giovedì 10 settembre 2015

Verba volant (210): migrante...


Migrante, sost. m e f. 

Mai come in questo caso le parole sono importanti. La retorica leghista - e di tutta la destra europea - usa un argomento apparentemente efficace, quando dice che solo una piccola percentuale delle persone che arrivano, in maniera più o meno fortunosa, qui in Europa dall'Africa e dal Medio oriente hanno il diritto di essere riconosciuti come rifugiati. Il rifugiato è una persona perseguitata, per motivi politici o etnici o religiosi, nel proprio paese che, proprio per questo, trova ospitalità in un altro paese, che riconosce legalmente il suo status. In sostanza i fascisti europei dicono: accogliamo pure i rifugiati, non siamo razzisti noi, ma gli altri, che sono tanti di più, rimandiamoli indietro, perché qui non c'è posto per tutti. Sembra un argomento perfino sensato, specialmente in un momento storico come questo, in cui la povertà colpisce tante persone anche qui, nei paesi della "vecchia" Europa, molte più persone che negli anni passati, e questo numero sembra destinato ad aumentare.
Non cadiamo in questa trappola e cerchiamo di usare le parole giuste. Aylan non era un rifugiato, non lo sarebbe stato neppure se fosse riuscito a raggiungere Berlino, Parigi o Londra. neppure se il suo viaggio non si fosse interrotto così tragicamente sulla spiaggia di Bodrum. Aylan e la sua famiglia, come gran parte delle persone che in questi anni si sono messe in cammino, non sono perseguitati in nome della loro etnia o della loro religione o delle loro idee politiche, o almeno non è davvero questo l'elemento che ha provocato la loro decisione di cominciare quel cammino, un cammino che sapevano benissimo potesse essere rischioso, fino all'estremo. In fondo Aylan e la sua famiglia neppure fuggivano in senso stretto: fuggire significa lasciare qualcosa che non ci piace, di cui abbiamo paura o che ci mette in pericolo. Aylan e la sua famiglia si sono messi in cammino perché cercavano un futuro diverso da quello che sarebbe inevitabilmente toccato a loro rimanendo lì. Per questo io credo sia giusto non chiamarli più rifugiati o profughi e definirli invece migranti, perché sono donne e uomini in cammino.
Dieci anni fa ci siamo emozionati per un film intitolato La marcia dei pinguini, ci sembravano eroici quegli animali che attraversavano regioni inospitali per raggiungere finalmente il luogo dove poter riprodursi, ci siamo stupiti di come quei pinguini sapessero esattamente dove dovevano andare, anche se non c'erano mai andati. Noi ci dimentichiamo spesso di essere animali, di far parte di questo mondo come qualunque altro essere vivente e di essere in qualche modo sottoposti alle stesse leggi di natura a cui sono sottoposti gli altri animali. Le donne e gli uomini che lasciano le città e i paesi in cui sono nati e cresciuti, in cui sono nati e morti i loro genitori, lo fanno perché sentono che è arrivato il momento di farlo, perché sentono che per i loro figli non c'è più un futuro possibile in quella terra e ne cercano semplicemente un altro, pur con tutti i rischi che questa ricerca comporta. Le persone che si mettono in cammino sanno benissimo che possono morire in questo viaggio, eppure lo cominciano lo stesso: quindi è qualcosa che noi non possiamo fermare, per quanto tentiamo di alzare barriere, di costruire muri, per quanto diciamo che non li potremo accogliere, che qui non c'è posto per loro; loro ormai sono partiti, sanno dove stanno andando, anche se non ci sono mai andati, e noi non possiamo più farci niente. Possiamo camminare come loro, con loro.
A dire la verità, qualcosa possiamo fare, dobbiamo fare. Come i nostri avi qui nella pianura padana sapevano che l'acqua non poteva essere fermata, ma doveva almeno essere guidata, condotta, irregimentata, affinché producesse meno danni e meno morti, così noi abbiamo il compito storico di gestire le persone che arrivano, che hanno cominciato quel cammino. E dobbiamo farlo adesso, che sono poche, pochissime, rispetto a quello che potrebbe ancora succedere. Dobbiamo organizzare da subito dei corridoi umanitari legali, per stroncare il traffico di esseri umani, per impedire che troppe persone muoiano nel Mediterraneo, nei Balcani o, prima ancora, nel Sahara. Ci sono già delle proposte. Ad esempio il Consiglio italiano per i rifugiati propone due alternative: i migranti potrebbero presentare direttamente la domanda nei paesi di origine - o nei paesi di transito e di prima accoglienza - presso una delle sedi dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati oppure potrebbero far richiedere una sorta di visto umanitario ai loro familiari che risiedono già in Europa. In questo modo tutti loro potrebbero avere un visto legale, per quanto temporaneo, per arrivare in uno dei paesi europei, che li dovrebbero accogliere in base a una ripartizione basata sul reddito pro capite e sulla densità abitativa. Poi occorre avere una legislazione unica in Europa in tema di accoglienza ai migranti. Una realtà tutto sommato piccola come l'Unione europea - guardate un planisfero e vedrete che, per quanto barino le carte e ci sovrastimino, siamo molto piccoli, molto più piccoli degli altri - non può permettersi di avere ventotto legislazioni differenti, per tacere di tutte le varianti ed eccezioni regionali.
