lunedì 23 febbraio 2015

Verba volant (168): squadra...

Squadra, sost. f.

In questo paese inevitabilmente è forte il legame che si crea tra una città e la sua squadra di calcio: anche chi non si interessa del nostro sport nazionale o chi tifa per un'altra squadra sa qualcosa della squadra di calcio della propria città. E, a volte, le fortune - e le sfortune - della squadra cittadina raccontano le fortune - e le sfortune - della città. Qualcosa del genere sta succedendo a Parma, una città che vive indubbiamente un periodo difficile. E il Parma non sta certo meglio.
La vicenda del Parma dovrebbe interessare anche chi non ama il calcio, perché racconta quello che non funziona nel nostro paese. Da tempo il proprietario della squadra del Parma aveva espresso la volontà di vendere la società, anche se non aveva mai del tutto chiarito quali ne fossero le reali condizioni finanziarie; si supponeva ci fossero dei debiti, ma non quanto fossero ingenti. A gennaio di quest'anno è riuscito finalmente nel suo intento. Per un paio di settimane però non si è saputo chi avesse comprato la squadra, visto che il nuovo presidente era, per sua stessa ammissione, il prestanome di persone che volevano mantenere l'anonimato. Cominciò a esserci una certa preoccupazione in città quando si seppe che la società che aveva rilevato il Parma era stata fondata solo qualche giorno prima da due ragazze cipriote, con un capitale sociale di soli mille euro. A quanto pare si era trattato di un'operazione perfettamente legittima, giuridicamente possibile: ma credo converrete che sia preoccupante sapere che qualsiasi società italiana - non solo una squadra di calcio - possa essere acquistata così, senza alcuna tutela per l'azienda stessa, per chi ci lavora, per la sua storia e per quello che un'azienda rappresenta per un territorio. E questo è il primo problema svelato da questa vicenda.
Poi il misterioso compratore si è rivelato alla città: si trattava di persona nota - il cui nome era già stato fatto nei pettegolezzi da bar - un petroliere albanese molto ricco, che aveva già tentato di entrare nel calcio italiano. Al di là di alcune dichiarazioni roboanti, pare che soldi nelle sede di Collecchio se ne siano visti assai pochi. E qui sorge il secondo problema: che garanzie deve offrire una persona per acquistare una società? Pare nessuna. E infatti le autorità sportive non hanno fatto una piega, lasciando che la vicenda andasse per la sua strada. E' il mercato, baby. Dopo un altro paio di settimane l'imprenditore albanese pare essersi accorto che i debiti erano ingenti, molto ingenti, anche se purtroppo aveva già firmato un contratto che prevedeva di accollarsi tutto, senza rifarsi sul precedente proprietario. A questo punto la squadra è stata nuovamente venduta, a un imprenditore italiano con alcune società non meglio definite in Slovenia, ma anche questo pare non abbia mai sborsato un soldo. A questo punto la tensione è cominciata a salire: Equitalia ha iniziato a pignorare i beni della società, gli allenamenti delle squadre giovanili sono stati sospesi perché non c'è più l'acqua calda nelle docce e anche le partite della prima squadra sono sospese, perché non ci sono i soldi per aprire lo stadio. Il nuovo presidente annuncia un giorno sì e uno no che i soldi stanno per arrivare, ma ovviamente nulla si muove. A questo punto le autorità sportive si sono accorte che c'è un problema, ma pare ormai sia troppo tardi per rimediare.
Faccio un passo indietro nella storia della squadra - e della città - perché credo sia utile capire come si è arrivati fin qui. Il Parma è una squadra di lunga tradizione, fondata nel 1913, ma sostanzialmente una squadra di provincia, come tante, che però nel 1990 è stata acquistata da Callisto Tanzi, allora proprietario di Parmalat e una delle personalità più ricche e influenti di questo paese. Grazie ai soldi di Tanzi divenne una squadra di livello europeo, tanto che riuscì a vincere, in meno di un decennio, una volta la Coppa delle coppe e due volte la  Coppa Uefa. Qualche anno dopo abbiamo scoperto che Tanzi era un delinquente, un truffatore a grandissimi livelli, un uomo che aveva a libro paga politici, giornalisti, cardinali, giudici e che, grazie a questa rete di complicità, aveva costruito un impero sul nulla, rapidamente crollato. I parmigiani faticano a ricordare questa storia, non solo perché molti di loro hanno perso molti soldi nella vicenda Parmalat, ma soprattutto perché c'è stato un livello di connivenza diffusa con il nuovo "padrone" della città, che faceva il mecenate e appunto faceva "vincere" la città, non solo la sua squadra di calcio. Con mezzi illeciti, ma la faceva vincere. Una parte della classe dirigente - in particolare del mondo economico - di questa città è ancora quella: e quindi o sono scemi che si sono fatti fregare o sono complici che sono stati zitti, quando non hanno partecipato alla truffa. Ho l'impressione che Parma non abbia ancora fatto tutti i conti con questa vicenda, che cerca di metabolizzare e di dimenticare. Rimane, a ricordare quel passato "glorioso" proprio la squadra di calcio, che adesso dovrebbe tornare tra le provinciali e abbandonare i "sogni di gloria".
Vedete che non è solo una storia di calcio. Questo paese è quello che è, quello da cui i giovani dovrebbero andarsene più in fretta possibile, perché regna questo malaffare diffuso, questo capitalismo arraffone e disonesto, questo bizantinismo inconcludente delle istituzioni, questa corruzione etica avvolgente e gelatinosa. E' un paese dove per una persona onesta, per uno che lavora, è difficile ottenere un mutuo da una banca, e dove quindi i poveri devono rivolgersi agli strozzini, ma per un disonesto sembra che certe porte siano tutte aperte e dove è possibile comprare un'azienda senza un soldo, solo con parole e impegni che non saranno rispettati. E' un paese in cui le regole valgono per qualcuno sì e qualcuno no, anche perché chi le dovrebbe far rispettare è spesso amico dei secondi.
Ieri mi è capitato di vedere, insieme a Zaira, una commedia di Eduardo che non conoscevo, De Pretore Vincenzo. Questo povero diavolo, questo mariuncello, di fronte al Padreterno, per raccontare la sua storia, e per giustificarsi, dice:
Industralizzo la disonestà. 
Questo verso, scritto nel '57, mi è sembrato profetico, perché racconta perfettamente cosa è diventata tutta l'Italia, un paese in cui davvero abbiamo imparato a industrializzare la disonestà.   
Ed è anche un paese in cui molti si arrabbiano se fallisce una società di calcio - anzi la propria squadra, perché se fallisce un'altra squadra siamo contenti - e siamo pronti a scendere in piazza, chiediamo che intervengano le istituzioni, siamo perfino disposti a metterci dei soldi, visto che in tanti invocano l'azionariato popolare. Ma se fallisce un'azienda facciamo spallucce - peggio per loro - perché, in fondo, siamo tifosi prima che cittadini.

domenica 22 febbraio 2015

Verba volant (167): compromesso...

Compromesso, sost. m.

