mercoledì 31 dicembre 2014

da "Gli esami non finiscono mai" di Eduardo De Filippo


Furio
Ti compatisco, perché in questo momento non sei padrone di te stesso.

Guglielmo
Per fortuna! Questa è la sola gioia che mi conforta, perché non essendo padrone di questo "me stesso", che oramai mi fa schifo, ti posso dire apertamente che non voglio più subire la presenza tua nella mia vita, che sono stanco di sopportare i tuoi: "Sì, va bene, ma però", che mi sono scocciato di sopportare la legge del vivere civile che t’assoggetta a pronunziare i "sì" senza convinzione, quando i "no" salgono alla gola come tante bolle d’aria.

martedì 30 dicembre 2014

Verba volant (154): bilancio...

Bilancio, sost. m.

In qualche modo questa definizione fa il paio con l'ultima che ho scritto, perché in questi giorni di fine anno, oltre a fare gli auguri - ossia le profezie sull'anno che sta per cominciare - siamo soliti fare i bilanci dell'anno che sta per finire; e su questi, spesso, ci capita di non essere sinceri.
Bilancio deriva dal verbo bilanciare, che viene a sua volta dal sostantivo latino bilanx, composto da bis, che significa due volte, e da lanx, lancis, che significa piatto, un calco del greco antico lekos, che indica appunto un contenitore dalla forma curva, una scodella in buona sostanza.
Per ogni famiglia la fine dell'anno è l'occasione per fare il bilancio dei conti di casa, per calcolare le entrate e le uscite e per vedere infine se l'esito è positivo - come tutti auspichiamo - o negativo - come invece tutti temiamo. Fare questo bilancio è tutto sommato piuttosto semplice, perché i numeri hanno una loro verità, che è difficile eludere, per quanto spiacevole possa essere. Naturalmente possiamo mentire anche con i numeri ed esiste infatti il falso in bilancio, che in questo paese ormai non è nemmeno più reato, ma viene considerato una colpa da poco, anzi in certi ambienti è quasi una nota di merito. Poi i numeri si possono un po' stiracchiare. A me ogni tanto capita: se a fine mese facciamo una spesa un po' grossa, magari imprevista, che mi farebbe sballare i conti di quel mese, a volte mi capita di registrare quella stessa spesa nelle uscite del mese successivo; nel caso annuncio a Zaira che ho fatto un po' di "finanza creativa". Comunque non si scappa, a fine anno quella spesa imprevista salta fuori e prende il posto che le compete nel bilancio.
Curiosi sono poi quei bilanci i cui numeri cambiano a seconda di chi li legge. Capita ad esempio in alcune aziende: se c'è da premiare il manager quel bilancio presenta un attivo considerevole e quindi questi merita un congruo premio per l'ottimo risultato raggiunto, se c'è da aumentare, anche di pochissimo, le retribuzioni degli operai, quello stesso bilancio presenta inevitabilmente delle criticità, che non permettono appunto quell'ulteriore esborso, anzi forse sarebbe il caso di licenziare qualche lavoratore, così, per far tornare i conti. Poi ci sono i bilanci dello stato che presentano uno strano fenomeno: le entrate, ossia i soldi che noi paghiamo attraverso le tasse, non bastano mai e quindi i nostri governanti sono costretti a introdurre, malgrado le promesse fatte in campagna elettorale, nuove tasse, mentre le uscite, ossia i soldi spesi in servizi, sono sempre troppi, e quindi i nostri indefessi governanti devono tagliarli. Però stranamente l'equilibrio non lo trovano mai.
Non sono questi però i bilanci che mi interessano. Ciascuno di noi, almeno a fine anno, è chiamato a fare un bilancio delle cose che ha fatto e di quelle che non ha fatto, di quelle che avrebbe dovuto fare e di quelle che non avrebbe dovuto fare. In genere quando giudichiamo gli altri siamo inflessibili: Caio ha fatto questo, che non avrebbe dovuto fare, e Tizio non ha fatto quello, che invece avrebbe dovuto fare, e siamo subito pronti a rimproverarli. Quando invece tocca a noi il giudizio si attenua, si smorza: è vero, avremmo dovuto fare quella cosa là - avevamo giurato che l'avremmo fatta - ma sono poi sorti tali ostacoli, così insormontabili che ci hanno fatto desistere; la faremo sicuramente l'anno prossimo. Forse non avremmo dovuto fare quella cosa che oggi giudichiamo un errore, ma allora non ci sembrava così sbagliata e poi hanno fatto la stessa cosa anche gli altri. E andiamo avanti così, accampando scuse, più o meno valide, giustificazioni, più o meno fantasiose, e alla fine in genere tendiamo a dire che, tutto sommato, non siamo andati proprio male e siamo pronti a dire che il nostro bilancio è stato positivo.
Devo dire che, nonostante tutto, fatico a considerare questo atteggiamento come del tutto negativo. Vi immaginate cosa sarebbe un mondo di implacabili censori dei propri difetti? Francamente ne avrei timore. In medio stat virtus, dicevano gli antichi e così come è necessaria una certa dose di ipocrisia nei rapporti interpersonali - vi immaginate cosa succederebbe se tutti cominciassimo a essere sinceri e dicessimo cosa davvero pensiamo degli altri? la nostra società crollerebbe nel giro di due giorni - così dobbiamo accettare che ciascuno di noi tenda a pensare di aver fatto bene quello che ha fatto, se l'ha fatto con la coscienza di aver fatto bene. Gli errori sono sempre possibili - e anzi ne faremo sempre - ma non per forza dobbiamo pensare di essere da condannare perché ne abbiamo commessi.
In fondo non possiamo sempre pensare di aver sbagliato tutto; neppure noi di sinistra.

sabato 27 dicembre 2014

"Le anime dei morti in primavera" di Liu Xiaobo


In primavera, sento la neve
Lo sguardo sorvegliato
sente le anime dei defunti questa notte
Son fluttuati nelle tombe i fiocchi di neve?
Portando con sé il mio sogno nella neve?
L’ombra inclinata del Monumento
proietta nelle mie pupille la notte del terrore

Quella primavera, terrorizzata dalle baionette
assunse a un tratto il volto della ferocia
La stagione gravida di vita
vomitò una gigantesca tomba
Il tepore del sole
si mutò in ghiaccio di fogna
Lacrime intrise di sangue
come neve che cade nella tempesta di sabbia

Quella primavera, si gettò sotto i cingoli dei carri armati
Pur donando ogni saggezza pur offrendo la mia nuda anima
non sono assurto alle altezze della tomba

Quella primavera, un illusione divenne per le madri eterna pena
da allora ogni primavera
è legata con ceppi e catena
Ma io so
essa è prova e lascito delle anime dei defunti

Quella primavera, il crollo delle mie speranze
Il mio esile corpo la mia debole anima
se ne andarono prima del primo fascio di luce
Temo ogni prodezza da eroe
e non ho la forza d’infierire su me stesso
Una vita rinchiusa
lotta nel vuoto
Posso solo accendere una sigaretta
afferrare saldamente ogni attimo della caduta
sopravvivere è una prova
nessuno sa
se crollerò in meno di un’ora