Poi, come dicevo, dobbiamo cambiare le nostre teste - e il nostro linguaggio - prima ancora che le nostre leggi. Il diritto è inadeguato perché ad esempio non riconosce quelli che possiamo definire ecomigranti, ossia quelle persone che lasciano le loro terre perché sono sommerse dalle acque o sono ormai essiccate, e più in generale perché ha una visione troppo limitata dei motivi per cui una persona decide di mettersi in cammino.
Inoltre dobbiamo accettare e riconoscere le nostre responsabilità. Aylan era nato in Siria, probabilmente la sua famiglia non avrebbe deciso di lasciare quel paese, se là non ci fosse da quattro anni una guerra civile, una guerra che i governi occidentali hanno in qualche modo contribuito a far scoppiare, se non ci fosse da alcuni decenni una dittatura, che è potuta crescere e svilupparsi negli anni della Guerra fredda, se quel paese non fosse stato una pedina in mano alle potenze coloniali dalla fine del primo conflitto mondiale. Il prossimo anno "festeggeremo" il primo secolo dell'accordo Sykes-Picot, che ha segnato il destino della Siria - e di tutto il Medio oriente - il suo mancato sviluppo democratico, il suo essere una terra contesa dalle forze occidentali e dagli interessi economici che queste rappresentavano e difendevano. Tanti migranti arrivano o transitano dalla Libia e sappiamo bene quali siano le nostre responsabilità in quella terra infelice. Tanti di quelli che arrivano in queste settimane sono eritrei che fuggono dalla dittatura di Isaias Afewerki, un despota con cui in tanti fanno affari e che continua a governare quel paese grazie soprattutto al denaro che gli arriva dalle aziende europee e statunitensi. Uno slogan che sentiamo ripetere sempre è aiutiamoli a casa loro. A parte che molti di loro una casa là non ce l'hanno, o non ce l'hanno più, la prima cosa che dovremmo fare davvero è cambiare la nostra politica estera, smettere di sostenere i peggiori governi, in nome dei nostri presunti interessi, che sono invece gli interessi di pochissimi. Aiutarli in casa loro significa prima di tutto smettere di finanziare le guerre in quei paesi, smettere di far nascere gruppi come l'Isis, smettere di sostenere quei dittatori.
Adesso le grandi multinazionali non hanno neppure più bisogno dei governi e delle cancellerie per gestire i loro affari in quei paesi, sono diventate autonome, il loro potere è ormai ben più globale e ramificato di quello della politica. E naturalmente i loro interessi non combaciano mai con gli interessi di quei popoli, come non combaciano mai con i nostri interessi. Per questo Aylan non è solo un bambino che si è messo in cammino, senza sapere neppure dove stava andando, Aylan è mio figlio, tuo figlio, Aylan è l'ennesima vittima di quel conflitto terribile che ci vede tutti coinvolti, in cui noi dovremmo combattere tutti dalla stessa parte, perché il nemico è sempre quello, il capitale, potente, crudele, che ogni giorno combatte contro di noi, di cui ogni giorno sentiamo la forza sempre più spietata, che ci vuole consumatori e vittime, schiavi e clienti, lavoratori senza diritti e senza cultura. Non basta commuoversi davanti a qual corpo disteso sulla sabbia, dobbiamo avere la consapevolezza che quel bambino morto è nostro figlio e questo ci deve dare la rabbia per combattere contro chi l'ha ucciso. Perché noi sappiamo chi ha provocato la sua morte, chi l'ha voluto sempre più povero, chi l'ha costretto a fare un viaggio che non avrebbe dovuto fare, che non avrebbe voluto fare. Gli animali fanno di tutto per difendere i cuccioli della loro specie, noi uomini invece permettiamo che le forze del capitale uccidano i nostri figli. E le ringraziamo dell'elemosina che ci offrono. E' il momento di dire basta, e possiamo essere in tanti, stanno arrivando in tanti che hanno voglia di dire basta, che vogliono un altro futuro. Per questo la loro lotta è la nostra lotta, il loro futuro è il nostro.

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