dal voto di scambio, però mi sembra che sia un modo per svilirne comunque il senso e il valore. Voterò quello non perché mi convince o perché penso che sia il candidato migliore, ma perché in questo modo perderà quell'altro, che mi sembra peggiore. Voterò quello per mandare un segnale a quell'altro che avrei votato, ma che vorrei cambiasse un po' la linea. E così via, di elucubrazione in elucubrazione. Naturalmente quelli che votiamo se ne fregano altamente dei motivi, più o meno palesi, più o meno reconditi, per cui li abbiamo votati e, una volta eletti, fanno come vogliono, e i nostri ragionamenti stanno lì, appesi al filo delle nostre buone intenzioni. Credo che, se proprio siamo costretti a dare un voto utile, dobbiamo interrogarci non tanto sul significato dell'aggettivo, ma sul complemento: utile a chi?
Domenica 31 maggio io non voterò, perché nella mia regione non si vota; abbiamo già dato, recentemente. Se vivessi in una delle regioni in cui si vota, darei la mia preferenza a una delle liste che sono nate dall'esperienza di L'Altra Europa con Tsipras e comunque a una lista di sinistra che non sostenga il candidato del pd. Mi dispiace per i tanti amici che ho in Sel, ma ormai non considero più utile un voto al vostro partito, che finisce comunque per favorire, sempre e comunque, il peggior pd, nonostante tutte le vostre migliori intenzioni.
Praticamente in tutte le regioni questo mio voto sarebbe sostanzialmente inutile, perché comunque il risultato è segnato e quindi questo voto a sinistra sarebbe soltanto il segno di una residua testimonianza, proprio come è avvenuto nell'autunno scorso per il voto a L'Altra Emilia-Romagna nella mia regione. Ma nonostante tutto, in qualche modo, credo sia comunque utile: in attesa che a sinistra nasca qualcosa di nuovo e di diverso, penso sia necessario tenere in piedi la sinistra che c'è, che magari non ci piace molto, che ci fa arrabbiare per la sua endemica litigiosità, per la sua autoreferenzialità, ma che comunque c'è e la dobbiamo in qualche modo preservare. Come ho scritto in un'altra occasione, non nascerà da lì la sinistra del futuro, ma, visto che i tempi sono lunghi e questo sarà il lavoro di un'altra generazione, nostro compito è almeno quello di tenere accesa una fiammella.
In Liguria invece il mio voto - il nostro voto di "sinistri sparsi" - potrebbe essere utile, molto utile: non conosco questo Luca Pastorino e non ho per lui motivo di particolare simpatia - in fondo è sempre uno del pd, un civatiano, roba che a me non piace affatto - ma il mio voto a sinistra potrebbe far perdere la candidata pd e far vincere quello di Forza Italia. E' già un punto a favore. So che c'è ancora qualcuno che crede che questo sia un errore e che, pur di non far vincere Berlusconi, è disponibile a votare perfino renzi, ma io non sono tra quelli. Questo governo deve essere fermato, adesso è impossibile, perché è molto forte e lo sarà ancora di più se vincerà le prossime regionali. Non spero che una sconfitta, anche parziale, anche di misura, come sarebbe quella in Liguria, lo farebbe cadere, ma almeno sarebbe un sassolino per incrinare la sua boriosa sicumera.
Ma soprattutto, per rispondere alla domanda utile a chi?, credo che questo voto sarebbe utile alla Liguria. E' un terra bellissima, che rappresenta un po' tutto il nostro paese, nella sua bellezza appunto, ma anche nella sua fragilità. La Liguria racconta l'Italia, nella crisi dell'occupazione industriale, nell'incapacità di far nascere un turismo vero, economicamente redditizio e culturalmente responsabile, nella forza del voto di scambio e del ricatto politico, nella pervasività delle mafie, nell'arroganza di una classe dirigente, non solo politica, che ha sempre governato - male - quel territorio, spogliandolo e violentandolo, nel mancato rispetto delle regole. Credo che in Liguria si giochi una partita importante, il vero banco di prova del partito della nazione. In sostanza votando per un altro che non sia Raffaella Paita o Giovanni Toti, rifiutando la logica del voto utile, noi vogliamo dire che ci sono tanti pezzi di Italia in cui il partito della nazione c'è già, c'è da molto prima di renzi, è un "superpartito" che governa di fatto tanta parte del nostro paese e che adesso, grazie all'abilità retorica del fantoccio di Rignano, può installarsi per molti anni al governo.
E noi dobbiamo fare tutto il possibile per impedirlo.

sabato 16 maggio 2015

Verba volant (185): pensione...

Pensione, sost. f.