Ho verniciato di nero uno specchio
lo lecco finché sia lucido da riflettere di nuovo
Gli occhi resuscitati mi guardano
Cosa vedranno?
Per soddisfare un cane
non basta un osso
Per cominciare da capo
basta agire
C’è gente che vive ogni giorno nella rivolta
C’è anche chi muore per il terrore
La bomba della fede fiorisce ovunque e
ho scolpito me stesso su una pietra
poi sprofondata in fondo al mare
Memorie che non inaridiscono mai
Diventare un nichilista
e come Wang Wei e Tao Yuanming
comporre poesie in riva al ruscello
ed elemosinare un bicchiere
Il diritto d’essere un disinvolto testimone
seppellire con il Monumento il fervore
porre fine in qualche modo al dolore
ma la luce delle anime dei defunti
trapassa le mura più alte e le sbarre
penetra nel mio corpo
scioglie i sassi dei torrenti profondi
i duri spigoli si smussano un poco
Come sono fragili, minuscoli e folli i narcisisti
pur avendo sotto gli occhi la grandezza del momento
non ne sanno reggere il peso

Attingere dentro di sé quell’unico bagliore rimasto!
A illuminare per me la via

Come di fronte al mare si rivela il cielo
di fronte al cielo si rivela il mare
così di fronte alla mia anima si rivela la tua

Le anime dei defunti sono miei custodi
sconfiggono le percosse dei marosi sulla roccia
ogni istante ogni giorno ogni mese ogni anno
finché un giorno
la roccia s’impietosirà, piangerà spaccandosi
per poi riversarsi in mare
Non so dire
se siano le anime dei defunti a sublimare
quella crudele primavera
o la crudele primavera a sublimare le anime
Se fossi una sigaretta
onorerei la mia promessa bruciando
e se ardessi fino in fondo
onorerei la mia promessa diventando cenere

mercoledì 24 dicembre 2014

Verba volant (153): augurio...

Augurio, sost. m.

In questi giorni ci scambiamo continuamente gli auguri. E qualche volta sono perfino sinceri.
Questa è una parola che ha una storia da raccontare. In latino augurium indica la cerimonia con cui alcuni sacerdoti, detti appunto àuguri, ricavavano i loro presagi dall'osservazione del volo degli uccelli e anche, per estensione, il presagio stesso. E infatti si può riconoscere in questa parola la radice del termine avis, che significa appunto uccello. In italiano quindi questa parola ha indicato dapprima la previsione di eventi buoni o cattivi e, in seguito, il desiderio che accada qualcosa di buono e l'espressione stessa di questo desiderio; e in questo caso si adopera sempre al plurale. Si parte quindi da un vaticinio, che poteva essere buono o cattivo, e si arriva alla speranza che accada, a noi o agli altri, qualcosa di positivo. Certo si può augurare anche qualcosa di brutto, ma in genere non è opportuno dirlo; anche perché si dice che un cattivo augurio ti si ritorca contro. Comunque sia l'augurio è sempre una profezia, che speriamo s'avveri.
In questi giorni di festa vi auguro di avere un po' di tempo libero, da dedicare a voi stessi, alle persone a cui volete bene e anche alle vostre passioni. Se ve ne avanza un po', vi consiglio di leggere - o di rileggere - un piccolo libro, che ben si adatta alla parola che oggi ho scelto di definire: La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt (in Italia è pubblicato da Adelphi in un bel volume dalla copertina rossa). Questo libro racconta gli ultimi momenti della vita di due personaggi, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI e l'indovino Tiresia. Proprio perché stanno per morire, i due capiscono il ruolo - involontario e inconsapevole - che le loro azioni hanno avuto nel determinare la triste vicenda di Edipo; capiscono finalmente tutta la storia, di cui, fino ad allora, avevano avuto soltanto una visione parziale e incompleta.
Molti anni prima Pannychis aveva profetizzato, per puro dispetto, a un giovane principe dall'aria altezzosa che un giorno avrebbe ucciso suo padre e avrebbe sposato sua madre: gli aveva voluto raccontare una storia incredibile, una profezia irrealizzabile, proprio per convincerlo di quanto fosse assurda la pretesa degli uomini di conoscere il proprio futuro. Pannychis, come le altre Pizie prima di lei, vaticinava a casaccio. Tiresia invece faceva l'indovino e sfruttava il proprio ruolo nella società, prestigioso e ben remunerato, per cercare di orientare la vita politica della città. Tempo prima aveva vaticinato che Tebe sarebbe stata libera dalle peste solo se fosse stato scoperto l'assassino di Laio, perché era convinto che l'uccisore del vecchio re fosse Creonte, che egli credeva inadatto al ruolo regale. Invece era stato Edipo e così i Tebani perdettero il miglior re che avessero mai avuto, proprio in favore di Creonte, vanificando in tal modo i disegni politici di Tiresia.
Alla fine del racconto Tiresia dice a Pannychis:
Forse gli dei, ammesso che esistano, potrebbero godere dall'alto di una certa visione d'insieme, sia pure superficiale, di questo nodo immane di accadimenti  inverosimili che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate, mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio brancoliamo disperatamente nel buio. Con i nostri oracoli sia tu sia io abbiamo sperato di portare la timida parvenza di un ordine, il tenue presagio di una qualche legittimità nel truce, lussurioso e spesso sanguinoso flusso di eventi dai quali siamo stati travolti proprio perché ci sforzavamo di arginarli, sia pure soltanto un poco.
Dürrenmatt racconta questa storia antica e molto nota riservando ai lettori alcune altre sorprese - perché le cose non sono sempre quelle che crediamo o che vogliamo credere; naturalmente non vi svelerò questi colpi di scena, perché vi voglio lasciare il piacere della lettura, o della rilettura. Mi sembra importante farvi notare che il punto centrale sottolineato dallo scrittore svizzero sia proprio questa vana rincorsa di noi uomini a cercare di modellare il futuro, nostro e del mondo. E' quello che ci insegna questo libro e che prima o poi tutti siamo destinati a imparare, spesso a nostre spese.
Naturalmente alcuni di noi non rinunceranno mai a voler cambiar il mondo, a lasciarlo un po' più giusto di come l'abbiamo trovato; anzi questo ideale - che chiamiamo ostinatamente sinistra - è qualcosa che spinge gran parte delle nostre azioni, anche quelle meno importanti, come può essere quella di scrivere le definizioni di un vocabolario destinato a non essere mai pubblicato.
E non possiamo fare a meno di andare avanti così, stretti in questa contraddizione.
Comunque sia, auguri. E vi assicuro che sono sinceri.