Nei giorni scorsi più o meno tutti i giornali italiani hanno detto che tra la Grecia e gli altri paesi della cosiddetta "eurozona" è stato raggiunto un compromesso. Questa parola negli ultimi anni ha assunto una connotazione negativa, come se ogni compromesso fosse sempre un accordo al ribasso. La sfortuna di questa parola è strettamente legata a quella del termine politica. Infatti dal momento che la politica è screditata agli occhi dei cittadini - certo per colpa delle pessime prove date dai politici, ma anche per l'interesse di altri poteri a gettare una cattiva luce sui meccanismi della democrazia - il compromesso viene visto sempre come una sorta di accordo sottobanco, qualcosa di indicibile, e che infatti non viene detto, un po' come è accaduto con il "patto del Nazareno", che è stato sottoscritto, spesso evocato e alla fine - forse - sciolto, senza che si sapesse esattamente cosa prevedesse, quali ne fossero le clausole.
La capacità di fare un compromesso invece è un elemento fondamentale della buona politica e credo che in questa occasione Tsipras e gli altri esponenti del governo greco lo abbiano dimostrato. So che c'è un pezzo di sinistra italiana che storce il naso per come sono andate le cose, che avrebbe voluto per la Grecia un accordo più soddisfacente. Sono gli stessi che hanno riposto le bandiere di Syriza quando hanno saputo che Tsipras avrebbe formato il governo con un partito di destra e che hanno criticato il leader greco per aver scelto e fatto votare come presidente della Repubblica un esponente di Nuova democrazia.  Sono gli stessi che ci porteranno a perdere, se li seguiremo ancora.
Per fortuna Tsipras e i suoi compagni non hanno i difetti della peggior sinistra italiana e sanno ancora fare politica. Serviva fare un governo immediatamente, subito dopo il giorno delle elezioni, senza perdere tempo in estenuanti trattative che avrebbero finito per indebolire il risultato del voto e Tsipras ha scelto di allearsi con il partito che gli garantiva il sostegno sul punto più importante del suo programma, ossia la fine delle politiche di austerità. Serviva superare senza danni il passaggio della scelta del nuovo presidente - bisogna ricordare che in Grecia sono andati ad elezioni anticipate proprio per l'ostinazione di Samaras a volere indicare un proprio candidato - e Tsipras ha sparigliato i giochi, proponendo un candidato del partito che aveva perso le elezioni, scegliendolo tra i più presentabili di quella formazione; e in questo modo il presidente è stato eletto al primo voto, con una larga maggioranza, lasciando al governo il tempo di fare altro. Tsipras e i suoi stanno dimostrando capacità e pragmatismo, e anche un po' di furbizia, che in politica non guasta.  
Per quel che riguarda il compromesso raggiunto durante l'ultima riunione dell'Eurogruppo, il governo greco ha ottenuto un risultato formale e simbolico importante: nei documenti dell'Unione non vengono più citate le parole troika e memorandum. Le vittorie simboliche a volte possono rivelarsi inutili e anzi pericolose, e questa non fa eccezione. Ma si tratta di un segnale importante, di cui i greci avevano bisogno. Però è un'altra - e più sostanziale - la vittoria raggiunta da Tsipras. Mentre Samaras si presentava alle riunioni europee chiedendo la benevolenza degli altri governi, fingendo una qualche protesta ad uso interno, ma sostanzialmente accettando la cornice entro cui si muoveva la trattativa, Tsipras ha inchiodato i governi europei a una discussione vera, obbligandoli a prendere sul serio le richieste della Grecia e soprattutto svelando il loro bluff. I governi europei avevano sempre minacciato la Grecia e gli altri governi "ribelli" che, se non avessero accettato le "riforme" della Troika, li avrebbero fatti uscire dall'euro. Si tratta però di un'arma spuntata, non solo perché non esistono protocolli e procedure per dire come un paese potrebbe uscire dall'euro, ma soprattutto perché l'uscita anche di un solo paese, anche di quello più debole, rischierebbe di mettere in crisi tutto il sistema, e questo nemmeno la grande Germania se lo può permettere.
Tsipras ha detto semplicemente questo, quello che né Hollande né renzi né nessun altro leader del cosiddetto centrosinistra ha avuto mai il coraggio di dire. E anche Merkel è stata costretta a sentire e anzi ha dovuto chiamare il collega "ribelle" di Atene, dopo aver ostentato per giorni indifferenza e superiorità. Il "caso Grecia" non è stato liquidato nel corso di una riunione - come pensavano di fare i spocchiosi tecnici del nord - ma sono stati necessari diversi incontri, perché Tsipras e il suo ministro Yanis Varoufakis hanno inchiodato l'Europa a una trattativa che i tedeschi ormai non si aspettavano di dover fare, visto che ormai tutti sembravano aver accettato i "dogmi" dell'austerità. Questa è stata la vittoria della Grecia, che comunque ha bisogno dei soldi dell'Europa, per pagare gli stipendi e le pensioni, e che quindi è partita da una posizione negoziale di estrema debolezza, sapendosi comunque risollevare.
La Grecia è da sola contro tutti gli altri e quindi credo che questo compromesso sia stato una vittoria, o almeno un pareggio fuori casa, dopo aver fatto un paio di goal. Per fare un buon compromesso però servono cose che gli altri leader europei che in questi hanno tentato di trattare con l'Europa hanno dimostrato di non avere. Bisogna avere una visione chiara, bisogna sapere su cosa si può cedere e su cosa è impossibile farlo, bisogna avere un forte e chiaro mandato mandato democratico. Il governo greco ha fatto una serie di concessioni, ma non ha preso l'impegno di aumentare l'Iva, di tagliare le pensioni né di raggiungere un avanzo primario del 3% nel 2015, come invece si era impegnato a fare il governo Samaras, sostenuto anche dal Pasok, il pd greco. Il governo greco non poteva non accettare alcuni vincoli, ma ha anche detto che il modo in cui li raggiungerà sarà determinato da scelte autonome e non dettate da altri. E c'è una cosa che i nostri giornali, che temono quello che sta succedendo in Grecia - perché hanno perso l'abitudine alla buona politica - non hanno detto: il governo greco ha pubblicato il testo dell'accordo, perché in democrazia chi è più forte e dice la verità non ha paura dei compromessi. Il governo greco ha dimostrato finora di non essere formato da un gruppo di sprevveduti idealisti, ma da persone che sanno fare politica: solo che è una politica diversa da quella a cui l'Europa si era abituata. I leader europei dovranno imparare in fretta.
Adesso, compagni greci, dovete stare molto attenti, perché la partita sarà lunga, e molto difficile. Avrete tutti contro, soprattutto quelli che ora fingono di sostenervi, con toni melliflui ed ipocriti; anzi sono proprio questi che sperano che la vostra azione fallisca. State dimostrando che un'altra sinistra è possibile e proprio per questa ragione vi temono quelli che dicono che l'unica sinistra è quella che si è piegata ai valori del finanzcapitalismo, che ha venduto la propria anima all'ultraliberismo. E naturalmente avrete contro quelli a cui togliete e toglierete i privilegi, quelli che si arricchiscono alle spalle degli altri, sfruttando gli altri. Per questo sono importanti le manifestazioni di sostegno dei greci e per questo credo sia importante anche il nostro sostegno. Grazie perché ci dimostrate che una politica diversa e di sinistra è possibile: ne avevamo bisogno.

mercoledì 18 febbraio 2015

Verba volant (166): fretta...

Fretta, sost. f.