Sono di una generazione che ha ormai escluso l'idea di ricevere una decente pensione dallo Stato. Immagino che a un certo punto sarò decisamente troppo vecchio per continuare ad andare a lavorare e quindi mi sarà possibile lasciare il mio posto per raggiunti limiti di età, ma allo stesso tempo so che dovrò pensare da solo agli anni che mi rimarranno, che mi auguro non siano pochi. Per questo mia moglie ed io - come credo facciano altri di voi - stiamo risparmiando, stiamo mettendo via un po' di soldi per allora. Noi siamo tra i fortunati che possono farlo, molti - troppi - non riescono e sinceramente non so come potranno andare avanti. Ma questo è un problema che non interessa a nessuno in questa società in cui si pensa unicamente ad oggi, al di là della retorica giovanilistica sul futuro del paese.
Nonostante abbia ormai rinunciato alla pensione pubblica, per età, per storia personale, per un'antica consuetudine con certe parole d'ordine, credo che ricevere una rendita regolare - è questo il significato etimologico del termine latino pensio, pensionis - in relazione al periodo di lavoro che ho svolto, sia un mio diritto, un diritto che mi è stato - anzi ci è stato - progressivamente tolto. Peraltro io ho dato, sto dando e darò il mio contributo a costituire la mia futura pensione - che non vedrò - pagando regolarmente le tasse; ma anche di questo pare non importi a nessuno. Si tratta, come è noto a chi frequenta quel testo - sono sempre meno purtroppo - di un diritto sancito dalla Costituzione, all'art. 38.
Temo che per quelli più giovani di me, per quelli che cominciano adesso a lavorare - quando riescono a cominciare - la pensione, oltre ad essere un miraggio, non venga più considerata neppure un diritto. La propaganda di questi anni - che vediamo in azione anche in questi giorni in maniera martellante - agisce in maniera subdola. La pensione viene presentata non come un diritto, ma come un'elargizione, una forma di beneficienza che può essere dilazionata, ridotta o addirittura sospesa, se non ci sono più le condizioni per farla. Al di là delle facili ironie, le lacrime della Fornero raccontavano proprio questo: mi dispiace, non ci sono più soldi e non vi possiamo più dare la pensione.
Se ci pensate è il messaggio che in maniera indiretta viene trasmesso proprio in questi giorni, a seguito della decisione della suprema Corte di dichiarare incostituzionale la norma adottata dal governo Monti di bloccare l'indicizzazione delle pensioni. Intanto nessuno nel governo ha detto che quella norma era sbagliata, ma anzi tutti fanno capire che la sentenza della Consulta è subita più che accettata. Ovviamente non possono esimersi dal rispettarla, ma ogni dichiarazione è volta a far passare l'idea che quei soldi che saranno dati ai pensionati - non dicono mai restituiti, come sarebbe giusto dire - saranno tolti ad altri, in particolare ai giovani. In questo modo il governo innesca volontariamente un conflitto generazionale tra vecchi e giovani, ma soprattutto instilla l'idea che la previdenza non sia qualcosa che le persone devono aspettarsi di ricevere - anche perché l'hanno già pagata - ma qualcosa che, se e quando la ricevono, viene sottratta agli altri.
Io in televisione guardo sempre meno i programmi di informazione, ma l'altro giorno mi ha colpito l'intervista di un economista, che ovviamente insegna in una prestigiosa università privata, che ovviamente sostiene il governo, che ovviamente loda le politiche di austerità europee; questo "solone" si è detto rammaricato - ha detto proprio così - della sentenza. Questo personaggio - e tanti come lui, servi dell'ideologia ultraliberista ormai vincente - si rammarica del fatto che è stata ristabilita la giustizia, perché è stata abrogata una norma, forse efficace per il risanamento dei conti pubblici, ma illegittima dal punto di vista costituzionale.
Allo stesso modo in questi giorni è tornata in auge una ricorrente polemica contro le cosiddette "pensioni d'oro". Naturalmente anch'io trovo immorale che alcune persone godano di pensioni così vergognosamente alte - come per altro trovo immorale che gli stessi prima avessero stipendi così alti, così volgarmente sproporzionati rispetto a quelli delle persone che lavorano alle loro dipendenze - ma mi fa arrabbiare che questa sacrosanta indignazione venga incanala contro le pensioni tout court, contro l'idea stessa di previdenza.
E potrei citare altri esempi di questa propaganda continua ed insinuante. Un importante giornale dei "padroni", ovviamente schierato con il governo, porta le testimonianze dei pensionati disposti a "rinunciare" al rimborso, disposti evidentemente a sacrificarsi per il bene del paese. Non siamo molto lontani dalla retorica patriottarda tipo "oro alla patria", che questo paese ha già conosciuto.
Credo che ormai sia chiaro che questo governo - come tutti quelli che l'hanno preceduto - ha l'obiettivo di smantellare la previdenza pubblica. Si tratta di un obiettivo ormai neppure tenuto nascosto, ma dichiarato in maniera plateale, comune a tutti gli altri governi europei, qualunque sia il loro orientamento, a parte naturalmente il governo greco, che infatti viene osteggiato, criticato, deriso dai giornali dei padroni, dagli economisti, dalle televisioni. In questo modo ci faremo le nostre pensioni private, daremo i nostri soldi alle banche affinché ce ne restituiscano un po' quando saremo vecchi. Se ci arriveremo.

mercoledì 13 maggio 2015

Verba volant (184): insegnante...

Insegnante, sost. m. e f.