da "La morte della Pizia" di Friedrich Dürrenmatt

Stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro. Vero è che in simili casi, essendo comunque dubitosi coloro che venivano a consultarla, la Pizia soleva rispondere con un semplice: sì e no, dipende…; quel giorno però l’intera faccenda le parve di un’idiozia veramente intollerabile, forse soltanto perché quando il pallido giovanotto arrivò claudicando al santuario erano ormai le cinque passate, invece di starlo a sentire Pannychis avrebbe dovuto chiudere, e allora, vuoi per guarirlo dalla fede incondizionata nelle sentenze degli oracoli, vuoi perché essendo così di cattivo umore le saltò il ghiribizzo di fare arrabbiare quel principe di Corinto dall’aria altezzosa, la Pizia gli fece una profezia che più insensata e inverosimile non avrebbe potuto essere, la quale, pensò, non si sarebbe certamente mai avverata, perché nessuno al mondo può ammazzare il proprio padre e andare a letto con la propria madre, senza contare che per lei tutte quelle storie di accoppiamenti incestuosi fra dèi e semidei altro non erano che insulse leggende. Va detto però che un leggero disagio la colse nel momento in cui, udite le parole dell’oracolo, quel tipo maldestro di un principe di Corinto sbiancò in volto; la Pizia lo notò pur assisa sul tripode e avvolta com’era da una nuvola di vapori, e pensò che dovesse trattarsi di un credulone straordinario. Quando poi, uscito dal santuario con fare circospetto, Edipo ebbe pagato l’oracolo al gran sacerdote Merops XXVII, che incassava personalmente dai clienti aristocratici, Pannychis lo seguì con lo sguardo ancora per un attimo e scrollò il capo perché vide che il giovanotto non prendeva la strada che portava a Corinto, dove pure vivevano i suoi genitori; ma il pensiero che quel responso dato per celia potesse provocare una disgrazia lo respinse subito e, nel rimuovere quella strana e spiacevole sensazione, la Pizia dimenticò Edipo.
Vecchia com’era, Pannychis trascinava stancamente anno dopo anno la sua interminabile esistenza, sempre ai ferri corti con il gran sacerdote, che pure grazie a lei faceva soldi a palate perché più passava il tempo più i suoi responsi diventavano spavaldi e azzardati. Non che lei credesse alle cose che diceva, anzi vaticinava in quel modo proprio per farsi beffe di coloro che credevano in lei, col risultato però di destare nei suoi devoti una fede assolutamente incondizionata. Pannychis profetava, vaticinava imperterrita, neanche a parlarne di poter andare in pensione. Merops riteneva infatti che quanto più una Pizia era vecchia e svampita, tanto più diventava brava, il meglio assoluto era una Pizia agonizzante, non a caso gli oracoli più spettacolosi li aveva pronunciati Krobyle IV, la Pizia che aveva preceduto Pannychis, in punto di morte. Pannychis, dal canto suo, si proponeva di astenersi del tutto dal profetare quando l’ora estrema fosse giunta anche per lei, ciò che voleva era morire con dignità, almeno quello, e senza fare sciocchezze; era già abbastanza degradante che ancora adesso fosse costretta a farne, per di più in condizioni di lavoro così deplorevoli. Il santuario era umido e pieno di correnti d’aria. Dall’esterno appariva sontuoso, primo dorico puro, ma l’interno era squallido, una spelonca male isolata di roccia calcarea. A unico conforto di Pannychis, i vapori che scaturivano dalla fenditura nella roccia, giusto sotto il tripode sul quale lei era assisa, alleviavano i dolori reumatici provocati dalle correnti d’aria.
Da tempo ormai quel che accadeva in Grecia non le importava più: che il matrimonio di Agamennone scricchiolasse o meno, o con chi se la facesse Elena, tanto per cambiare, era privo per lei di qualsiasi interesse. La Pizia profetava a casaccio, vaticinava alla cieca, e poiché altrettanto ciecamente veniva creduta, nessuno ci faceva caso se le sue profezie non si avveravano quasi mai, o solo qualche rara volta, proprio quando le cose non potevano che finire in quel certo modo: a Eracle, per esempio, l’eroe dalla forza leonina che non aveva nemici dal momento che nessuno era in grado di stargli alla pari, non restava altra via d’uscita che darsi la morte col fuoco, solo perché la Pizia gli aveva insufflato che dopo morto sarebbe diventato immortale. Diventò davvero immortale? Nessuno comunque avrebbe mai potuto verificarlo. E il semplice fatto che Giasone avesse sposato Medea era più che sufficiente a spiegare come mai alla fine lui si tolse la vita, ma non va dimenticato che quando era comparso a Delfi con la sua fidanzata per implorare un responso dall’oracolo del dio, la Pizia col suo fiuto infallibile aveva sentenziato seduta stante che meglio sarebbe stato per lui gettarsi sulla propria strada piuttosto che prendere in moglie quella mangiatrice di uomini.
In queste circonstanze la fortuna dell’oracolo era ormai inarrestabile, anche per motivi economici. Merpos XXVII aveva in mente lavori colossali di ristrutturazione: un gigantesco tempio di Apollo, un portico delle Muse, una colonna ofitica, diverse banche e perfino un teatro. Il gran sacerdote frequentava ormai solo re e tiranni e da tempo aveva smesso di preoccuparsi dei sempre più numerosi incidenti sul lavoro e del palese e crescente disinteresse del dio. Conosceva i suoi Greci, Merops. E quante più follie tirava fuori la vecchia nei suoi vaneggiamenti tanto più lui era contento, nessuno comunque l’avrebbe buttata giù da quel tripode dove, infagottata nel suo nero mantello, passava il suo tempo a sonnecchiare tra i vapori. Dopo la chiusura del santuario, Pannychis aveva l’abitudine di starsene seduta ancora un po’ davanti al portale laterale, poi, zoppicando, andava a rintanarsi nella sua capanna, si cucinava un semolino e lo lasciava lì perché si addormentava. Detestava qualsiasi cambiamento nel trantran quotidiano. Solo di tanto in tanto, e sempre di malavoglia, si presentava nell’ufficio di Merops XXVII, borbottando e mugugnando; il gran sacerdote, del resto, la faceva chiamare solo quando arrivava qualche indovino con la richiesta che un oracolo da lui stesso formulato venisse pronunciato dalla Pizia per un suo cliente. Pannychis detestava gli indovini. Va bene che non credeva negli oracoli, ma non vedeva nell’arte del vaticinio niente di particolarmente indecente, gli oracoli non essendo per lei che un’idiozia voluta dalla società; tutt’altra cosa erano invece le profezie dei veggenti, che lei era tenuta pronunciare su loro ordinazione; formulati com’erano in vista di un certo scopo, quegli oracoli celavano sempre qualche sporco intrallazzo, se non addirittura un ben preciso interesse politico; e la sera d’estate in cui Merops, stiracchiandosi dietro la scrivania, le disse col suo solito tono melenso e falsamente cordiale che il veggente Tiresia aveva espresso un desiderio, la Pizia pensò subito che dietro quella richiesta si nascondesse qualche sporco intrigo o calcolo politico.
Per questo, benché si fosse appena accomodata su una sedia, Pannychis XI scattò in piedi e dichiarò che con Tiresia non voleva avere niente a che fare, era ormai troppo vecchia, protestò, per poter imparare, tenere a mente e recitare con sicurezza gli oracoli altrui. Arrivederci e grazie. Un momento, disse Merops inseguendola e sbarrandole il passo sulla soglia dell’ufficio, un momento, non era il caso di prendersela in quel modo, anche lui era convinto che quel cieco di un Teresia fosse un tipo quanto mai sgradevole, di sicuro il più grande maneggione e politicante di tutta la Grecia, e, per Apollo, marcio e corrotto fino alle midolla, ma bisognava ammettere, aggiunse, che nessuno pagava bene come Tiresia, e stavolta la sua richiesta era più che comprensibile, essendo a Tebe di nuovo scoppiata la peste. La peste era di casa a Tebe, borbottò Pannychis, né c’era da stupirsene poi tanto, disse, bastava un’occhiata alle condizioni igieniche intorno all’acropoli, la cosiddetta Cadmea, per rendersi conto del perché in quella città la peste fosse diventata per così dire endemica. Certo, disse Merops XXVII a Pannychis XI sperando di rabbonirla, Tebe era proprio raccapricciante, un fetido buco sotto ogni aspetto, non a caso correva voce che perfino le aquile di Giove faticassero a sorvolare la città perché sbattevano un’ala soltanto, dovendo con l’altra turarsi il naso, e poi… per non parlare poi di quel che succedeva alla corte del re. Tiresia chiedeva di profetare al suo cliente, atteso a Delfi per l’indomani, che la peste non sarebbe finita se prima non fosse stato scoperto l’assassino di Laio, il re di Tebe. Pannychis, stupita per la banalità dell’oracolo, pensò che Tiresia, data l’età, si fosse ormai rincitrullito. Giusto per salvare la forma, domandò ancora quando quel delitto fosse stato commesso. Mah…, esattamente non lo sapeva, fu la risposta di Merops, vari decenni addietro, ma non aveva grande importanza, che l’assassino si trovasse o no, la peste prima o poi sarebbe finita, e allora i Tebani si sarebbero persuasi che gli dèi, per venire loro in aiuto, avessero di loro iniziativa ristabilito la giustizia annientando l’assassino dopo averlo scovato in un qualche remoto nascondiglio.