Zaira ed io abbiamo visto al cinema The imitation game: un film davvero ben fatto, che spero abbiate visto anche voi e che comunque vi consiglio.
La vicenda raccontata dal film è nota: è la storia di Alan Turing, un giovane inglese genio della matematica e della logica, esperto di crittografia, che partecipò al lavoro di decrittazione dei codici segreti usati dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Turing, proprio per riuscire velocemente a decifrare i codici tedeschi, creò una sorta di elaboratore elettronico: per questo è considerato un pioniere dell'informatica e dell'intelligenza artificiale. Il lavoro di Turing e degli altri che parteciparono a quel progetto fu tenuto segreto fino agli anni Settanta e solo allora si riconobbe il valore che questo lavoro ebbe per la vittoria delle forze alleate. Turing era un genio, un uomo dalle personalità complessa ed era omosessuale e per questo venne arrestato nel 1952. Allora in Gran Bretagna era un reato: Turing fu radiato dall'università e sottoposto, per evitare il carcere, alla castrazione chimica mediante assunzione di ormoni. Fu una pena terribile - che il film riesce a raccontare, anche se in maniera indiretta, descrivendo il dramma di quest'uomo - a cui Turing non seppe resistere: vinto dalla depressione, si suicidò, a poco meno di 42 anni, nel 1954.
Al di là della vicenda personale di Turing e di tutti gli aspetti legati a quel pezzo di storia della seconda guerra mondiale, a cui prese parte da protagonista, c'è un punto su cui credo dovremo riflettere: in Inghilterra, in quel civilissimo paese il cui contributo era stato determinante per sconfiggere il nazismo, sessant'anni fa - il tempo di una generazione, nulla, se confrontato alla storia degli uomini - essere omosessuale era un reato. La legge fu abrogata nel '67, poco prima che io nascessi. E un omosessuale poteva essere sottoposto a una "cura" per tornare "normale": una vera e propria tortura di stato. Forse quando parliamo di progresso sociale e culturale, quando parliamo di diritti che altri popoli dovrebbero introdurre, dovremmo ricordare questa storia. In quegli stessi anni nei civilissimi Stati Uniti, senza il cui sacrificio non sarebbe mai stato sconfitto il fascismo nel mondo, c'era una forma di apartheid, come quello che abbiamo conosciuto noi da giovani in Sudafrica e che abbiamo avuto la fortuna di veder crollare, per l'azione di un grande uomo come Nelson Mandela. E pensate cosa sarebbe successo se nel '45 non avessero vinto i "buoni".
Quanto tempo ci ha messo l'Europa a riconoscere che tutti gli uomini sono uguali? Secoli e, anche se ormai nelle leggi di tutti i nostri paesi è scritto che le discriminazioni sono vietate ed anzi sono state scritte delle nuove leggi per combatterle e per favorire l'integrazione, questo risultato non è ancora stato raggiunto. Ancora lo sanno purtroppo i nostri amici omosessuali, lo sanno troppo bene le donne, che c'è ancora tanta strada da fare e che non bisogna illudersi che certi traguardi siano raggiunti una volta per sempre. Anzi proprio in questi anni vediamo arretrare una certa cultura dei diritti, purtroppo anche qui in Europa. Ed è stato un cammino faticoso, in cui spesso siamo arretrati, sono state necessarie lotte durissime, persone hanno pagato con la vita per raggiungere questi obiettivi, che ormai ci sembrano acquisiti, ci sembrano normali.
Forse dovremmo essere meno presuntuosi quando parliamo di altri paesi, di altre culture, quando osserviamo come cresce - seppur a fatica - una consapevolezza dei diritti, della giustizia, della democrazia in contesti molto diversi dal nostro, con altre storie, altre culture, altre religioni.
Perché non proviamo ad essere un po' più pazienti e lasciamo loro il tempo per crescere, magari aiutandoli affinché non ci mettano i secoli che ci abbiamo impiegato noi, ma lasciando che quella consapevolezza cresca attraverso le stesse lotte che abbiamo dovuto fare noi. Noi abbiamo fretta: vogliamo che da subito gli omosessuali abbiano in quei paesi tutti i diritti - e ci dimentichiamo della fatica che abbiamo fatto noi e che da noi non hanno ancora il diritto di sposarsi. Abbiamo fretta: vogliamo che donne e uomini siano sullo stesso piano, quando neppure qui è così. Le riforme degli altri è come se non bastassero mai.
Noi non siamo più intelligenti, abbiamo soltanto cominciato prima e non dovremmo metterci su un piedistallo, come modelli ineguagliabili o peggio i soli modelli possibili, o avere la pretesa di trasferire sic et simpliciter le nostre leggi ad altri, senza che abbiano fatto un percorso per farle diventare proprie.
Vedo che hanno fatto un certo scalpore le dichiarazioni di un imam saudita che ha detto che la terra è ferma e non ruota attorno al sole. Certo possiamo prenderlo in giro, però non dimentichiamo che noi qualche secolo fa abbiamo condannato Galileo perché diceva che la terra girava attorno al sole e che è stato un cammino faticoso e lungo convincere che lui aveva ragione e torto chi lo aveva condannato. Certo possiamo radere al suolo la scuola dove insegna quell'imam, uccidere lui e quelli come lui che dicono che la terra è ferma, possiamo spegnere quella voce, ma non sarà così che convinceremo milioni di persone che la terra gira effettivamente intorno al sole. Anzi se lo uccidessimo rischieremmo di farne un martire e le sue parole sarebbero più ascoltate di quanto lo sia adesso. Dovranno essere quei popoli a capire che i loro "saggi" stanno dicendo delle cose stupide e allora forse la storia prenderà una piega diversa. Anche per quei milioni di giovani che adesso sembrano vivere in una specie di medioevo culturale, che prima o poi comincerà ad andare loro stretto. Per questo le elites di quei paesi sono nemiche dell'educazione, come lo sono state in tutte le epoche. Per questo dobbiamo fare uno sforzo affinché le conoscenze si muovano più in fretta, e oggi, grazie a queste tecnologie, a queste macchine su cui scriviamo - pronipoti di quella "macchina" inventata da Turing - c'è qualche speranza in più.

martedì 17 febbraio 2015

da "Gli ultimi giorni dell'umanità" (atto I, scena I) di Karl Kraus

Primo reporter
Non è stato il fuoco di paglia di un'ebbrezza momentanea, né la chiassosa esplosione di un malsano isterismo di massa. Con autentica virilità Vienna accoglie la decisione gravida di destino. Lo sa come riassumerò l'atmosfera? L'atmosfera si può racchiudere nelle parole: ben lontano dall'arroganza e dalla debolezza. Ben lontani dall'arroganza e dalla debolezza, questa frase che abbiamo coniato per lo stato d'animo fondamentale di Vienna, non sarà mai ripetuta abbastanza. Ben lontani dall'arroganza e dalla debolezza! Allora, che mi dice?
Secondo reporter
Che vuole che le dica? Superbo.
Il primo
Ben lontani dall'arroganza e dalla debolezza. Migliaia eppoi migliaia di persone hanno oggi percorso le strade tenendosi a braccetto, ricchi e poveri, vecchi e giovani, umili e potenti. Ciascuno dimostrava col suo atteggiamento di essere pienamente consapevole della gravità dell'ora, ma anche fiero di sentir pulsare nel proprio corpo il battito dell'era gloriosa che ora s'inalba.
Una voce dalla folla
Vaffanculo
Il primo
Oggi Vienna ha terminato la sua giornata prima del solito. Oh, ma non dimentichiamoci di descrivere come la folla si è radunata davanti al Ministero della Guerra. Ma soprattutto non bisogna dimenticare di menzionare... indovini un po'?
Il secondo
Che non lo so? Non bisogna dimenticare di menzionare le centinaia eppoi centinaia di cittadini che si sono ammassati nella Fichtegasse davanti alla redazione della "Neue Freie Presse".
Il primo
Che testa sveglia! Così piace al capo. Ma perché centinaia eppoi centinaia? Quante storie! Dica subito migliaia eppoi migliaia, che gliene importa, già che si ammassano.
Il secondo
D'accordo. Ma non la si potrà prendere per una dimostrazione ostile, per il fatto che il giornale domenica scorsa, quando era già cominciata l'era gloriosa, portava ancora tanti annunci di massaggiatrici?
Il primo
In un momento così grande una considerazione tanto piccina è fuor di luogo. [...] E poi hanno lanciato dei fragorosi evviva...
Il secondo 
Evviva eppoi evviva...
Il primo
...all'indirizzo dell'Austria, della Germania e della "Neue Freie Presse". In quest'ordie, che non era proprio lusinghiero per noi, ma comunque era un bel gesto da parte della folla entusiasta. Per tutta la sera è rimasta, quando non era impegnata davanti al Ministero della Guerra o sul Ballplatz, stipata gomito a gomito nella Fichtegasse, dove si era ammassata.
Il secondo
Io mi chiedo sempre dove lo va a prendere, la gente, tutto questo tempo.

lunedì 16 febbraio 2015

Verba volant (165): maleducazione...