Come immagino sia successo anche a voi, nella mia - ormai lontana - vita scolastica ho incontrato alcuni bravi - e brave - insegnanti e altri decisamente meno bravi. A essere sincero il mio giudizio di allora, la mia valutazione da studente, non combacia con quello che penso adesso. Ci sono insegnanti che allora ritenevo capaci, che apprezzavo molto, e di cui ora ho un ricordo sbiadito e altri, che allora consideravo malissimo, che invece mi hanno lasciato un segno, che hanno contribuito in maniera rilevante alla mia educazione. E il verbo insegnare, etimologicamente, significa esattamente questo: imprimere un segno nella mente. Naturalmente il verbo italiano deriva dal latino, ma anche nel greco antico εγχαρασσειν significa prima di tutto incidere, imprimere e di seguito insegnare.
A scuola puoi imparare molte cose: alcune ti serviranno e altre no. Personalmente ne ho imparate molte a scuola, ma tante - forse di più - le ho imparate da solo, leggendo, provando a scoprire quello che avevo voglia di sapere. La scuola, dalle elementari con la maestra unica all'università, hanno contribuito a farmi diventare, nel bene e nel male, quello che sono adesso. Ovviamente a questo hanno concorso, in maniera determinante, i miei genitori e anche tante persone che ho incontrato durante la mia vita. Per me in particolare la politica è stata un'occasione di formazione importantissima e sono tanti i "segni" che mi sono stati impressi dalle compagne e dai compagni che ho avuto la fortuna di incontrare. So che per altri hanno avuto questa funzione lo sport o l'ingresso nel mondo del lavoro, perché l'educazione passa, fortunatamente, per molte vie.   
Qualche anno fa mi sono occupato di scuola anche nella mia attività politica e amministrativa e mi sono fatto un'idea, forse banale, ma di cui sono profondamente convinto: la buona scuola la fanno i buoni insegnanti. Poi occorrono edifici scolastici adeguati, sono utili i supporti, specialmente quelli offerti dalle nuove tecnologie, sono indispensabili ovviamente le risorse, ma la scuola è fatta prima di tutto dagli insegnanti. E quindi la politica, quando si occupa di scuola, dovrebbe prima di tutto affrontare questo tema, dovrebbe partire dagli insegnanti.
L'istruzione è un settore troppo importante per ragionare solo in base alla simpatia con cui si guarda al governo che di volta in volta propone la riforma "epocale" della scuola. Così sarebbe semplice: io detesto il governo e quindi detesto la riforma della scuola che questo propone. Non basta neppure dire che la riforma di renzi renderà la scuola elitaria o che è poco democratica, perché affida ai dirigenti scolastici un potere arbitrario.
Credo che - soprattutto noi che detestiamo questo governo e che, per una buona serie di motivi, critichiamo questa riforma - dovremmo ragionare sul tema fondamentale della valutazione degli insegnanti. Nelle scuole, in tutte le scuole - di ogni ordine e grado, come si diceva una volta - devono esserci dei meccanismi di valutazione e devono esserci le persone per farli valere. Naturalmente questi meccanismi devono essere trasparenti e oggettivi, ma devono esserci e possono dare luogo a differenze, anche di retribuzione, in base al merito. E se questi giudizi sono sbagliati o se producono differenze arbitrarie bisogna punire i dirigenti che ne sono responsabili. Anche mandandoli a fare un altro lavoro, perché questo è molto importante e richiede persone capaci, molto capaci.
La scuola italiana soffre di quello che soffriamo tutti noi che lavoriamo nella pubblica amministrazione, ma ovviamente, essendo una delle funzioni fondamentali di una società democratica, questa sofferenza è ancora più grave e ha conseguenze più pericolose. Nella scuola italiana all'inamovibilità si aggiunge la routine e in più gli insegnanti sono sottopagati: da questa situazione, da questa miscela perniciosa, non può nascere una buona scuola. Nella scuola italiana non abbiamo coltivato l'uguaglianza, ma l'appiattimento; e dall'appiattimento nasce solo il declino. La scuola - come la politica - è lo specchio della società e, visto che nella nostra società si coltiva l'irresponsabilità, non possiamo far finta di credere che nella scuola viga il principio di responsabilità, nonostante gli sforzi, ormai eroici, con cui tanti insegnanti continuano a svolgere con coscienza il proprio lavoro. Io critico la cosiddetta riforma di renzi proprio perché non affronta, non vuole affrontare, questo nodo.
Proprio perché teniamo alla scuola, alla pubblica istruzione - come noi "novecenteschi" continuiamo ostinatamente a chiamarla - la valutazione non deve essere considerata uno strumento di controllo e di punizione, non può essere legata solo alla competitività, magari scimmiottata dai criteri del mercato. La valutazione, nelle forme e nei modi che possono essere sperimentati - a partire dall'autovalutazione e da esperienze virtuose che già ci sono, nonostante il turbinio delle riforme che si sono succedute in questi anni - deve servire a far crescere l'idea di educazione, al di là di ogni retorica del merito. Come ho detto prima non credo che gli studenti abbiano gli strumenti per valutare i loro insegnanti o meglio non credo sia giusto che le loro valutazioni siano determinanti: francamente questo non sarebbe un passo in avanti nella loro crescita pedagogica. Naturalmente gli studenti devono essere protagonisti della scuola e credo possano esserci strumenti per trovare nuove forme di cooperazione e di collaborazione tra studenti e insegnanti, con obiettivi mirati scuola per scuola, classe per classe, studente per studente, sulla base delle diverse condizioni di partenza e non del risultato da ottenere.
Fidiamoci degli insegnanti, diamo loro le risorse per studiare, paghiamoli come meritano, lasciamoli lavorare nella loro sacrosanta autonomia, rispettiamoli per il lavoro che fanno, poi valutiamoli, in maniera trasparente. E se non sono in grado di fare un lavoro così delicato, mettiamoli a fare altro. E così i bravi insegnanti potranno continuare a lasciare il loro segno - positivo - sui loro studenti; che poi sono i nostri figli, sono quelli a cui dovremo affidare - speriamo il prima possibile - questo scalcagnato paese.

sabato 9 maggio 2015

Verba volant (183): parata...