da "La morte della Pizia" di Friedrich Dürrenmatt

"Dimentica le vecchie storie, Pannychis, non hanno alcuna importanza, in questa grande babilonia siamo noi i veri protagonisti. Noi due ci siamo trovati di fronte alla stessa mostruosa realtà, la quale è impermeabile non meno dell'essere umano che ne è l'artefice. Forse gli dei, ammesso che esistano, potrebbero godere dall'alto di una certa visione d'insieme, sia pure superficiale, di questo nodo immane di accadimenti  inverosimili che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più scellerate, mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo scompiglio brancoliamo disperatamente nel buio. Con i nostri oracoli sia tu sia io abbiamo sperato di portare la timida parvenza di un ordine, il tenue presagio di una qualche legittimità nel truce, lussurioso e spesso sanguinoso flusso di eventi dai quali siamo stati travolti proprio perché ci sforzavamo di arginarli, sia pure soltanto un poco.
Tu, Pannychis, vaticinasti con fantasia, capriccio, arroganza, addirittura con insolenza irriguardosa, insomma: con arguzia blasfema. Io invece commissionai i miei oracoli con fredda premeditazione, con logica ineccepibile, insomma: con razionalità. Ebbene, devo ammettere che il tuo oracolo ha fatto centro. Se fossi un matematico potrei dirti con esattezza quanto fosse improbabile la probabilità che il tuo oracolo cogliesse nel segno: era straordinariamente improbabile, infinitamente improbabile. Eppure il tuo improbabilissimo responso si è avverato, mentre sono finiti in niente i miei responsi così probabili e dati ragionevolmente con l'intento di fare politica, e cambiare il mondo, e renderlo più ragionevole. Oh, me stolto. Io con la mia ragionevolezza ho messo in moto una catena di cause e di effetti che hanno dato luogo a un risultato esattamente opposto a quello che avevo in mente di ottenere. E poi, stolta non meno di me, sei arrivata tu, e con baldanza spregiudicata ci hai dato sotto con i tuoi oracoli il più possibile nefandi. Da tempo ormai i motivi non contano più, del resto i tuoi responsi li hai scagliati contro persone di cui non t'importava niente; sicché un bel giorno ti sei trovata a pronunciare un oracolo contro un ragazzo pallido e zoppo di nome Edipo. A chi ti giova, Pannychis, se tu hai colto nel segno e io invece mi sono sbagliato? Il danno che noi due abbiamo fatto è mostruoso nella stessa misura. Getta via il tuo tripode, Pizia, gettalo con te nella crepa della terra, anch'io sto per morire, la fonte Tilfussa ha compiuto la sua opera. Addio, Pannychis; non credere però che noi due ci perderemo. Come io che ho voluto sottomettere il mondo alla mia ragione ho dovuto in quest'umida spelonca affrontare te che hai provato a dominare il mondo con la tua fantasia, così per tutta l'eternità quelli che reputano il mondo un sistema ordinato dovranno confrontarsi con coloro che lo ritengono un mostruoso caos. Gli uni penseranno che il mondo è criticabile, gli altri lo prenderanno così com'è. Gli uni riterranno che il mondo è plasmabile come una pietra cui si può con uno scalpello far assumere una forma qualsivoglia, gli altri indurranno alla considerazione che, nella sua impenetrabilità, il mondo si modifica soltanto come un mostro che prende facce sempre nuove, e che esso può essere criticato non più di quanto il velo impalpabile dell'umano intelletto possa influenzare le forze tettoniche dell'istinto umano. Gli uni ingiurieranno gli altri chiamandoli pessimisti, e a loro volta saranno da quelli irrisi come utopisti. Gli uni sosterranno che il corso della storia obbedisce a leggi ben precise, gli altri diranno che queste leggi esistono soltanto nella immaginazione degli uomini. Il conflitto fra noi due, Pannychis, il conflitto tra il veggente e la Pizia, divamperà su tutti i fronti: il nostro è ancora un conflitto emotivo, non sufficientemente motivato, eppure laggiù già costruiscono un teatro e già ad Atene un poeta sconosciuto sta scrivendo una tragedia su Edipo. Ma Atene è provincia, e Sofocle sarà dimenticato, Edipo invece continuerà a vivere, resterà un tema che pone a noi enigmatici quesiti. A che cosa, per esempio, è dovuto il destino di Edipo? Alla volontà degli dei, al fatto che egli abbia trasgredito alcuni principi sui quali si regge la società dei nostri tempi (benché da questo io avessi cercato di proteggerlo mediante l'oracolo), oppure semplicemente Edipo è vittima di un caso sfortunato che tu hai evocato con il tuo capriccioso vaticinio?".
La Pizia non rispose, tutt'a un tratto non c'era più, e anche Tiresia era scomparso, e con lui il plumbeo mattino che gravava su Delfi, la quale pure si era inabissata.

lunedì 22 dicembre 2014

Verba volant (152): tregua...

Tregua, sost. f.