Maleducazione, sost. f.

Sabato sera, un teatro di provincia. Lo spettacolo sta per cominciare - è suonata la prima campanella - in sala i soliti brusii, il chiacchericcio che precede il momento in cui si alza il sipario. A un certo punto una persona fa vedere ai suoi amici un video su Youtube, niente di particolare, uno sketch dall'umorismo un po' greve, ma il volume è piuttosto alto e fastidioso. Visto che le occhiate non bastano, un'altra persona gli fa notare che non è il caso e che sarebbe meglio spegnere il telefonino. A questo punto, il primo, con l'aria più stupita che colpevole, fa: ma la trasmissione non è ancora cominciata. Abbiamo capito di trovarci davanti a un "televisivo" che evidentemente pensava di essere a casa sua e di poter quindi fare quello che voleva, appunto prima che cominciasse la "sua" trasmissione preferita.
Domenica a pranzo, un ristorante di provincia. La sala è piuttosto piccola, diverse coppie, qualche tavolo un po' più grande, in tutto una decina di famiglie. Da un tavolo da sei partono musiche e coretti, anche qui attraverso i telefoni e i tablet di chi sedeva a tavola, che si baloccavano con i loro ultimi acquisti tecnologici. Per fortuna il tempestivo arrivo degli anolini ha bloccato il concerto.
Ho raccontato questi due episodi non solo perché mi sono capitati questo fine settimana - potevano capitare a voi in altri giorni e in altri contesti, anzi credo vi siano capitati fatti analoghi - ma perché mi interessa raccontare chi ne era il protagonista. In entrambi i casi non si trattava di giovani - o giovinastri, come comunemente si crede - ma di persone attempate - mature, per usare un eufemismo, anche se non hanno dato prova di grande maturità - vecchi in buona sostanza. Di fronte a un giovane maleducato hai la speranza che cambi, che qualcuno gli insegni come si sta al mondo, le elementari regole della buona educazione. Di fronte a un vecchio maleducato ti arrendi, non sai cosa fare, perché evidentemente sai che non cambierà più, e pensi che è un padre maleducato, un nonno maleducato, e che quindi ha allevato una genia di maleducati.
Sgombro il campo da un tema su cui si dibatte spesso. Questi vecchi che io ho avuto la sfortuna di incontrare non sono diventati così a causa delle nuove tecnologie, anche se apparentemente è proprio grazie ad esse che hanno dimostrato la loro cafonaggine. I telefonini hanno soltanto amplificato la loro maleducazione, che si sarebbe esercitata comunque. C'è una battuta in La parola ai giurati che mi è tornata in mente ieri. Uno dei giurati "arrabbiati" grida ad un altro, che cerca di moderare i toni, Cos'ha da essere tanto compito? e si sente rispondere: Per la stessa ragione per cui lei non lo è: sono stato educato così. Questi vecchi forse non sono stati educati così dai loro genitori, ma è questa società che li ha fatti diventare così. La nostra società ha bisogno di persone maleducate.
Ovviamente so che al mondo ci sono problemi peggiori e che ci sono truffatori, ladri, stupratori educatissimi, che spengono sempre la suoneria del telefono e che non mangiano mai con la bocca aperta. E non voglio diventare, invecchiando, gesuitico e tardo e tantomeno ligio al Passato, come lo Zio di molto riguardo di gozzaniana memoria. Eppure io credo che questa volgarità imperante, questa maleducazione sempre più ostentata, siano un segno abbastanza evidente della crisi profonda della nostra società. Perché la maleducazione, al di là di dire grazie e prego, è il segno della mancanza di considerazione verso le altre persone, è una forma violenta di egoismo. Una società maleducata, come la nostra, è anche una società dove le persone non hanno un valore in sé, ma solo in base a quanto noi ne possiamo guadagnare. E quindi saremo gentili, in maniera ipocrita, con coloro da cui ci aspettiamo un favore o di cui temiamo la collera. E' una società in cui i rapporti sono sempre più legati al loro valore venale, in cui le persone possono essere comprate e vendute. E in cui non c'è neppure più lo schermo dell'educazione.
Si fa, ma non si dice, si diceva un tempo e certo non era un gran insegnamento per i giovani. Invece adesso si fa e si dice, anzi si urla, magari al telefonino.

giovedì 12 febbraio 2015

Verba volant (164): naufragio...

Naufragio, sost. m.

Le parole spiegano, ma ci sono anche parole che servono a nascondere: in questi giorni una di esse è proprio naufragio. I mezzi di informazione ci raccontano le storie di queste piccole barche che naufragano nel Mediterraneo e, anche se con più difficoltà, le storie dei naufraghi, senza nome, che trovano la morte in una traversata che rappresenta per loro la speranza.
Se queste tragedie fossero soltanto naufragi i responsabili sarebbero le persone che, senza scrupoli, organizzano questi "viaggi", che stipano centinaia di persone in barche malmesse e incapaci di reggere, con un simile carico, una navigazione in un mare difficile. Se queste tragedie fossero soltanto naufragi i responsabili sarebbero gli stessi naufraghi, che accettano, probabilmente in maniera consapevole, i rischi di un tale viaggio, pur di lasciare il loro paese, pur di arrivare in Europa. Se queste tragedie fossero soltanto naufragi noi non saremmo responsabili, potremmo limitarci a guardare, attraverso i nostri televisori, quello che succede , organizzando gli aiuti per quelli che sopravvivono. Al massimo potremmo discutere su come intervenire, quando far partire i soccorsi, a quante miglia dalla costa cominciare i pattugliamenti.
Però non sono soltanto naufragi. E proprio per questo noi dobbiamo riconoscere di esserne in qualche modo responsabili.
Non si può rimanere indifferenti di fronte agli uomini e alle donne che lasciano la loro terra, i loro affetti, le loro famiglie, che spendono tutti i loro soldi, guadagnati in una vita di lavoro, che mettono a rischio la loro vita e, a volte, quella dei loro figli. Queste persone meritano il nostro rispetto e il nostro aiuto. Avere rispetto per queste persone e per le sofferenze che stanno incontrando significa anche affrontare il tema con parole chiare, senza infingimenti e tatticismi, perché il rispetto si misura anche nelle parole. Prima di tutto chi fugge la miseria, la fame, le malattie, ha gli stessi diritti di chi fugge da un paese in guerra o da una dittatura: non si può chiamare il secondo rifugiato e il primo clandestino. Un clandestino è qualcuno che arriva di nascosto, con l'inganno, mentre i disperati dell'intera Africa arrivano alla luce del sole e tutto il mondo li può vedere. Anche se non li vogliamo vedere.
Anzi noi vediamo una piccola parte di questa loro odissea, piangiamo i morti in mare, ma quando arrivano in Libia o in Tunisia, e si preparano a salpare, il loro viaggio è cominciato da mesi e spesso hanno già dovuto attraversare il deserto, una prova perfino più terribile della traversata, tutto sommato breve, tra l'Africa e l'Italia. Quanti di loro sono morti nel deserto, lontano dai nostri occhi, lontano dalle nostre telecamere. E probabilmente pensano che, una volta arrivati al mare - come Senofonte nell'Anabasi - il loro viaggio sia terminato: l'Europa è lì, si può quasi toccare. Perché Lampedusa è Europa: loro lo sanno, noi - a volte - ce ne dimentichiamo. Suona ancora più beffarda e tragica la morte quando il traguardo è così vicino.
Tutte le donne e tutti gli uomini hanno gli stessi diritti. Nessuno può essere lasciato in mare o può essere respinto senza averne stabilito nome e nazionalità. Nessuno deve morire in mare e a nessuno possono essere rifiutati il primo soccorso e le cure mediche. Tutti devono essere nutriti e dissetati. Poi bisogna essere consapevoli che ci sono dei limiti all'accoglienza, limiti che non devono essere definiti dal nostro egoismo o da qualche calcolo politico, ma dalla reale capacità di fare spazio agli altri. Sono limiti che possono essere dilatati, se c'è un impegno vero, ma sono oggettivi e bisogna riconoscerli. Lo spazio a disposizione non può continuare a crescere, mentre invece è destinato a crescere il numero di persone che chiedono di occupare questo spazio: di fronte a questa situazione è sbagliato - oltre che immorale - rigettare i profughi in mare, ma è altrettanto sbagliato - oltre che politicamente miope - accogliere tutti, quando si sa che è umanamente impossibile avere le risorse per loro.
Per questo occorre una risposta diversa, che parte da una domanda diversa e da parole diverse. Dobbiamo capire quali sono le vere cause di queste tragedie, che ci ostiniamo a chiamare naufragi: perché - come dice con un'espressione bella ed eloquente Enzo Bianchi:
quasi mai il pane va verso i poveri e quasi sempre i poveri vanno verso il pane.
Alla fine la storia è tutta qui: è di una semplicità perfino imbarazzante. Dobbiamo capire questo e dobbiamo lottare, con tutta la nostra intelligenza e tutto il nostro coraggio, perché questo non sia più vero. Altrimenti saremo noi destinati a naufragare.