Parata, sost. f.

Sono passati settant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale in Europa: un anniversario che avrebbe meritato ben altra attenzione, anche per cercare di capire cosa sia successo nel nostro continente in questi settant'anni, uno dei periodi più lunghi in cui non c'è stato un conflitto tra i più importanti stati europei, segnatamente tra Francia e Germania. L'Europa unita è nata perché c'è stata la seconda guerra mondiale, eppure nessuno oggi pare ricordarlo.
Abbiamo perso l'occasione di celebrare come si conveniva questo anniversario perché inevitabilmente questa cerimonia avrebbe coinvolto la Russia, il paese che da un punto di vista geografico ha preso il posto dell'Unione sovietica e ne ha in qualche modo ereditato il titolo di festeggiare questa vittoria. E l'Unione sovietica è stata il paese che ha indubbiamente pagato il prezzo più alto in quel conflitto. Una seppur legittima questione di politica attuale, un importante conflitto geopolitico, che riguarda l'influenza sull'Ucraina e sugli altri paesi che si trovano tra l'Unione europea e la Russia e soprattutto il controllo di alcuni fonti primarie, come quelle energetiche, hanno impedito di fatto di fare le celebrazioni che avremmo dovuto fare. Che chi allora ha combattuto - e oggi ormai non c'è più - avrebbe meritato.
Per inciso vorrei far notare ai governi occidentali che a me - che ovviamente non valgo nulla - Putin ha sempre fatto piuttosto schifo - come in genere detesto tutti gli autocrati - mentre le cancellerie europee per anni lo hanno sostenuto, finanziato, armato. Per molti anni Putin è stato non solo uno dei tanti fornitori di puttane - e del relativo mobilio - per l'allora nostro presidente del consiglio, ma soprattutto l'interlocutore privilegiato di chi voleva fare affari, senza troppi intralci, in quel vastissimo paese. Adesso che Putin ha smesso di vendere o ha cominciato ad alzare i prezzi della propria mercanzia, è diventato un nemico. Segno evidente di chi fa davvero la politica estera nelle nostre cosiddette democrazie.
L'unico paese che ha ricordato con una qualche enfasi il settantesimo anniversario della fine di quel tragico conflitto è stata proprio la Russia di Putin, che ha fatto quello che di solito fanno gli autocrati in occasioni di questo genere: una grandiosa parata militare.
Leggo che alcuni compagni della sinistra italiana criticano il nostro paese - e gli altri dell'Unione - per non aver partecipato alle celebrazioni di Mosca; molte bacheche in questi giorni sono un fiorire di bandiere con la falce e il martello e di altri cimeli dell'Armata rossa. A questi compagni vorrei sommessamente far notare che voi ogni 2 Giugno sollevate una gran polemica per la parata - molto più casareccia di quella sulla Piazza Rossa - organizzata delle nostre forze armate ai Fori imperiali.
Personalmente non ho mai avuto particolare simpatia per i militari di ogni latitudine e sinceramente non amo le parate, in nessuna occasione; non mi sembrano il modo più idoneo né per celebrare la nostra Repubblica né tantomeno per ricordare la fine di una guerra. Anzi molti combatterono in quel conflitto proprio perché dall'altra parte c'erano regimi che costringevano i loro cittadini a queste continue parate. Quindi evitiamo di dolerci per il fatto di non aver partecipato ad una celebrazione di dubbio gusto e francamente poco rispettosa dell'incredibile sacrificio fatto dalle donne e dagli uomini di quella generazione per sconfiggere il totalitarismo fascista e nazista.
E soprattutto proviamo a non dimenticare cosa è successo settant'anni fa e che se, nonostante tutto quello che è successo e che succede, noi siamo qui, a scrivere sostanzialmente quello che ci pare sui nostri blog, è anche merito di quelli che sono morti allora. Mi rendo conto che suona retorico, ogni celebrazione inevitabilmente lo è, ma bisogna che lo ricordiamo e che ne siamo convinti. 

mercoledì 6 maggio 2015

Considerazioni libere (401): a proposito di quello che dovremmo fare (se ce lo lasceranno fare)...