Questa parola è arrivata all'italiano dal mondo dei barbari - che forse così barbari non erano; infatti deriva dall'antico tedesco triva, in cui possiamo ritrovare una radice che in tutte le lingue del nord Europa indica fiducia, promessa, come ad esempio nell'inglese true. Infatti per sospendere le ostilità, anche solo per pochi minuti, per il tempo necessario per recuperare i cadaveri dei propri commilitoni o per permettere il soccorso dei feriti, occorre fidarsi, occorre essere certi che il nemico, che fino a pochi minuti prima ti avrebbe ucciso, ora - proprio perché c'è una tregua - non lo farà. E lui deve riporre in te la stessa fiducia.
Tra qualche giorno probabilmente ricorderemo l'anniversario di quell'episodio passato alla storia come tregua di Natale, ossia una serie di "cessate il fuoco", non ufficiali, avvenuti nei giorni attorno al Natale del 1914 in varie zone del fronte occidentale della prima guerra mondiale, durante la quale i soldati inglesi e tedeschi, che solo da alcuni mesi si stavano scontrando gli uni contro gli altri, non solo smisero di combattere, ma fraternizzarono, scambiandosi piccoli regali, mangiando insieme, giocando una partita di pallone e facendosi fotografare in gruppo, come dimostra la foto che apparve qualche giorno dopo, non senza imbarazzo e sconfiggendo la censura belligerante, sulla prima pagina del Daily mirror. Negli anni successivi gli alti comandi di entrambi gli schieramenti impedirono che l'episodio si ripetesse e comunque la durezza dei combattimenti frenò gli stessi soldati a cercare un momento di solidarietà, anche solo di un giorno, con nemici contro cui combattevano, tutti i giorni, con tanto accanimento. In particolare dopo la battaglia della Somme fu complicato anche accordarsi sulle tregue per recuperare morti e feriti; la fiducia ormai era svanita in quelle trincee. La tregua di Natale, per quanto irregolare dal punto di vista formale, si inserì comunque in un contesto bellico che aveva ancora delle regole, conosciute e riconosciute.
Il Novecento è stato un secolo di conflitti internazionali, le due guerre mondiali e la cosiddetta Guerra fredda, con tutti i suoi conflitti locali, dalla Corea al Vietnam. Tutti questi conflitti si sono aperti e chiusi, per ognuno di essi possiamo dire chi ha vinto e chi ha perso. La Guerra fredda non è finita del tutto, anche se uno dei due belligeranti - quello che ha perso - ormai non esiste più. Pochi giorni fa abbiamo assistito al penultimo atto di quel conflitto, con la decisione di Obama di riaprire le relazioni diplomatiche con Cuba e le sue dichiarazioni sull'inefficacia del bloqueo, che però rimane ancora in vigore, visto che difficilmente i repubblicani che controllano il parlamento accetteranno di toglierlo, con il rischio di perdere i voti della potente comunità di origini cubane. Comunque sia, almeno dal punto di vista formale, la dichiarazione del presidente degli Stati Uniti ha chiuso un'era.
Rimane, a ricordarci che c'è stata la Guerra fredda, la vicenda delle due Coree. In quel territorio non si combatte dal 1953, anche se non è mai stata stipulata nessuna pace, perché nessuno dei due contendenti accetta di riconoscere la vittoria dell'altro; c'è una tregua, che dura ormai da sessant'anni. In qualche modo i coreani hanno imparato a fidarsi gli uni degli altri - almeno a convivere - nonostante quello che dicono gli uffici della propaganda di entrambi i governi.
Il nuovo millennio, insieme alle conseguenze delle guerre del secolo passato - così ad esempio, il conflitto tra ebrei e palestinesi per il controllo del territorio ad ovest del Giordano risale a poco meno di un secolo fa, alla mancata risoluzione di quel problema nelle more della pace che chiuse la prima guerra mondiale - ci sta offrendo una guerra di tipo nuovo, che non capiamo, perché non vediamo esattamente quando queste guerre "nuove" cominciano, non sappiamo con precisione chi c'è da una parte e chi dall'altra e soprattutto non riusciamo mai a capire quando finiscono, perché non c'è mai nessuno che vince, e di conseguenza nessuno che perde.
Evidentemente una guerra c'è, perché ogni giorno muoiono gli uomini - e le donne - che la stanno combattendo e perché soprattutto muoiono dei civili: gli studenti della scuola di Peshawar sono solo gli ultimi, almeno per ora.
Non sappiamo molto di più. Il nostro paese è in guerra? Formalmente no, anche perché la Costituzione lo vieta, eppure ci sono nostri soldati dove si sta combattendo e soprattutto ciascuno di noi è il potenziale bersaglio di un attentato terrorista. Cento anni fa era più semplice: c'era il fronte e due trincee contrapposte. Adesso il fronte è ogni città, ogni palazzo, ogni scuola, come ha dimostrato anche l'episodio successo a Sidney pochi giorni fa. Gli Stati Uniti sono in guerra? Credo che una parte dei cittadini di quel paese creda di sì e un'altra parte creda di no; dopo Pearl Harbour gli americani sapevano di essere in guerra, magari potevano essere contrari, ma oggi non sanno neppure se lo sono. Noi combattiamo in Iraq e in Afghanistan, eppure i governi di quei paesi sono nostri alleati. E, a proposito di alleanze, Assad è nostro alleato o nostro nemico?
Ho l'impressione che qualcuno, in mancanza d'altri riferimenti politici e geografici, cerchi di dire che questa è la guerra tra noi e il mondo musulmano. A parte il fatto che io faccio una gran fatica a definire "noi" - se c'è una guerra di religione, io che sono ateo da che parte sto? e un americano musulmano? - mi pare che anche il cosiddetto mondo musulmano non sia quel monolite che i nuovi "crociati" vogliono farci intendere. Il mondo è diventato troppo complesso per ridurlo alle semplificazioni di queste persone, che non brillano certo né per intelligenza né per originalità.
Personalmente, da vecchio marxista, preferisco spiegare questi conflitti utilizzando categorie economiche e l'idea di lotta di classe, anche se probabilmente neppure questo concetto basta da solo a spiegare la complessità di questi tempi. Anche perché i conflitti di classe sono trasversali ai paesi e alle culture e non esiste ancora una tale trasversalità nel nostro fronte, quello degli sfruttati; questo è per noi un grosso problema, anche perché i ricchi e i padroni sono alleati, qualunque sia il loro paese e la loro religione. Ma questa è un'altra storia, che mi porta fuori dalla definizione di oggi.
Gli Stati Uniti, l'Europa, l'Italia la guerra la stanno facendo e non facendo contemporaneamente, una cosa che contrasta con la logica, prima ancora che con la politica. La conseguenza è che una guerra così non si vince e non si perde. Già morire in guerra non è auspicabile, ma morire in una guerra che non c'è suona perfino paradossale. E naturalmente se non c'è guerra, non può esserci una tregua, nemmeno per Natale. I nostri vecchi si riferivano alla seconda guerra mondiale chiamandola l'ultima guerra; era un dato cronologico e soprattutto una speranza. Questa guerra, che stiamo vivendo noi e i nostri figli, potrebbe anch'essa essere definita l'ultima guerra, ma perché non sembra destinata a finire.

mercoledì 17 dicembre 2014

Verba volant (151): naturale...

Naturale, agg. 