lunedì 9 febbraio 2015

Considerazioni liberte (396): a proposito di puttane e di puttanieri...

Sembra che tanti in questi giorni si siano accorti, come all'improvviso, che a Roma ci sono moltissime puttane. E non mi riferisco a tutti quelli che hanno tradito i loro ideali - spesso anche i loro amici - e che hanno venduto la propria coscienza e qualunque altra cosa si potesse vendere, per un seggio parlamentare o per un posto in Rai o per un qualche incarico nel sottobosco ministeriale; a tutti costoro ormai ci siamo assuefatti. Dico proprio le puttane, quelle che stanno lungo le strade, che ci forniscono un servizio che viene più o meno congruamente retribuito. Anzi pur essendo una delle tante categorie di lavoratori atipici di questo paese, sono tra le poche che vengono ancora pagate, a differenza di molti altri lavoratori che pare debbano lavorare gratis. Anche a loro però - come a tutti noi - non è garantita alcuna previdenza.
Comunque sia, tanti intellettuali, giornalisti, commentatori e compagnia cantante della nostra capitale hanno scoperto che nella loro città ci sono le puttane, dal momento che l'amministrazione comunale ha detto che sperimenterà, a partire dal mese di aprile, la creazione di una specie di zona "a luci rosse", dove la prostituzione sarà tollerata. A dire la verità la prostituzione adesso è "tollerata" in tutta la città di Roma, come in tutte le altre città italiane, piccole e grandi, proprio perché facciamo finta che non ci sia. L'ipocrisia di tutti quelli che in questi giorni si sono detti contrari a questa proposta mi ricorda quella di certi sussiegosi giornali di provincia, i cui direttori tuonano in prima pagina contro la prostituzione, mentre l'ultima pagina raccoglie - ovviamente dietro pagamento - sotto l'innocente titolo "annunci personali", una serie di inviti, spesso piuttosto espliciti, a provare i servizi di questa o quella "signorina". Forse quei direttori sono così ingenui da credere che parte del loro stipendio venga pagato da persone che fanno davvero i massaggi o che cercano, con sempre meno speranza, l'anima gemella; oppure non leggono tutto il giornale che dirigono.
Al di là dei commenti di tutti questi, che fanno finta che il problema non ci sia e che anzi la creazione di una zona "a luci rosse" favorirebbe la prostituzione - una stupidata colossale detta da chi evidentemente ignora, e vuole ignorare, i numeri di questo fenomeno - questa decisione ha alcuni aspetti positivi, per quanto limitati. L'obiettivo dell'amministrazione è quello, attraverso il lavoro di alcune squadre di operatori sociali, di effettuare controlli sanitari, di distribuire preservativi e soprattutto di evitare infiltrazioni da parte dei cosiddetti "protettori". Un compito improbo, che evidentemente non è realizzabile in un'area molto vasta, sostanzialmente grande come la città, ma che può essere tentato in una zona più delimitata. Si tratta della logica della riduzione del danno e se in questo modo anche soltanto poche ragazze potranno essere aiutate, saranno comunque soldi pubblici spesi bene.
Ovviamente non è con questa proposta che si combatte lo sfruttamento. Le giovani donne di tanti paesi poveri continueranno a essere vendute, spesso dalle loro famiglie, a mercanti di schiavi che le faranno arrivare qui, nell'evoluto e ricco Occidente, per buttare i loro corpi sul mercato. E quindi il discorso ritorna inevitabilmente - come sempre succede - sulle ingiustizie del mondo e su quello che possiamo fare per combatterle. E questa lotta è quello che dovrebbe dare il senso alla nostra vita.
La tratta degli esseri umani è dopo il commercio illegale di droga e di armi la terza voce del "fatturato" della grande criminalità internazionale. E quindi bisogna necessariamente lavorare sulla repressione del crimine. Eppure lo spaccio di droga è considerato un allarme sociale, perché tanti ragazzi sono vittime di questo mercato, mentre non c'è lo stesso allarme contro la prostituzione, forse perché i padri di quegli stessi ragazzi ne sono clienti soddisfatti. Un drogato è una persona a cui non affideremmo sicuramente i nostri risparmi, mentre non ci importa che il direttore della nostra banca vada regolarmente a puttane. Un drogato è una persona a cui non affideremmo la nostra salute, mentre non ci importa che il primario che ci ha in cura vada regolarmente a puttane. Un drogato è una persona a cui non affideremmo l'educazione dei nostri figli, mentre non ci importa che il loro professore vada regolarmente a puttane. Non ci importa neppure che i nostri politici vadano regolarmente a puttane; lo sappiamo per certo, ma in fondo non ci interessa. Forse perché anche noi andiamo regolarmente a puttane. E quindi siamo solidali, e complici.
Ormai parecchi anni fa Peppino Impastato, per combattere non tanto la mafia, quanto l'atteggiamento di complice acquiscienza dei suoi concittadini verso le persone che aderivano alle cosche, urlava: la mafia è una montagna di merda. Il suo grido scosse le coscienze di molti giovani, perché finalmente qualcuno diceva qualcosa che nessuno fino ad allora aveva avuto il coraggio di dire. Ecco io credo che noi dovremo cominciare a dire che chi va a puttane è una montagna di merda, o se preferite che i maschi che vanno a puttane sono pezzi di merda. Credo possiate sbizzarrirvi negli insulti: la nostra lingua lo permette.
Poi dovremo finalmente insegnare ai nostri figli, maschi - purtroppo il problema sta lì, perché sono i maschi che vanno a puttane - a vivere meglio, con maggiore consapevolezza, la propria sessualità, ovviamente nel rapporto con le altre persone. Perché è anche in questa debolezza, in questa mancanza di educazione, che si crea il bisogno di andare a puttane. In questa idea perversa che tutto si può comprare. Ma prima dobbiamo dire che andare a puttane fa schifo e che ci va fa schifo.

domenica 8 febbraio 2015

da "La grande magia" di Eduardo De Filippo

Calogero Di Spelta
Un altro giuoco. Ma scusate, la signora ha detto: “È morta!”