Com'era ampiamente prevedibile una risicata maggioranza parlamentare - non legittimata da un mandato politico su questo tema ed eletta con una legge dichiarata anticostituzionale - ha approvato una nuova legge elettorale, ossia il sistema con cui nei prossimi anni sceglieremo i nostri rappresentanti in parlamento. Si tratta di una cattiva legge che, in maniera furbesca, elude solo sulla carta i rilievi di incostituzionalità sollevati dalla Corte a proposito del porcellum e che è stata costruita scientemente per favorire il partito personale del presidente-segretario, a cui verrà assegnato - al di là dell'effettivo consenso elettorale - un potere che nessun primo ministro ha mai avuto nella storia repubblicana del nostro paese.
Con l'approvazione dell'italicum e con l'abolizione dello Statuto dei lavoratori - anche se non riuscirà a completare il disegno di riforma costituzionale con l'abolizione del Senato elettivo, perché vorrà andare il prima possibile al voto, per capitalizzare il suo prossimo inevitabile successo elettorale - renzi sarà il presidente del consiglio che più ha fatto per applicare il progetto eversivo pensato da Licio Gelli. Si apre un tempo buio per la democrazia in Italia e quando se ne renderanno conto quelli che in questi anni si sono piegati, anche in buona fede, ai disegni di renzi, sarà ormai troppo tardi. Per loro e per noi.
Naturalmente, fatta questa premessa, credo che abbiamo fatto bene in questi giorni a protestare, spero continueremo a farlo in tanti e auspico che ci sia un'iniziativa politica forte contro questa legge, fino alla campagna per raccogliere le firme per chiedere il referendum abrogativo. Però non mi piace nascondermi dietro un dito. Da sempre penso che le leggi elettorali siano importanti, ma non fondamentali; e che sia inutile affannarsi a chiedere un cambiamento della legge elettorale, quando il problema vero è la mancanza di una reale prospettiva politica. In sostanza sono convinto che renzi e il suo partito vincerebbero comunque, perché sono l'espressione della parte peggiore della nostra società, ne garantiscono i privilegi e le rendite di posizione, e soprattutto perché rispondono ai dettami dei veri poteri che ci governano.
Esistono leggi elettorali giuste e leggi ingiuste; e questa è ingiusta. Esistono leggi elettorali migliori e leggi peggiori; e questa è peggiore. Ma nessuna legge elettorale risolve i problemi della politica. E la sinistra in Italia ne ha moltissimi. Noi siamo stati - anche questo era ampiamente prevedibile - sconfitti, perché - dobbiamo ammetterlo - non abbiamo mai davvero giocato. Da anni abbiamo smesso di giocare.
Solo negli ultimi giorni - fuori tempo massimo - una parte, peraltro poco consistente e politicamente residuale, del partito di maggioranza relativa ha deciso di opporsi a questo progetto, intuendo di essere definitivamente caduta in trappola. Ma ormai era troppo tardi. Avevano già consegnato la vittoria a renzi e ai suoi servi e adesso non credano che questa tardiva alzata di scudi serva a restituire loro una verginità che hanno irrimediabilmente perduto. Che abbiamo irremediabilmente perduto, anche noi che nel pd non siamo mai entrati, ma abbiamo messo le basi per la resistibile ascesa di matteo renzi.
Il governo, nonostante il voto alla Camera rappresenti - secondo le nostre vecchie categorie politiche - una sconfitta, è più forte, proprio perché quelle categorie non esistono più e ora l'unica cosa importante è vincere, non importa come. Il presidente-segretario, con un colpo di mano, ha ricattato il suo partito e l'intero parlamento e il ricatto ha funzionato, perché una parte consistente di deputati ha preferito votare a favore di una legge liberticida piuttosto che rischiare il "tutti a casa". Il problema però non è la debolezza di queste mezze figure, a cui anni fa abbiamo affidato sciaguratamente il partito, e né il trasformismo italico di qualche nuovo Scilipoti, che è corso "in aiuto" del pd - Migliore fa schifo anche me, ma con tutta evidenza il problema non può essere lui - il problema vero, tutto eminentemente politico, è che non non abbiamo una prospettiva di sinistra né per domani né per dopodomani.