Probabilmente avete letto anche voi questa notizia: il Consiglio comunale di Faenza ha approvato a maggioranza - determinanti sono stati i voti di un pezzo del Pd - un documento in cui si definisce appunto naturale la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Una tesi a dir poco bizzarra: non c'è nulla di naturale in un matrimonio, a cominciare dalle bomboniere per finire ai regali improbabili che si trovano nelle liste di nozze.
Vediamo l'etimologia di questa parola. Il termine latino natura è composto dal tema di natus, participio passato del verbo nasci, ossia nascere, e dal suffisso del participio futuro -urus, per cui significa alla lettera, secondo l'ottima interpretazione del Pianigiani, quella che è per generare ovvero la forza che genera. E difatti, secondo natura, per generare un nuovo essere vivente sono necessari, di regola, due esemplari di quella specie: un maschio e una femmina.
Ma la natura si ferma qui. Anzi la natura porterebbe - specialmente noi maschi - ad andarcene dopo aver adempiuto, più o meno efficacemente, al nostro compito riproduttivo, per stare con i nostri amici maschi, andare a caccia o giocare a calcetto. Invece ci sposiamo, non perché sia naturale, ma perché esistono delle regole del vivere civile che ci fanno capire che questa è la scelta migliore, per quanto innaturale. E molti di noi, nonostante le difficoltà e le suocere, sono felici di essere sposati. Fare l'amore è qualcosa di piuttosto naturale, qualcosa che ci viene spontaneo, qualcosa che più o meno tutti riusciamo a fare, invece vivere insieme, costruire una famiglia - che ci sia o meno il vincolo del matrimonio poco importa - è qualcosa di un po' più difficile, meno spontaneo, e infatti non tutti riescono, perché richiede un impegno quotidiano, uno sforzo continuo, una capacità di adattarsi ai tempi e alle idee dell'altra persona, che non è sempre naturale avere. Certo l'amore aiuta a smussare gli spigoli più duri, ma poi interviene la riflessione che - ne converrete con me - non è affatto naturale, specialmente in noi maschi.   
Nel lessico di tutti i giorni noi diciamo appunto costruire una famiglia. Per costruire una casa non basta l'estro, occorre un progetto, è importante avere un'idea, ma poi bisogna saperla tradurre in pratica, perché altrimenti quella casa sarà destinata a cadere. E lo stesso avviene per la famiglia, per costruirla bisogna condividere un progetto e occorre farlo almeno in due. Poi quando ci sono i figli la cosa si complica ulteriormente, perché aumentano le teste da mettere d'accordo. Ma teniamoci alla famiglia più semplice, quella fatta da due persone: un progetto vi pare forse qualcosa di naturale? Ovviamente non lo è, è il frutto di una serie di decisioni, giuste e sbagliate che siano, che ci portano appunto alla costruzione della nostra famiglia.
Se la famiglia quindi è qualcosa di così intrinsecamente innaturale, perché dobbiamo decidere che una famiglia è solo quella formata da un uomo e da una donna? Per generare una nuova creatura continueranno ad essere necessari una donna e un uomo, perché la natura ha deciso così, ma per costruire una famiglia bastano due persone, qualunque sia il loro sesso. E, al di là della natura che continuerà a fare quello che deve fare, è poi in questa famiglia, progetto della vita di due persone, che cresceranno anche i figli.
Il matrimonio è un istituto giuridico che regola una parte della vita delle persone e, come avviene nella società per qualsiasi altro istituto giuridico, è destinato a cambiare, perché cambiano le idee delle persone. Fino a qualche anno fa la consuetudine portava all'idea che un matrimonio potesse essere contratto soltanto tra due persone di sesso diverso, ora molti di noi la pensano diversamente e quindi è naturale - in questo caso l'aggettivo è usato a proposito - cambiare le leggi che regolano questo istituto. Se accettiamo l'idea che tutte le persone abbiano gli stessi diritti ne discende che tutti hanno, tra gli altri, il diritto di costituire una propria famiglia.
Io sono a favore del matrimonio per le persone dello stesso sesso non solo perché credo fermamente che tutte le persone siano uguali e abbiano tutte gli stessi diritti, ma anche perché credo nel matrimonio. Penso che il matrimonio sia un istituto importante, che aiuta le persone a prendersi responsabilità e impegni. Quando diciamo a un'altra persona che le vogliamo bene e che ci prenderemo cura di lei non possiamo dirlo a cuor leggero, è qualcosa di importante. E bello. Perché qualcuno deve esserne escluso solo perché ha deciso di sposare una persona dello stesso sesso?
Tutti hanno il diritto di avere brutte bomboniere.

sabato 13 dicembre 2014

Verba volant (150): anniversario...

Anniversario, sost. m. 

Ormai partecipo con sempre maggiore angoscia al ricordo di questi giorni di dicembre, degli anniversari della strage di piazza Fontana e dell'uccisione di Pinelli. Sarà che il tempo passa e quindi anch'io invecchio come quegli avvenimenti, che si perdono nella memoria delle persone. Ma soprattutto perché mi sembra, ogni anno di più, che "loro" abbiano vinto.
E' stato un colpo, ad esempio, la scoperta che uno come Carminati, un pezzo di quella feccia fascista che allora lo stato usava per mettere le bombe, sia diventato una delle persone più importanti di questo paese, capace di influenzare la politica nazionale, in grado di tenere rapporti con il mondo economico "rispettabile", da pari a pari. E' il segno che quella vigilanza democratica, che ci eravamo ripromessi di tenere dopo la stagione delle bombe neofasciste, si è via via allentata.
Riguardando alle vicende di questi anni poi non posso non notare, con imbarazzo, che alla fine nessuno ha pagato i conti con la giustizia, né per la strage né per l'omicidio di Pinelli. L'unica persona che ha scontato una pena molto dura per i fatti legati a quegli anni di sangue è stato uno che è stato giudicato ingiustamente colpevole del delitto di Luigi Calabresi. Tra molti anni credo che questo paese dovrà essere grato ad Adriano Sofri, non solo per le cose che ha scritto in tutto questo tempo, ma soprattutto per la sua decisione di accettare una pena ingiusta e di viverla fino in fondo, traendone anzi motivo per una rinnovata battaglia culturale e politica a favore dei poveri cristi che marciscono nelle galere italiane. Questa frattura così profonda tra quello che sappiamo - praticamente tutto - su ciò che è avvenuto in quegli anni e quello che la giustizia è riuscita effettivamente ad appurare, con il necessario seguito di condanne, diventa un elemento molto duro da accettare.
Forse riusciremmo ad accettare queste ingiustizie così palesi, se almeno la consapevolezza di quello che è successo ci fosse servita a cambiare la situazione. Invece sento che le cose che abbiamo detto in questi anni non sono servite a nulla, se oggi ci costringono a lottare per diritti che non erano riusciti a toglierci allora. Quest'anno il 12 dicembre molti di noi sono scesi in piazza per difendere  non tanto l'art. 18, che comunque questo governo ha definitivamente abolito, dopo che quelli precedenti lo avevano via via svuotato, ma soprattutto il valore insito nel primo articolo della nostra Costituzione, che è qualcosa di progressista - se proprio vi fa schifo definirlo di sinistra - ossia che il lavoro è l'elemento fondante della democrazia, e quindi della libertà. La strage del 1969 e quelle che sono venute dopo - almeno fino alla strage della stazione di Bologna - hanno rappresentato il tentativo della reazione - poi provo a spiegare cosa intendo con questa parola - di impedire che la Costituzione entrasse finalmente nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. E' del 1970 l'approvazione dello Statuto dei lavoratori, che è stata la risposta democratica alla strage di piazza Fontana. Adesso, dopo 44 anni quello Statuto ha perso molta della sua efficacia, non solo perché è stato abolito l'art. 18, ma perché si è intervenuti su due elementi essenziali, come il demansionamento e il controllo a distanza.
Al di là dei toni spesso molto aspri con cui mi rivolgo al presidente della Repubblica, al governo e al partito di maggioranza, non voglio fare caricature, come troppe volte sento fare e che alla fine servono solo a rinforzare il loro potere, non sempre legittimo. Però devo dire - con altrettanta fermezza - che tutti loro si sono fatti portavoce di quelle stesse forze reazionarie che in quegli anni hanno messo le bombe a Milano, a Brescia, a Bologna.
Come noto, nella spartizione delle sfere di influenza seguita alla fine della seconda guerra mondiale, l'Italia fu "assegnata" agli Stati Uniti. La Democrazia cristiana era il partito che garantiva questo equilibrio internazionale e in maniera naturale i conservatori italiani accettarono di delegare la loro rappresentanza politica a questo partito, che pure aveva caratteristiche anomale rispetto agli altri partiti del popolarismo europeo. E' altrettanto noto che in Italia si organizzò, oltre a questa destra "visibile" e istituzionale, una destra "invisibile", che in diverse occasioni mise sotto tutela le istituzioni, specialmente quando si registravano tentativi di riformare una società che si sarebbe voluta sempre più statica: le stragi, così come l'omicidio di Pier Paolo Pasolini, la connivenza con le Brigate rosse per favorire la morte di Aldo Moro, sono tra le pagine più tristi di questa storia della peggiore destra italiana. In sostanza ogni tentativo di cambiamento, sociale prima che politico, fu immediatamente tarpato da questo potere oscuro. Negli anni Settanta la società italiana stava cambiando, stava diventando più matura, poteva diventare più democratica, ma sono arrivate le bombe.
Adesso quel percorso si è in qualche modo chiuso, perché le forze della reazione - ossia chi ha il potere economico e cerca di mantenere i propri privilegi, quella classe fatta di industriali e di grandi burocrati, di banchieri, di agrari e di rentiers, insomma di conservatori e di ricchi di ogni sorta - hanno avuto la meglio, hanno vinto su tutta la linea. L'ideologia ultraliberista è ormai diventata il comune sentire delle nostre opinioni pubbliche. Quante volte abbiamo sentito dire che la crescita dei mercati azionari è un dato positivo? Certamente è un dato positivo per chi possiede delle azioni, per i padroni di quelle aziende, ma non lo è per chi lavora in quelle stesse imprese. Il mondo si sta sempre più polarizzando tra i pochissimi che hanno molto e i moltissimi che hanno poco e i primi, in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, controllano sempre più direttamente il governo, cercando naturalmente di conservare, e possibilmente di aumentare, le proprie ricchezze e i propri privilegi. Per essere più forti hanno bisogno che saltino alcune delle regole, ad esempio quelle dettate dallo Statuto dei lavoratori; per vincere definitivamente hanno bisogno che il lavoro sia espulso dalla Costituzione. Quando l'attuale presidente del consiglio si inchina di fronte agli imprenditori "eroi" e dice che devono avere il diritto di licenziare, ormai la partita sembra vinta, tanto più perché quel presidente del consiglio è anche il segretario del maggior partito di centrosinistra, ossia di quella forza politica che dovrebbe tutelare proprio i lavoratori. Per questo non hanno più bisogno di chiedere ai fascisti amici di Carminati di mettere le bombe e ai loro servi dei servizi segreti di coprire e di depistare.
Ovviamente non ci arrendiamo - anzi il successo dello sciopero gnerale come quello della manifestazione della Cgil del 25 ottobre scorso ci infondono una qualche rinnovata speranza - però ogni anno, ad ogni anniversario diventa sempre più difficile, non solo perché noi siamo più vecchi, ma perché la memoria pare affievolirsi. Non glielo possiamo permettere.  

