venerdì 6 febbraio 2015

Verba volant (162): vendicare...

Vendicare, v. tr.

Il verbo latino vindicare è composto di venum, il cui significato originario è prezzo, e dicare, che significa propriamente offrire. Il primo significato, decisamente positivo, di questo verbo è quindi offrire il prezzo del riscatto, farsi garante e quindi liberare e vindicta infatti era chiamato il bastone con il quale si toccava lo schiavo a cui era restituita la libertà. Dal momento che chi pagava il riscatto e si faceva garante della persona liberata diventava in qualche modo giudice della sua libertà, e della sua vita, il verbo è passato al significato, diventato corrente, di far giustizia da sé, di punire qualcuno dell'offesa ricevuta.
La vendetta è in qualche modo uno degli elementi che regola i rapporti sociali nell'antichità e infatti, non a caso, è uno dei fili conduttori dell'Iliade: Achille lascia il campo acheo per vendicarsi dell'offesa subita da Agamennone e torna a combattere per vendicare la morte di Patroclo. Gli stessi antichi, per "regolare" in qualche modo la vendetta, sentimento che non conosce freni - sì, vendetta, tremenda vendetta - definirono la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Anzi proprio questo principio, che a noi ora può apparire barbaro, è alla base del primo codice scritto che la storia conosca, il Codice di Hammurabi, al tempo dei babilonesi, quando la legge per la prima volta fu sottratta all'arbitrio del re e resa nota a tutti i cittadini, almeno a quelli che sapevano leggere.
E, nonostante i tantissimi secoli passati, raccontiamo ancora una storia di guerra che si svolge poco lontano dall'antica Babilonia.   
Nonostante le dichiarazioni ufficiali, è difficile sfuggire all'idea che la decisione del governo della Giordania di eseguire la condanna a morte di due terroristi islamici - dopo anni in cui era stata rispettata una moratoria nell'utilizzo di questa pena estrema - non sia una forma di vendetta per l'uccisione barbara del pilota Moath Kasabeth da parte dell'Isis. La Giordania, per la sua posizione geografica e per la presenza in quel territorio di milioni di profughi, sta pagando un prezzo altissimo a questo conflitto anomalo e terribile e quindi sono comprensibili sia l'ira della folla che ha chiesto la morte dei due terroristi sia la decisione di cedere a questa richiesta, per salvare un regime sempre più debole, probabilmente uno dei più deboli in quell'intricato scacchiere.
Pur accettando tutti i distinguo che sono stati fatti in queste ore, pur riconoscendo che non si tratta di un tema su cui è possibile avere posizioni manichee, questa duplice uccisione ci pone un problema etico e politico: è lecita oggi la vendetta? e soprattutto è lecita quando la esercita uno stato? Credo di no.
L'uccisione del militare giordano da parte dell'Isis è stato un atto di crudele barbarie, tanto più terribile perché si tratta di una barbarie premeditata, studiata, ritualizzata secondo schemi antichi e ripresa e diffusa con mezzi modernissimi. I capi dell'Isis usano questa brutalità, enfatizzano certi aspetti della guerra - infatti i loro nemici vengono sgozzati o bruciati, come in questo caso - lanciando un preciso messaggio a una parte di quel mondo che ha paura della modernità, della contaminazione con la cultura occidentale. Non è la furia cieca di una folla incontrollata quella che ha ucciso Moath e tante persone prima di lui, ma il raffinato calcolo politico e mediatico di chi ha capito che quelle "sentenze", anche per il modo in cui sono state eseguite, hanno un preciso significato.
Si è trattato di una trappola, in cui i governanti giordani, forse in maniera inevitabile a questo punto, sono caduti. La pena di morte deve essere un tema su cui non è più possibile fare un passo indietro, neppure per rispondere a un crimine così efferato, neppure per punire un criminale che a sangue freddo ha ucciso decine di giovani, come Anders Breivik.
In questi anni, commettendo errori madornali, abbiamo cercato di esportare la democrazia in diversi paesi, in genere - per una strana eterogenesi dei fini - favorendo la crescita di regimi peggiori rispetto a quelli che avevamo abbattuto. Credo che l'errore sia stato quello di concentrarsi unicamente sui processi di decisione costituzionali propri di un regime democratico: e infatti abbiamo guardato con giusta soddisfazione - e anche con orgoglio - alle file di persone davanti ai seggi in Iraq e in Afghanistan, senza interrogarci abbastanza su che significato aveva quel voto per quegli uomini e quelle donne. Non c'è vera democrazia in un paese in cui le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini, in cui le bambine e i bambini non vanno a scuola, in cui la maggioranza della popolazione vive sotto il livello di povertà. E in cui c'è ancora la pena di morte e questa pena viene usata come una forma di vendetta.
I diritti dell'uomo, la democrazia e la pace sono tre elementi che devono necessariamente stare insieme, perché senza diritti riconosciuti ed effettivamente protetti non c'è democrazia e senza democrazia non ci sono le condizioni per trovare una soluzione pacifica dei conflitti.
Noi la farem vendetta, cantavano gli anarchici negli anni Venti, per costruire un mondo di fratelli, di pace e di lavor. Ma proprio perché questo è ancora il nostro ideale e perché non abbiamo rinunciato alla lotta, al conflitto anche aspro, dobbiamo dire che alla vendetta preferiamo la giustizia.

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