Leggo che i vari Bersani, Cuperlo, Speranza, giurano e spergiurano che rimarranno nel pd e c'è da crederci, anche perché questi non riescono a immaginare altra vita fuori da quel partito. Civati se n'è andato. Bene, meglio tardi che mai, ma Civati è poca cosa e, comunque sia è un illuso chi pensa che da uno così possa rinascere la sinistra. Ce lo ricordiamo alla prima Leopolda, ce la ricordiamo con la sua smania "rottamatrice": Civati è soltanto un renzi venuto male, un renzi che ha perso; ed è destinato a perdere ancora. Si mettano l'animo in pace Camusso e quanti ancora pensano che ci sarà la scissione: non solo non è programmata, ma non è neppure immaginata. Anche perché - e su questo dobbiamo essere crudelmente realisti - una scissione non avrebbe comunque un approdo. Dove andrebbero quelli che oggi lasciano il pd?
C'è ancora troppo poco a sinistra: ci siamo noi "sinistri sparsi", ci sono alcune sigle storiche della sinistra politica, ovviamente in lite tra di loro, ci sono alcuni tentativi, molto lodevoli, di far nascere qualcosa a livello locale - penso all'esperienza bolognese di Ri-cominciamo a sinistra - certamente c'è la Cgil - e per fortuna che c'è - ma evidentemente in quell'organizzazione ci sono idee molto diverse sia su come dovrà essere il sindacato sia su quale ruolo potrà e dovrà avere in politica, in questa fase così complicata e drammatica della vita del paese. In sostanza c'è poco - e quel poco è frastagliato e debole - e su questo renzi continuerà a lucrare, con il suo populismo, con la sua retorica da quattro soldi, con le sue generiche promesse.
E' inutile quindi sperare in un capitombolo di renzi, in una qualche imboscata parlamentare - sarebbe ad ogni modo una buona notizia, perché il personaggio è anche umanamente odioso - ma questo ennesimo cambio di cavallo nascerebbe comunque nell'ambito della destra - così come Berlusconi è stato sostituito da Monti, Monti da Letta e Letta da renzi, nel tentativo, a volte affannoso, della destra finanziaria e dei "mercanti" di scegliere chi è in grado di garantire in maniera più efficace i propri interessi e privilegi. E quindi "loro" avrebbero comunque pronto uno con cui sostituire il fantoccio di Rignano.
Prepariamoci allora a costruire un'alternativa, altrimenti il prossimo sarà peggio, come renzi è decisamente peggio di Berlusconi. Non facciamoci troppe illusioni: non ci sono scorciatoie. Nelle prossime elezioni, al di là di questa cattiva legge, non saremo nemmeno in partita: il ballottaggio sarà evidentemente tra renzi e Grillo, tra il "partito della nazione" e il M5s. La legge è stata costruita per dare questo esito, che i giornali di regime presenteranno come lo scontro tra l'ordine e il disordine, tra la certezza e l'incertezza; sarà questo il vero banco di prova del "nuovo" pd che imbarcherà Bondi, Verdini e un altro bel pezzo di centrodestra, oltre ai "cacicchi" locali e a tutta la "merda" che sta già raccogliendo a livello locale, come è ben dimostrato dal caso campano. E vincerà ovviamente renzi, anche con tanti voti di sinistra, che di fronte a questo schema non resisteranno al richiamo del "voto utile". Dico fin d'ora che il mio voto il pd non lo avrà comunque, qualunque sia il suo avversario. Ma il mio voto conta appunto uno.
In questa fase sarebbe già importante poterci assicurare una sorta di diritto di tribuna, con la sinistra che c'è, con le liste che ci sono, in tutta la loro inadeguatezza. Come si dice: meglio che niente piuttosto.
Coltiviamo quello che c'è, provando a non litigare troppo tra di noi, consapevoli che non sarà da lì che rinascerà la sinistra - che sarà il compito di un'altra generazione - e che ci vorrà tempo. Forse avremo qualche possibilità in più in alcuni contesti locali, nelle elezioni comunali. Leggo che a Bologna qualcuno accarezza finalmente l'idea di costruire una lista di sinistra capace di sconfiggere l'uomo imposto dal pd; non è impossibile, visto anche l'esito delle ultime elezioni regionali e la pochezza dell'attuale sindaco. Una rete di amministratori, alcune pratiche di buon governo, una diffusione il più capillare possibile sul territorio, credo possano essere molto utili a chi si assumerà l'onere di ripartire.
Senza eludere però la questione di fondo: non si può costruire la sinistra senza una cultura politica. Noi abbiamo ucciso la sinistra in Italia non solo perché siamo stati inadeguati - e lo siamo stati - ma soprattutto perché abbiamo rinunciato alla nostra cultura per abbracciare quella liberista, ci siamo culturalmente arresi al nostro nemico. Rimettiamoci allora a studiare, ripartendo da quello che abbiamo elaborato nel corso di un secolo, a partire dal socialismo. Non sarà facile, ma ne varrà la pena. Come ho detto, è quello che altri dovranno fare, noi - anche per rimediare ai nostri errori - dovremo resistere, per fare in modo che abbiano il tempo di farlo.