Otto Marvuglia
Proprio così. Un altro giuoco.

Calogero 
(dopo una pausa) Ma perché facciamo questi esperimenti? Scusate, professo’, ma che ce ne viene in tasca facendo questi giuochi d’illusione?

Otto
(colpito dalla domanda di Calogero, lo guarda lungamente assumendo un’aria sincera quanto sconfortata) Non lo so. È un trucco che non conosco. Io che esercito la professione di illusionista, mi presto ad esperimenti esercitati da un altro prestigiatore più importante di me… e così via, via, via fino alla perfezione… Ecco il giuoco prodigioso dell’illusione! Guarda… (mostrando la gabbia dove sono i canarini) Li vedi quegli uccelli? Appena me vedeno se metteno a cantà… Accòstati. (si avvicina alla gabbia seguito da Calogero) ‘E ssiente? (infatti si ode il cinguettio petulante del canarini insieme) Hê ‘a vede’ comme me cunosceno; e forse, me vonno pure bene. Per forza, li governo io ogni mattina. Lle porto ‘a preta ‘e zucchero, ‘a cemmetella ‘e nzalata, l’uosso ‘e seppia, il mangime… Hê ‘a vede’ comme m’aspettano.

Calogero
Veramente? Quanto so’ belle!

Otto
Ogni tanto io po’ sa che faccio? Metto ‘a mano dint’ ‘a gabbia e me ne piglio uno che mi deve servire per un esperimento d’illusione. (prende da un mobile una gabbietta, quella del primo atto) Lo metto in quest’altra gabbietta più piccola e lo presento al pubblico. “Ecco, signori”. La copro con un quadrato di stoffa nera, m’allontano di quattro passi, e sparo nu colpo ‘e rivoltella. Figurati il pubblico: “È sparito. Comme ha fatto? È un mago!” Ma il canarino non sparisce! Muore. Muore schiacciato tra un fondo e un doppio fondo. Il colpo di rivoltella serve a mascherare il rumore che produce lo scatto della piccola gabbia truccata. Poi naturalmente devo riordinare, e sai che trovo? Una poltiglia di ossicini, sangue e piume. (mostrando i canarini) ‘E vvide chisti ccà, chiste nun sanno niente. Illusioni non se ne possono fare. Noi, invece, si, ed è questo il privilegio. (osservando il volto triste di Calogero, muta di umore in un attimo; ridiventa allegro e superficiale) Guè, embè? Su con la vita: svegliati. Dobbiamo continuare il giuoco, il nostro giuoco. Guarda, là ci sta tutto il pubblico che aspetta. Ti sembrerà un secolo: ma poi vedrai che in un attimo si concluderà

sabato 7 febbraio 2015

Verba volant (163): esposizione...

Esposizione, sost. f.

Naturalmente spero che l'Expo di Milano vada bene, che arrivino nel nostro paese milioni di visitatori, che - al di là dell'insopportabile retorica renziana - questa fiera campionaria imbellettata ridia un po' di fiato alla nostra traballante economia, ma sinceramente non riesco proprio ad unirmi al coro degli entusiasti, a quelli che celebrano le magnifiche sorti e progressive legate a questa manifestazione. L'Italia è sempre più un paese senza speranza - perché sostanzialmente senza regole e senza vergogna - e non servirà questa Expo a cambiare le cose.
Fino ad ora ci sono molte ragioni per criticare questa manifestazione. Tutti sappiamo che è stata l'occasione per nuove, e sempre più fameliche, ruberie di stato. D'altra parte alle mafie e ai tanti grassatori che si trovano nella pubblica amministrazione serviva un grande evento, previsto da tempo, per lucrare un po' - un bel po', a sentire le prime stime - sul bilancio pubblico. D'altra parte anche loro hanno bisogno di avere una qualche certezza: per incrementare i ricavi delle loro attività non possono contare soltanto sui disastri naturali, che in Italia si sa che avverranno, ma purtroppo non sono calendarizzabili con precisione. E infatti l'Expo è stata considerata alla stregua di una calamità naturale: finanziamenti straordinari, controlli molto blandi, procedure di assegnazione degli appalti fatte molto in fretta e poco trasparenti, tutto finalizzato a rubare e far rubare. Dopo tutto l'Expo del 2015 è stata assegnata all'Italia soltanto nel marzo del 2007: non c'era davvero il tempo per fare le cose per bene.
Un'altra caratteristica curiosa dell'Expo di Milano è il fatto che al suo interno non si applicano alcune regole che valgono nel mondo "di fuori", un po' come succedeva nel Medioevo con le cattedrali. Infatti le autorità pubbliche hanno previsto che, a fronte delle 640 persone assunte a tempo determinato, lavoreranno 18.500 volontari con un turn over di circa 500 ogni due settimane, per almeno 5 ore di lavoro al giorno. Questi volontari avranno la funzione di "supporto al visitatore in coda in caso di bisogno" e potranno essere utilizzati come guide all’interno dei padiglioni: in pratica ogni 29 persone impiegate, 28 lavoreranno gratis. Peraltro tra i pochissimi che saranno retribuiti il contratto prevalente - almeno fino al 60% degli assunti - sarà quello di stage o tirocinio, che prevede un salario mensile di 516 euro, oltre al buono pasto di 5,29 euro. Confindustria, entusiasta, parla già di "modello Expo" e probabilmente questa sostanziale sospensione del principio che chi lavora ha diritto di essere pagato sarà una delle poche cose che rimarrà dell'Expo al nostro paese. Pensate che a Parigi, finita l'Exposition universelle del 1889, è rimasta la Tour Eiffel; a noi rimarrà un qualche decreto Poletti.
Al di là di tutte queste cose, ossia della sostanziale disonestà delle nostre classi dirigenti, che sfruttano ogni occasione per arricchirsi, ai danni di tutti gli altri cittadini, il problema è che l'Expo nasce vecchio. Se non già morto. La prima Esposizione universale - chiamata Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations - si svolse a Londra nel 1851, a cui ne seguì una sostanzialmente analoga nel 1855 a Parigi, per cercare di superare il grande successo della precedente edizione londinese. L'Esposizione universale è stata di fatto per tutto l'Ottocento - e fino alla scoppio della prima guerra mondiale - la celebrazione della rivoluzione industriale, di quel progresso che allora sembrava inarrestabile. Le scoperte scientifiche, le nuove possibilità offerte dalla tecnologia, stavano creando un mondo nuovo, con una rapidità impensabile solo qualche decennio prima. L'Esposizione universale era l'ostentazione orgogliosa - e ovviamente retorica - di tutti questi cambiamenti, della modernità, e di quella nuova classe - la borghesia - che quel mondo stava saldamente dominando, dopo averne spodestato le vecchie classi. Questa ostentazione ormai non più senso sia perché abbiamo imparato - stiamo imparando - a nostre spese che quel progresso è avvenuto a danno del pianeta e anzi rischia di mettere in crisi la vita della nostra specie sulla terra. E adesso sappiamo che quel progresso è stato uno degli strumenti - il più potente - con cui una minoranza - sempre più ristretta - domina, in maniera sempre più spietata, sulla stragrande maggioranza degli altri uomini. E quindi noi non abbiamo proprio nulla da festeggiare e da celebrare. 
Ovviamente i corifei dell'Expo ci stanno spiegando che questa manifestazione è cambiata. Questa edizione di Milano, come è noto, è dedicata al tema dell'alimentazione. Per dare il senso che questa manifestazione non è solo un'occasione per fare affari - o per rubare - oggi il nostro sedicente governo presenta la Carta di Milano, un documento che ha l'ambizione di definire la linea politica dell'Expo. Curiosamente il testo base di questo documento, che dovrebbe contenere alcune linee guida per i governi su un tema così importante, è stato redatto, per il governo italiano, da una fondazione finanziata dal più importante gruppo industriale italiano che si occupa di agroalimentare. Ovviamente è lecito che un grande gruppo industriale come Barilla esprima una propria opinione sulle politiche per l'alimentazione, ma personalmente trovo pericoloso - oltre che profondamente squilibrato - che la sua posizione diventi quella "ufficiale" del nostro paese, e del mondo.
Le grandi esposizioni della fine dell'Ottocento hanno contribuito a portarci alla prima guerra mondiale, vedremo dove ci condurrà l'Expo.