martedì 9 dicembre 2014

Verba volant (149): tradizione...

Tradizione, sost. f.

Comincio a scrivere questa definizione nel tardo pomeriggio dell'8 dicembre, dopo aver finito di fare gli addobbi natalizi che, per tradizione, si fanno proprio questo giorno e, altrettanto tradizionalmente, si disfano il giorno della befana. Abbiamo sistemato in giro per la casa palline, stelle, ghirlande e ammenicoli vari, abbiamo montato un piccolo albero di legno e naturalmente ho fatto il presepio. Non mi sembra Natale se non faccio il presepio, piuttosto classico, con moltissime pecore. Come sapete io non credo e quindi per me il presepio non ha un particolare significato religioso, però lo faccio, per Zaira, e perché trovo naturale rispettare questa tradizione.
Il termine latino traditio, -onis significa propriamente consegna e deriva dal verbo tradĕre; è la stessa etimologia della parola tradimento, un uso che deriva peraltro dalla traduzione latina dei vangeli. Ad esempio, in quello di Luca, Gesù dice a Giuda: osculo Filium hominis tradis. La tradizione è dunque la consegna di una serie di valori, in genere da una generazione all'altra; perciò la tradizione è una forma di educazione.
Credo immaginiate perché oggi ho deciso di affrontare questa definizione. Alcuni cretini hanno montato una polemica che ha avuto una qualche eco sui giornali - i cretini evidentemente fanno sempre notizia - perché il preside di una scuola di Bergamo ha chiesto ai suoi insegnanti di valutare se e come fare il presepio a scuola. Non c'è stato nessun divieto, solo il tentativo di riflettere su un tema non semplice, in una realtà - come ce ne sono tante nel nostro paese - in cui i bambini stranieri sono molti, a volte sono di più di quelli italiani. Quando io andavo alle elementari il problema semplicemente non si poneva: era normale fare il presepio, perché tutte le nostre famiglie lo facevano a casa e tutti sapevamo cos'era. Credo che adesso sia davvero un po' più complicato. 
Al di là del folclore di quelli che sono andati davanti alla scuola a consegnare dei presepi - immagino abbiano comprato quelli realizzati dai cinesi, per spendere poco - e a cui non interessa nulla di questa tradizione, ma basta ragranellare qualche voto e una comparsata in televisione, la questione è interessante. Personalmente credo sia sbagliato sia evitare di fare il presepio, per paura di urtare le suscettibilità di qualche famiglia, sia farlo in maniera automatica - come lo facevamo noi - per compiacere il bigottismo di alcune altre. Per i bambini che vengono da altri paesi e che diventeranno un giorno cittadini italiani credo sia utile sapere non solo la storia che il presepio racconta, ossia la storia di una famiglia che ha una vita piuttosto tribolata, fatta di viaggi, di fughe, di povertà - una vicenda forse troppo simile a quella delle loro famiglie - ma anche la storia di come sia nata questa tradizione, che si inserisce in un contesto in cui era naturale rappresentare le storie della vita di questo dio, di cui nella loro classe c'è l'immagine appesa a un crocefisso. Sul presepio c'è tanto da raccontare, anche perché ogni regione ha una propria tradizione, propri personaggi caratteristici, modellati su quelle realtà, sui lavori tipici di quei paesi. Immagino che un bambino di oggi possa vedere cosa fa un falegname solo attraverso una statuina del presepio.
E credo che queste spiegazioni, che naturalmente dovranno essere calibrate in base alle età e alle competenze dei bambini, siano utili non solo agli stranieri, ma forse di più ai nostri. Sta crescendo una generazione per cui il Natale è solo l'ennesima occasione per avere un regalo, in cui non si ha memoria di nulla, in cui si perdono i valori, in cui non si conosce la cultura in cui si è nati. Tutto è omologato e probabilmente i nostri figli potrebbero convincersi che il menù tipico del pranzo di Natale sia hamburger, patatine fritte e Coca-Cola.
I miei, quando ero piccolo, non andavano in chiesa, ma non ricordo una vigilia in cui non si sia mangiato di magro. Quando i miei genitori erano bambini si mangiava sempre di magro, tutti i giorni, perché la carne era un lusso che i miei nonni, sia paterni che materni, non si potevano permettere, e quindi la sera della vigilia, quando si mangiava l'anguilla - piatto tutt'altro che magro per i nostri standard nutrizionali - era una festa. Per loro continuare a mangiare di magro la vigilia, quando ormai la carne poteva essere mangiata tutti i giorni - anzi abbiamo imparato che ne hanno mangiata troppa, con conseguenze sulla loro salute - era un modo per ricordare quei tempi lontani di povertà e in qualche modo per spiegarla anche a me, che fortunatamente, grazie prima di tutto ai loro sforzi e al loro lavoro, non ho dovuto provarla. E io la vigilia continuo a mangiare di magro, per essere fedele a questo insegnamento, a questa tradizione. E, se ne avessi avuto l'opportunità, l'avrei spiegato in questo modo a mio figlio o mia figlia.
Al di là del fatto che si faccia o meno il presepio, al di là del fatto che si creda o non si creda che quel bambino sia il figlio di dio, c'è un'etica della festa, e quindi un'etica del lavoro, con tutto quello che ne consegue, che i nostri bambini - tutti i nostri bambini, ovunque loro siano nati - dovrebbero imparare. Spero che un insegnante che prova a fare con coscienza il proprio lavoro - che è sempre più difficile - riesca a insegnarglielo. Immagino farebbe un po' meno fatica se qualcuno la smettesse di sbraitare e soprattutto se li mettesimo in condizione di farlo.

lunedì 8 dicembre 2014

Verba volant (148): mela...

Mela, sost. f. 