martedì 5 maggio 2015

Verba volant (182): collaudare...

Collaudare, v. tr.

Come alcuni di voi sanno, qualche anno fa io facevo un altro mestiere: a Bologna organizzavo le feste popolari del più grande partito della sinistra italiana. E' stata un'esperienza importante - direi fondamentale - nella mia formazione politica - e non solo - a cui sono molto legato, ma non è di questo che voglio parlare. Tra le altre cose mi occupavo anche degli allestimenti, coordinando il lavoro sia dei volontari organizzati dal partito sia delle aziende a cui dovevamo necessariamente rivolgerci per realizzare feste anche molto grandi. Pochi giorni prima dell'apertura le strutture dovevano essere completate per essere collaudate e quindi controllate da una commissione pubblica incaricata specificamente di questo. Naturalmente, anche dopo il collaudo, rimanevano diverse cose da fare, spesso mentre in una zona della festa si svolgeva l'inaugurazione, in altre qualcuno stava ancora lavorando per finire le ultime cose, per dare gli ultimi ritocchi, ma in sostanza le strutture più grandi dovevano essere pronte.
Ricordo questa fase con tensione. A volte erano controlli burocraticamente capziosi, rivolti più a verificare che le "carte" fossero in regola che a esaminare effettivamente la corretta realizzazione delle strutture. In alcuni casi i tecnici che facevano parte di queste commissioni erano palesamente poco competenti e quindi i loro controlli poco significativi, ma più spesso si trattava di un controllo serio e accurato. Di cui comunque anche quei tecnici erano responsabili. D'altra parte eravamo noi i primi a collaudare le strutture, perché un qualsiasi incidente, anche lieve, avrebbe significato un danno di immagine molto forte; avevamo una particolare attenzione per la sicurezza, non solo perché lo prescrivevano le norme, ma perché ci importava, per chi lavorava e per i visitatori. Quindi cercavamo di fare ogni lavoro - anche i meno importanti - con particolare diligenza, nel tempo in cui era necessario farlo. Ho imparato in quegli anni che l'antico adagio la gatta frettolosa fa i gattini ciechi è assolutamente vero. Solo quando c'erano tutti i collaudi e la commissione aveva dato il proprio benestare arrivava l'autorizzazione per aprire al pubblico la festa.
Come ho detto, non faccio più questo lavoro da qualche anno e sinceramente non so come ci si regoli adesso, ma immagino che per Expo sia stata seguita una procedura un po' diversa. Chissà se qualcuno ha collaudato o collauderà i padiglioni? Chissà se qualcuno andrà mai a controllare come sono stati eseguiti i lavori, che tipo di materiale è stato usato, se gli impianti elettrici sono a norma, se le cucine rispettano le norme igieniche? Spero di sì, ma temo di no, visto che i giornali ci hanno informato che si è lavorato tutta la notte del 30 aprile per finire alla meglio i padiglioni. Ma, al di là della comprensibile necessità di aprire comunque i cancelli il 1° maggio, per non fare una figura di merda davanti al resto del mondo, tutta questa manifestazione è stata vissuta dal nostro paese come una sospensione autorizzata delle regole.
Anche quando una parte della magistratura ha dimostrato che gli appalti erano pilotati, si è andati avanti lo stesso, perché Expo doveva aprire; comunque. Per garantire il funzionamento della manifestazione sono state sospese le normali regole del mercato del lavoro, che già in Italia normali non sono, eppure per Expo sono ulteriormente peggiorative, ovviamente a danno dei lavoratori. Expo è stata ed è la giustificazione di ogni cosa. Un autorevole ministro ha detto che non dovrebbero esserci scioperi durante Expo. E così via. Le regole sono sospese: l'importante è che Expo funzioni e che l'Italia faccia una bella figura davanti al mondo.
Non so come andrà questa manifestazione. Al di là di quello che pensano alcuni miei "amici", non sono uno di quelli che si augura vada male, e soprattutto spero non ci siano incidenti, anche se la caduta di una lamiera dal padiglione turco a poche ore dall'inaugurazione non è stato un bel segnale. Ma, comunque vada, Expo è già un'occasione perduta per l'Italia. In un paese così refrattario alle regole, in cui vige, a tutti i livelli, l'irresponsabilità, in cui le leggi sono vissute come un intralcio e quelli che le trasgrediscono sono ammirati, perché più furbi, una manifestazione così doveva essere vissuta come una sfida: facciamo Expo, ma rispettando le regole. Questo sarebbe stato il vero "cambio di passo" per il nostro paese, e non le banalità pomposamente propagandistiche che il Pinocchio di Rignano va dicendo in questi giorni, mescolando Steve Jobs e la retorica fascista: Dio, innovazione e famiglia. Avremmo vinto la sfida di Expo se fossimo stati disposti a collaudare quelle strutture, se fossimo stati disposti a realizzarle rispettando le regole, imponendoci noi stessi delle norme stringenti, a partire dai tempi di consegna, che invece - da bravi italiani - non abbiamo rispettato. Avremmo dovuto mostrare a noi stessi - prima ancora che al resto del mondo - che potevamo realizzare qualcosa di grande, qualcosa di bello, imponendoci delle regole. Invece le abbiamo, come al solito, violate. Anzi usiamo Expo come giustificazione per violarle. E continueremo a farlo. Come nell'apologo della rana e dello scorpione: perché è nella nostra natura.

sabato 2 maggio 2015

Verba volant (181): bagarino...

Bagarino, sost. m.