venerdì 6 febbraio 2015

Verba volant (162): vendicare...

Vendicare, v. tr.

Il verbo latino vindicare è composto di venum, il cui significato originario è prezzo, e dicare, che significa propriamente offrire. Il primo significato, decisamente positivo, di questo verbo è quindi offrire il prezzo del riscatto, farsi garante e quindi liberare e vindicta infatti era chiamato il bastone con il quale si toccava lo schiavo a cui era restituita la libertà. Dal momento che chi pagava il riscatto e si faceva garante della persona liberata diventava in qualche modo giudice della sua libertà, e della sua vita, il verbo è passato al significato, diventato corrente, di far giustizia da sé, di punire qualcuno dell'offesa ricevuta.
La vendetta è in qualche modo uno degli elementi che regola i rapporti sociali nell'antichità e infatti, non a caso, è uno dei fili conduttori dell'Iliade: Achille lascia il campo acheo per vendicarsi dell'offesa subita da Agamennone e torna a combattere per vendicare la morte di Patroclo. Gli stessi antichi, per "regolare" in qualche modo la vendetta, sentimento che non conosce freni - sì, vendetta, tremenda vendetta - definirono la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Anzi proprio questo principio, che a noi ora può apparire barbaro, è alla base del primo codice scritto che la storia conosca, il Codice di Hammurabi, al tempo dei babilonesi, quando la legge per la prima volta fu sottratta all'arbitrio del re e resa nota a tutti i cittadini, almeno a quelli che sapevano leggere.
E, nonostante i tantissimi secoli passati, raccontiamo ancora una storia di guerra che si svolge poco lontano dall'antica Babilonia.   
Nonostante le dichiarazioni ufficiali, è difficile sfuggire all'idea che la decisione del governo della Giordania di eseguire la condanna a morte di due terroristi islamici - dopo anni in cui era stata rispettata una moratoria nell'utilizzo di questa pena estrema - non sia una forma di vendetta per l'uccisione barbara del pilota Moath Kasabeth da parte dell'Isis. La Giordania, per la sua posizione geografica e per la presenza in quel territorio di milioni di profughi, sta pagando un prezzo altissimo a questo conflitto anomalo e terribile e quindi sono comprensibili sia l'ira della folla che ha chiesto la morte dei due terroristi sia la decisione di cedere a questa richiesta, per salvare un regime sempre più debole, probabilmente uno dei più deboli in quell'intricato scacchiere.
Pur accettando tutti i distinguo che sono stati fatti in queste ore, pur riconoscendo che non si tratta di un tema su cui è possibile avere posizioni manichee, questa duplice uccisione ci pone un problema etico e politico: è lecita oggi la vendetta? e soprattutto è lecita quando la esercita uno stato? Credo di no.
L'uccisione del militare giordano da parte dell'Isis è stato un atto di crudele barbarie, tanto più terribile perché si tratta di una barbarie premeditata, studiata, ritualizzata secondo schemi antichi e ripresa e diffusa con mezzi modernissimi. I capi dell'Isis usano questa brutalità, enfatizzano certi aspetti della guerra - infatti i loro nemici vengono sgozzati o bruciati, come in questo caso - lanciando un preciso messaggio a una parte di quel mondo che ha paura della modernità, della contaminazione con la cultura occidentale. Non è la furia cieca di una folla incontrollata quella che ha ucciso Moath e tante persone prima di lui, ma il raffinato calcolo politico e mediatico di chi ha capito che quelle "sentenze", anche per il modo in cui sono state eseguite, hanno un preciso significato.
Si è trattato di una trappola, in cui i governanti giordani, forse in maniera inevitabile a questo punto, sono caduti. La pena di morte deve essere un tema su cui non è più possibile fare un passo indietro, neppure per rispondere a un crimine così efferato, neppure per punire un criminale che a sangue freddo ha ucciso decine di giovani, come Anders Breivik.
In questi anni, commettendo errori madornali, abbiamo cercato di esportare la democrazia in diversi paesi, in genere - per una strana eterogenesi dei fini - favorendo la crescita di regimi peggiori rispetto a quelli che avevamo abbattuto. Credo che l'errore sia stato quello di concentrarsi unicamente sui processi di decisione costituzionali propri di un regime democratico: e infatti abbiamo guardato con giusta soddisfazione - e anche con orgoglio - alle file di persone davanti ai seggi in Iraq e in Afghanistan, senza interrogarci abbastanza su che significato aveva quel voto per quegli uomini e quelle donne. Non c'è vera democrazia in un paese in cui le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini, in cui le bambine e i bambini non vanno a scuola, in cui la maggioranza della popolazione vive sotto il livello di povertà. E in cui c'è ancora la pena di morte e questa pena viene usata come una forma di vendetta.
I diritti dell'uomo, la democrazia e la pace sono tre elementi che devono necessariamente stare insieme, perché senza diritti riconosciuti ed effettivamente protetti non c'è democrazia e senza democrazia non ci sono le condizioni per trovare una soluzione pacifica dei conflitti.
Noi la farem vendetta, cantavano gli anarchici negli anni Venti, per costruire un mondo di fratelli, di pace e di lavor. Ma proprio perché questo è ancora il nostro ideale e perché non abbiamo rinunciato alla lotta, al conflitto anche aspro, dobbiamo dire che alla vendetta preferiamo la giustizia.

mercoledì 4 febbraio 2015

"La sorte" di Wislawa Szymborska


La sorte, finora,
mi è stata benigna.
Poteva non essermi dato
il ricordo dei momenti lieti.
Poteva essermi tolta
l’inclinazione a confrontare.
Potevo essere me stessa
ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.

domenica 1 febbraio 2015

Considerazioni libere (395): a proposito di un'elezione anomala...

