giovedì 12 febbraio 2015

Verba volant (164): naufragio...

Naufragio, sost. m.

Le parole spiegano, ma ci sono anche parole che servono a nascondere: in questi giorni una di esse è proprio naufragio. I mezzi di informazione ci raccontano le storie di queste piccole barche che naufragano nel Mediterraneo e, anche se con più difficoltà, le storie dei naufraghi, senza nome, che trovano la morte in una traversata che rappresenta per loro la speranza.
Se queste tragedie fossero soltanto naufragi i responsabili sarebbero le persone che, senza scrupoli, organizzano questi "viaggi", che stipano centinaia di persone in barche malmesse e incapaci di reggere, con un simile carico, una navigazione in un mare difficile. Se queste tragedie fossero soltanto naufragi i responsabili sarebbero gli stessi naufraghi, che accettano, probabilmente in maniera consapevole, i rischi di un tale viaggio, pur di lasciare il loro paese, pur di arrivare in Europa. Se queste tragedie fossero soltanto naufragi noi non saremmo responsabili, potremmo limitarci a guardare, attraverso i nostri televisori, quello che succede , organizzando gli aiuti per quelli che sopravvivono. Al massimo potremmo discutere su come intervenire, quando far partire i soccorsi, a quante miglia dalla costa cominciare i pattugliamenti.
Però non sono soltanto naufragi. E proprio per questo noi dobbiamo riconoscere di esserne in qualche modo responsabili.
Non si può rimanere indifferenti di fronte agli uomini e alle donne che lasciano la loro terra, i loro affetti, le loro famiglie, che spendono tutti i loro soldi, guadagnati in una vita di lavoro, che mettono a rischio la loro vita e, a volte, quella dei loro figli. Queste persone meritano il nostro rispetto e il nostro aiuto. Avere rispetto per queste persone e per le sofferenze che stanno incontrando significa anche affrontare il tema con parole chiare, senza infingimenti e tatticismi, perché il rispetto si misura anche nelle parole. Prima di tutto chi fugge la miseria, la fame, le malattie, ha gli stessi diritti di chi fugge da un paese in guerra o da una dittatura: non si può chiamare il secondo rifugiato e il primo clandestino. Un clandestino è qualcuno che arriva di nascosto, con l'inganno, mentre i disperati dell'intera Africa arrivano alla luce del sole e tutto il mondo li può vedere. Anche se non li vogliamo vedere.
Anzi noi vediamo una piccola parte di questa loro odissea, piangiamo i morti in mare, ma quando arrivano in Libia o in Tunisia, e si preparano a salpare, il loro viaggio è cominciato da mesi e spesso hanno già dovuto attraversare il deserto, una prova perfino più terribile della traversata, tutto sommato breve, tra l'Africa e l'Italia. Quanti di loro sono morti nel deserto, lontano dai nostri occhi, lontano dalle nostre telecamere. E probabilmente pensano che, una volta arrivati al mare - come Senofonte nell'Anabasi - il loro viaggio sia terminato: l'Europa è lì, si può quasi toccare. Perché Lampedusa è Europa: loro lo sanno, noi - a volte - ce ne dimentichiamo. Suona ancora più beffarda e tragica la morte quando il traguardo è così vicino.
Tutte le donne e tutti gli uomini hanno gli stessi diritti. Nessuno può essere lasciato in mare o può essere respinto senza averne stabilito nome e nazionalità. Nessuno deve morire in mare e a nessuno possono essere rifiutati il primo soccorso e le cure mediche. Tutti devono essere nutriti e dissetati. Poi bisogna essere consapevoli che ci sono dei limiti all'accoglienza, limiti che non devono essere definiti dal nostro egoismo o da qualche calcolo politico, ma dalla reale capacità di fare spazio agli altri. Sono limiti che possono essere dilatati, se c'è un impegno vero, ma sono oggettivi e bisogna riconoscerli. Lo spazio a disposizione non può continuare a crescere, mentre invece è destinato a crescere il numero di persone che chiedono di occupare questo spazio: di fronte a questa situazione è sbagliato - oltre che immorale - rigettare i profughi in mare, ma è altrettanto sbagliato - oltre che politicamente miope - accogliere tutti, quando si sa che è umanamente impossibile avere le risorse per loro.
Per questo occorre una risposta diversa, che parte da una domanda diversa e da parole diverse. Dobbiamo capire quali sono le vere cause di queste tragedie, che ci ostiniamo a chiamare naufragi: perché - come dice con un'espressione bella ed eloquente Enzo Bianchi:
quasi mai il pane va verso i poveri e quasi sempre i poveri vanno verso il pane.
Alla fine la storia è tutta qui: è di una semplicità perfino imbarazzante. Dobbiamo capire questo e dobbiamo lottare, con tutta la nostra intelligenza e tutto il nostro coraggio, perché questo non sia più vero. Altrimenti saremo noi destinati a naufragare.

1 commento:

  1. Si, nella parola naufragio si nascondono secoli di sopraffazione e sfruttamento, che una volta avevano un nome, schiavismo colonialismo, e che oggi si può chiamare soltanto capitalismo, spregiudicato e criminale.

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