lunedì 30 marzo 2015

da "Che significa oggi fare politica" di Pietro Ingrao

da Rinascita, 14 novembre 1975

Ma c'è un altro aspetto che forse non è ancora sufficientemente chiaro: e riguarda la ne­cessità che - per uscire dalla crisi eco­nomica - si vada a nuove combinazioni (le chiamerei così) di momenti produtti­vi, a un intreccio originale di diverse competenze settoriali, e - in rapporto a ciò - ad una vera e propria invenzione di nuovi, ruoli sociali e di nuove forme di vita e direzione politica. Non basta insomma un coordinamento dell'esistente. C'è bisogno di una creatività sociale e politica. Quando parliamo di maggiore connessione fra scienza e produzione, dob­biamo pensare ad una maggiore incorpo­razione nella vita produttiva non solo di nuove tecnologie, ma - vorrei dire - an­che di scienza politica, di nuova cono­scenza della società e dello Stato.
Gli esempi emergono dai fatti e dalle lotte di ogni giorno. Si parla oggi di una programmazione articolata, decentrata a livello del potere locale, per individuare e realizzare, a livello ravvicinato, un col­legamento fra riforma nelle campagne e riconversione industriale, e giungere ad una organizzazione di consumi collettivi che dia un punto di riferimento alla pro­duzione. Questa sembra la strada attra­verso cui gli organi di potere locali pos­sono trovare il loro volto moderno e ri­spondere alla domanda impetuosa che og­gi li incalza e a volte li travolge. Ma ciò richiede una creazione diffusa di compe­tenze combinate, che va contro un'orga­nizzazione della direzione politica, concentrata in una somma di carrozzoni ministeriali, i quali agiscono dall'alto e se­parati.
Ancora. E' possibile che il campo ri­bollente della scuola possa durare nelle condizioni di caos, di crisi di identità e quindi di spreco che oggi lo travaglia? Sembra logico che si vada ad una ridefinizione del suo ruolo nella società e quindi del suo rapporto col lavoro produttivo. E' cosa urgente. Un tale cambiamento di contenuti, di ruolo, di collocazione nella società, appare possibile solo con una irruzione ancora più forte della società dentro la scuola (famiglie, organismi so­ciali, forze culturali) che si colleghi però con una proposta generale, con una idea dello Stato, con una sua riqualificazione.
E così, sembra arduo misurarsi con i problemi della salute, come si presenta­no ormai al nostro tempo e alla nostra coscienza, senza che si producano livelli diversi e più diffusi e più coordinati di sapere e di pratica medica, i quali colmino l'attuale distanza tra il grande "luminare" e il malato, evitino l'astrazione della ma­lattia e della sua cura dall'ambiente di vita, ci portino fuori dall'ingolfamento che sta riducendo la rete degli ospedali a stra­ripanti "ammucchiate". Ecco allora che la ricerca e la sperimentazione di me­todi e ruoli nuovi, che ancora ieri sem­brava esercizio utopistico, comincia ad ap­parire necessità razionale, bisogno di eco­nomicità, per evitare assurde dispersioni di ricchezza, materiale ed intellettuale, guasti nelle terapie, crisi delle profes­sioni.
Ecco, insomma, tutta una serie di cam­pi in cui bisogni elementari domandano ormai un altro modo di essere dello Stato che poggi su nuovi modelli di organizza­zione sociale. Il privatismo non regge più. Anzi tanti momenti privati della nostra vita rimandano sempre più al modo con cui è organizzato lo Stato: rimandano al­la politica nel suo significato più generale, nel senso che, per affrontare e risolvere certi problemi, diviene indispensabile non fermarsi a visioni settoriali, ma risalire alle connessioni fra l'uno e l'altro aspetto dello Stato, alle forme politiche e giuridiche più complesse in cui si realizza oggi il rapporto Stato-società e Stato-econo­mia. Parlavo del voto del 15 giugno. Credo che ciascuno di noi potrebbe por­tare esempi di gente che ha votato per noi, a sinistra, perché nella sua vita pri­vata, e ancora più nella sua "professio­ne", si è scontrata più di ieri con una disfunzione dello Stato, che non gli appa­re più settoriale, particolare, ma che co­mincia ad apparirgli generale, per così dire organica. Questa è la conferma di come la politica, nel suo senso più consapevole e più profondo, c'entri sempre di più nelle cose. Ma proprio perché tanti mo­menti della nostra vita sembrano intri­dersi sempre più direttamente di politica, essa non può restarsene confinata in al­to, né ridursi a una delega a gruppi illu­minati di vertice. Quella incorporazione di scienza politica, di direzione program­mata nell'attività produttiva e sociale, che è la grande spinta che scaturisce dai pro­blemi, se vuole essere effettiva, deve di­ventare diffusa e penetrante, deve diven­tare processo di massa che coinvolga e trasformi milioni di uomini e di donne e si realizzi in una molteplicità di livelli e di sedi. Il bisogno di "socializzazione della politica" si presenta sempre meno come sogno generoso, come astratta domanda di democrazia, e sempre più come necessità pratica, "economica". E d'al­tra non è proprio questo processo diffuso di "socializzazione della politica" la via vera non solo per dare concretezza alla democrazia, ma anche per giungere dalla confusione attuale a quello che noi chiamiamo un ordine nuovo e cioè per far camminare una disciplina reale, che sappia fare fronte ai rischi enormi di di­sgregazione, di frantumazione corporativa, che è poi spazio aperto all'autoritari­smo?

1 commento:

  1. Leggendo questo articolo, ho due sentimenti: da un lato, ammirazione per la lungimiranza e la capacità profonda di analisi che Ingrao mostrava 40 anni fa. Il suo insistere sull'importanza del governo "locale" è geniale.
    Dall'altro, desolazione, perché credo che potrebbe essere scritto oggi... si parla di "crisi" economica, di una "scuola" che non funziona più, di una "sanità" in difficoltà, di uno Stato pieno di disfunzioni.
    E mi abbatto pensando alle riforme che sono state sbandierate come novità in questi 40 anni, compresa la riforma della PA iniziata nel 1990, nel nome della trasparenza, efficacia ed efficienza...

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