Abbiamo un nuovo presidente della Repubblica. Vedremo come si comporterà nei prossimi anni e ciascuno di noi potrà dare un giudizio. Francamente adesso io non ho voglia di unirmi ai cori di giubilo che da tante - forse troppe - parti sento levarsi per l'esito di questa elezione. Soprattutto perché si è trattato di un'elezione anomala dal punto di vista costituzionale.
Sia gli antirenzisti - a cui io ovviamente mi iscrivo - sia i sostenitori di renzi - i servi, come quelli in buona fede - descrivono giustamente l'elezione di Sergio Mattarella come una vittoria del presidente-segretario. Credo però che tutti, anche i renzisti in buona fede, dovrebbero preoccuparsi di come si sono andate le cose. Anche perché questa volta il dominus è stato il vostro capo e, nonostante lui, è stata eletta una persona degna, ma avrebbe potuto essere un altro a dare le carte e quindi avremmo potuto ritrovarci al Quirinale una figuro di tutt'altra risma. Alcuni hanno già sottolineato che questa è stata la prima volta, nella storia repubblicana, che un presidente del consiglio ha sostanzialmente scelto il presidente della Repubblica, sovvertendo lo spirito della Costituzione del '48.
Come ho già scritto molte volte, in questi ultimi anni, anche per responsabilità dirette del precedente presidente della Repubblica, la nostra Costituzione è stata travolta, se non nella lettera, nella prassi. Dal punto di vista formale la Costituzione ha subito una sola ferita, anche se molto grave, ossia l'introduzione dell'obbligatorietà del pareggio di bilancio, che ha rappresentato la resa della nostra classe politica - anche del centrosinistra - alla Troika e l'inizio del comissariamento di fatto del nostro paese da parte delle autorità finanziarie internazionali. C'è in corso una campagna per la raccolta delle firme per il referendum abrogativo, promossa anche - in maniera un po' ipocrita, a questo punto - da chi quella riforma l'ha votata in parlamento, come la cosiddetta sinistra del pd, e speriamo, prima o poi, di poter abrogare questa norma, che viola la spirito della Costituzione del '48. O almeno di renderla inefficace, riacquistando, come stanno facendo in Grecia, l'autonomia politica dalla Troika. Sentir dire dal nuovo ministro delle finanze di quel paese che il governo greco non tratterà più con la Troika è stata un'inizione di ottimismo per tutta la sinistra e l'inizio, speriamo, di una nuova fase della storia europea.
La riforma più grave però è quella che non è intervenuta sulla lettera della Costituzione, ma nella sua applicazione. Quando però si interviene in questo modo, senza una discussione formale, senza arrivare a riforme vere e proprie, ossia senza modificare i testi, è chiaro cosa si lascia, ma non quello a cui si giunge. Sicuramente il nostro paese non è più una repubblica parlamentare, perché la sovranità non appartiene più al parlamento, che ha smesso ormai di legiferare, limitandosi a trasformare in legge - spesso senza neppure modificarli - i decreti del governo. Non sappiamo però cosa sia diventata, perché questa ibrida repubblica presidenziale o semipresidenziale - in cui tra l'altro vengono costantemente compresse, fino all'annullamento, le autonomie locali - non ha regole scritte, non ci sono contrappesi istituzionali e affida il potere a una persona, che lo può esercitare senza controllo, come appunto sta facendo adesso renzi, o meglio chi muove le fila, usandolo come un burattino.
Il problema però non è l'arroganza antidemocratica di renzi o la succube acquiescenza della minoranza del partito mal nato e neppure - come troppi ancora credono - la rapace idiosincrasia alle regole dimostrata da berlusconi, ma il fatto che in questi vent'anni la Costituzione del '48 è stata scardinata in un punto essenziale, e forse non è più recuperabile. La nostra Costituzione infatti è nata quando esistevano i partiti politici e ne prevede la presenza - non solo nell'art. 49 - ma appunto nella prassi. La proposta di candidare Sergio Mattarella è stata fatta da renzi, non solo per soddisfare il suo ego ipertrofico e in base a una serie di calcoli politici, per altro rivelatesi esatti, ma anche perché non esistono più i partiti, che sono stati scientemente scardinati. La "nuova" democrazia che l'ultraliberismo sta costruendo deve prescindere dai partiti, li teme, così come teme tutti i corpi intermedi. E, non a caso, in queste settimane l'azione del governo italiano è tutta tesa a distruggere la Cgil, ossia l'ultimo corpo intermedio rimasto in questo paese, l'ultimo ostacolo a questo impasto di liderismo e di populismo di cui renzi è il perfetto campione.
Purtroppo nella vicenda del Quirinale nessuno si è alzato per denunciare questo imbroglio. Ovviamente non l'ha fatto la destra, a cui tutto questo va benissimo: è questo il vero "patto del Nazareno", che non è stato affatto tradito da renzi, che non esce indebolito da questa elezione. Quello che tiene insieme i contraenti del patto del Nazareno - se vogliamo continuare a chiamarlo così - è propria questa "riforma" della Costituzione, questo indebolimento progressivo, ma inesorabile, della democrazia. Non mi aspettavo che lo facesse Bersani che ha già dimostrato di non avere il coraggio e forse anche la voglia - la sua ostinazione a difendere la "ditta" ormai sfiora il patetico, anche se mi spiace dirlo per una persona che comunque stimo - di scardinare questo gioco. Non capisco perché non lo abbia fatto Sel che invece ha portato il suo mattoncino, peraltro ininfluente, per costruire il monumento alla vanagloria di renzi. E non l'hanno fatto neppure quelli del Movimento Cinque stelle che pure sembra che qualcosa abbiano intuito, ma, per l'ostinazione a non voler partecipare alla partita, rimangono costantemente in panchina. Quando Di Maio ha detto che il Movimento avrebbe valutato come muoversi tra la quarta e la quinta votazione è stato evidente che erano non solo fuori gioco, ma fuori dal mondo, perché era chiaro da giorni che ieri Mattarella sarebbe stato eletto, con i voti sostanzialmente compatti dei contraenti del Nazareno.  
A questo punto, come ha scritto a caldo Mauro Zani in una riflessione che condivido in toto, noi antirenzisti dobbiamo fare un'altra cosa, una cosa completamente diversa, e cominciare un cammino lungo e destinato forse all'insuccesso, almeno in Italia, teso a costruire, attraverso tappe intermedie, "la sinistra del XXI secolo; larga, democratica sul serio, coerentemente radicale", partendo dalle riflessioni teoriche già fatte e dalla proposte che già ci sono.
C'è un punto però che a me preoccupa molto. Una costituzione non è un assemblaggio di pezzi, ma un organismo che, quando si toglie un pezzo - come hanno fatto in Italia, estirpando i partiti - rischia di morire, come sta appunto avvenendo alla nostra Costituzione, che per fortuna è un organismo molto forte, che ha moltissimi anticorpi, e resiste tenacemente agli attacchi che subisce, perfino quando vengono portati da chi è posto a capo della Repubblica, come è avvenuto in questi anni. La Costituzione è così forte da aver resistito agli attacchi di napolitano e dei suoi complici, quindi possiamo continuare a sperare. Possiamo anche sperare che l'uomo che adesso siede al Quirinale, nonostante il modo in cui è stato eletto, non voglia essere l'esecutore testamentario della Costituzione, ma si riveli un avversario dei disegni di renzi e dei suoi mandanti. La sua storia personale ci permette di pensarlo.
Non possiamo però cullarci in questa speranza, così come non possiamo continuare a sperare nella scissione del pd o nell'aggregazione di tutte le sigle della sinistra politica, cose che, se anche avvenissero - e la prima sicuramente non avverrà - sarebbero a questo punto inefficaci. Se "loro" non vogliono che esistano corpo intermedi, bisogna che noi facciamo tutto il possibile per costruirne uno di tipo nuovo, che affianchi la Cgil, a cui non possiamo chiedere di fare tutto, di essere l'alfa e l'omega della sinistra italiana, bisogna che ci sia qualcosa che riempia il vuoto che si è creato. Lo dobbiamo al paese, alla sua storia e al suo futuro.