Le parole - lo abbiamo visto diverse volte in questa rubrica - fanno giri strani. Bagarino è una voce del dialetto romano derivata dall'arabo baqqāl - il cui plurale è baqqālīn - che significa venditore al minuto. A Roma questa parola è usata ancora - benché più raramente - con il suo significato originario, specialmente per indicare i commissionarî al minuto dei mercati generali, anche se ormai - come in tutta Italia - è prevalente il significato più noto: il bagarino è colui che fa incetta di merci - per lo più biglietti per spettacoli ed eventi sportivi - per poi rivenderli a prezzo maggiorato.
Come si sa, si tratta di una delle eccellenze italiane, di uno degli asset del made in Italy - come dicono quelli che parlano bene - ed è giusto che anche i bagarini abbiano partecipato all'inaugurazione di Expo. Ci sono diverse foto in cui li si vede stazionare davanti alle biglietterie della grande esposizione universale e rivendere ai turisti più frettolosi i biglietti che si erano opportunamente procurati nelle settimane precedenti. Il fenomeno era facilmente prevedibile - e quasi autorizzato dalla stessa organizzazione dell'evento - dal momento che i biglietti potevano essere acquistati prima dell'inaugurazione a un prezzo inferiore. Forse tra i bagarini dell'inaugurazione si trovava anche qualche neoiscritto al pd milanese, dal momento che quel partito ha deciso di regalare ai propri tesserati un biglietto per Expo - per premiarli della loro scelta controcorrente e masochista - da vendere eventualmente al miglior offerente.
Dell'inaugurazione di Expo si è parlato molto, e in questo modo sono riusciti a far passare sotto silenzio che incidentalmente era anche il Primo Maggio, ossia la Festa dei lavoratori, una data che il regime non ama molto, visto che non ama né i lavoratori né i loro rappresentanti.  E fa di tutto per eliminare le leggi che li tutelano.
Ricorderemo questa inaugurazione per la decisione di renzi di "rottamare" l'ultima parola dell'inno nazionale: troppo pessimista quel siam pronti alla morte scritto nel 1847 da Goffredo Mameli - che infatti sarebbe morto meno di due anni dopo difendendo la Repubblica romana. Suona molto meglio siam pronti alla vita: è un messaggio ben più ottimista, in linea con la garrula retorica del presidente-segretario, che ha intenzione di governare ancora per molti anni. Vedrete che la modifica prenderà piede, in particolare nelle scuole, quando l'inno sarà cantato con questa piccola modifica dai lupetti renziani nelle parate del sabato pomeriggio, in occasione dei saggi ginnici o durante le visite dei maggiorenti del regime.
Dell'inaugurazione di Expo ricorderemo anche gli incidenti su cui i giornali di regime si sono particolarmente dilungati. Infatti proprio in concomitanza di questa fulgida manifestazione dell'ottimismo e dell'orgoglio italico - presentata nientepopodimeno che da Paolo Bonolis - una schiera di disfattisti di nero vestiti ha messo a ferro e a fuoco il centro di Milano, sotto gli occhi vigili dei rappresentanti delle forze dell'ordine che, per non apparire antidemocratici, non hanno fatto nulla.
Naturalmente solo un livido antirenziano come me, un nemico del nuovo ordine italiano instaurato dall'uomo di Rignano, potrebbe pensare che quei quattro "sfigati" fossero stati organizzati dalle stesse forze di polizia, tanto per far vedere agli italiani benpensanti e moderati cosa succederebbe se in Italia non ci fosse renzi e il luminoso regime da lui inaugurato.
Curioso che queste manifestazioni violente si siano svolte molto opportunamente nel centro di Milano, mentre l'inaugurazione si svolgeva da tutt'altra parte, con la polizia e i carabinieri che osservavano tranquilli mentre i "loro" teppisti bruciavano auto e spaccavano vetrine, mentre poi non sia successo nulla quando renzi e i notabili del regime si sono recati alla Scala per la Turandot. Per inciso si tratta della stessa polizia che a Roma ha picchiato i lavoratori di Terni che erano andati a protestare contro la chiusura della loro fabbrica. Ma ovviamente solo un malfidato come me, uno che crede ancora che le bombe a piazza Fontana, a piazza della Loggia e alla stazione di Bologna le abbiano messe i fascisti per conto dello stato, può credere che il Viminale abbia organizzato questa "protesta" dei black bloc, per giustificare nelle prossime settimane l'introduzione di una serie di norme per limitare le manifestazioni contro il regime, per aumentare i controlli sul web, per diminuire i diritti costituzionali.
Però l'Italia "vera" non è né quella raccontata da renzi né quella che noi "oppositori" - più o meno "sinistri" - vorremmo che fosse. L'Italia "vera" è quella dei bagarini, è quella di questi piccoli malfattori che si arrangiano e che non sono nemmeno del tutto consapevoli che quello che stanno facendo è un reato. L'Italia "vera" è quella dei "bravi" italiani che acquistano i biglietti dai bagarini, per non fare la fila o per risparmiare cinque euro, ossia di quelli che, in ogni occasione, vogliono fare i furbi alle spalle degli altri. Ne conosciamo tanti: sono quelli che non si fanno fare la fattura, pur di risparmiare qualche euro e poi si lamentano che gli artigiani non pagano le tasse; sono quelli che chiedono all'amico "potente" di sistemare il figlio e poi si lamentano che in Italia non c'è meritocrazia; sono quelli che fanno un "regalo" al medico per fare più in fretta un esame e poi si lamentano che la sanità non funziona; sono quelli che vanno a puttane e che affittano le case in nero agli extracomunitari e poi si lamentano che in Italia ci sono troppi stranieri.
Questa è l'Italia "vera", quella che se ne frega degli altri e ne se frega delle regole. Tanto tutto si aggiusta: vuoi che multino me per aver venduto un biglietto fuori dai cancelli quando gli "altri" hanno fatto i soldi con le tangenti sull'Expo?
Questa è l'Italia "vera", ipocrita e corrotta, l'Italia che non conosce senso della responsabilità e in cui nessuno è mai responsabile, l'Italia che ha resistito al fascismo, facendo finta di essere fascista, l'Italia in cui sono passati i democristiani, dicendo che era democristiana, che ha resistito a Berlusconi, votandolo senza ammetterlo, e che resisterà anche al renzismo, pur dicendo che renzi è bravo perché cambierà tutto e rottamerà tutti, ovviamente a partire dagli altri. Perché in "questa" Italia è sempre colpa degli altri. Il problema non è renzi, che è solo un po' peggio di quelli venuti prima, il problema è questa Italia qui, che è sempre uguale a se stessa, l'Italia dei troppi bagarini e di quelli che comprano da loro i biglietti. Solo per non fare la fila.