Mèlon in greco antico significa frutto e quindi i pomi d'oro del giardino delle Esperidi - che furono la causa scatenante della guerra di Troia - non è detto che fossero proprio mele e forse non era proprio una mela quella che il serpente offrì ad Eva, con le conseguenze che sappiamo. La mela, anche per questa antica ambiguità semantica, è il frutto per antonomasia, quello che Guglielmo Tell riesce a colpire sulla testa del figlio e quello che, cadendo sulla testa di Isaac Newton, è alla base della scienza moderna; per tacere della mela di Cupertino. Vedete che di mele potrei parlare per ore - anche perché una mela al giorno... - ma in questo momento mi interessa una mela un po' particolare, di cui si parla spesso: la mela marcia.
In questo paese siamo convinti che, individuata in una cassetta la mela marcia - che il fruttivendolo aveva furbescamente ruotato per non farci vedere questo piccolo difetto - e gettatala via, potremo tranquillamente mangiare il resto delle mele. La storia più recente del nostro paese è in fondo questo continuo scoprire delle mele marce. Anche a proposito dell'ultimo scandalo che occupa le cronache - ossia la scoperta della cosiddetta Mafia capitale - c'è qualcuno che ha parlato di mele marce, sperando così di salvarsi la coscienza. Ho l'impressione che stavolta sarebbe meglio gettare tutta la cassetta, e magari cambiare definitivamente fruttivendolo. Vediamo un po' perché.
Uno dei protagonisti di questa vicenda è un tal Massimo Carminati, un fascista, già noto alla giustizia. In questi giorni un po' tutti i mezzi di informazione hanno "scoperto" che Carminati era un fascista, un terrorista nero, chiamandolo proprio così. Mi fa piacere: io quelli della sua risma li ho sempre definiti fascisti, anche se spesso i benpensanti storcevano il naso quando usavo questa parola. Quante volte mi sono sentito ripetere: usi ancora quella parola? come sei antico, sei proprio legato a vecchi schemi del Novecento; il fascismo non esiste così, e caz..te del genere. E così, a forza di minimizzare, a forza di dire che i fascisti non c'erano più, abbiamo abbassato la guardia e adesso i fascisti ce li ritroviamo tra i piedi, con gli interessi.
A fianco di Carminati c'è un tal Salvatore Buzzi che viene invece dalla sinistra estrema, anche lui passato per la galera. Questo Buzzi è importante perché a capo delle attività "legali" del gruppo, come dirigente di una cooperativa di ex-detenuti. A me interessa relativamente sapere con chi questo Buzzi abbia pranzato e cenato, ma vorrei chiedere a qualche amico cooperatore se a loro sembrava normale che una cooperativa sociale di tipo B - e che impiega ex-detenuti - fosse arrivata a fatturare 60 milioni di euro. Per lo più le cooperative di questo tipo e con queste caratteristiche galleggiano, invece quella di Buzzi prosperava. Agli amici della Legacoop non è mai venuto un dubbio? O magari a loro bastavano quelle cifre, perché facevano aumentare le statistiche, dimostravano un fatturato florido, davano lustro al sistema cooperativo. Forse anche in questo caso abbiamo abbassato la guardia, perché abbiamo cominciato a considerare le cooperative non per gli scopi per cui sono nate, ossia uno strumento per chi lavora di avere in mano il proprio futuro e un modello per la società di un modo diverso di essere impresa, ma come aziende sostanzialmente uguali alle altre, magari meno controllate e certamente meno tassate. Non è per questo che la cooperazione è nata e per cui tanti si sono battuti. Se la forza di una cooperativa la si misura solo in base al fatturato che produce, allora ha ragione Buzzi, è meglio rimetterlo in libertà, con tante scuse.
Poi questa vicenda dovrebbe farci riflettere su alcuni altri punti. Tutti maleodoranti.
Da anni quelli che capiscono ci stanno spiegando, fino allo sfinimento, che lo Stato non è in grado di gestire i servizi, che la gestione pubblica è foriera di sprechi e di ruberie, e quindi che il privato è la soluzione salvifica di tutti i mali. Evidentemente non è così, anzi proprio nel sistema, sempre più ramificato, della gestione degli appalti e dei subappalti dei servizi si è annidata una fauna di grassatori che ha lucrato, a spese della colletività. In questi anni la spesa pubblica è aumentata, mentre sono diminuiti sia la spesa per il personale - noi dipendenti pubblici siamo sempre meno e sempre meno pagati - sia i servizi offerti ai cittadini: qualcosa non torna. Questo sistema ha creato un plusvalore notevole, ed è abbastanza chiaro dove siano andati a finire tutti quei soldi: non certo ai lavoratori delle imprese e delle cooperative - anche quelle oneste - spesso sfruttati e con paghe risibili; gli utili sono finiti tutti nelle tasche di chi ha gestito quei servizi, anche quando non si tratta di delinquenti, come nel caso romano. E' tutto questo sistema che è stato costruito solo per arricchire alcuni, a discapito dei cittadini e dei lavoratori.
Alcuni, anche piuttosto rumorosamente, chiedono le dimissioni del sindaco Marino. Per anni abbiamo discusso sulla necessità di separare il ruolo dei politici da quello dei tecnici. E così ad esempio in tutti i Comuni italiani - compreso quello di Roma - è il Segretario generale responsabile di redigere il Piano triennale di prevenzione della corruzione e di verificarne la piena attuazione - me l'ha ricordato la mia amica Lea, che fa il Segretario generale. Si tratta naturalmente di una norma barocca ed inutile, che infatti non ha bloccato nessuna attività illecita, ma ha soltanto reso più complicato portare avanti l'ordinaria amministrazione di un ente locale. Oggi però nessuno chiede le dimissioni del Segretario generale del Comune di Roma, che evidentemente non è stato proprio così vigile. La risposta per combattere il verminaio deve venire dalla politica, anche se questa risposta deve essere qualcosa di più radicale rispetto a un rimpasto di giunta o alla nomina di un assessore alla trasparenza, uno in più da mettere a libro-paga per gli amici degli amici.
Personalmente non ho particolare simpatia per Marino - è uno del Pd e a me quelli del Pd non stanno particolarmente simpatici, a prescindere - però Marino è uno dei pochi che le elezioni le ha vinte e quindi governa in maniera legittima. Io credo che dalla crisi in cui si è infilato il nostro paese si debba uscire attraverso una riaffermazione della democrazia - che invece Napolitano e Renzi stanno sistematicamente riducendo - e quindi credo che costringere alle dimissioni Marino sia un atto che comprime ulteriormente la democrazia e per questo sono contrario. Non è un caso che prima che scoppiasse questo caso, fosse proprio Renzi - attraverso i suoi guardiaspalle e i suoi tirapiedi - a chiedere le dimissioni del sindaco di Roma, perché il suo obiettivo - o meglio l'obiettivo di quelli che lo usano come un fantoccio - è quello di accentrare il potere sull'esecutivo, a scapito del parlamento e delle autonomie locali. Adesso evidentemente Marino serve a prendersi gli strali dell'opinione pubblica, e quindi viva Marino.
Però il problema è capire chi sceglie chi. Marino è un'invenzione che si è imposta grazie alla sua notorietà, peraltro acquisita in un campo molto diverso dalla politica. Gli altri chi li sceglie? In un partito vero - quelli che c'erano una volta - non si arrivava improvisamente in segreteria nazionale, era un percorso lungo - spesso troppo lungo e logorante - ma che aveva una sua logica. Il problema è che una come Micaela Campana sia in parlamento e nella segreteria nazionale del partito di maggioranza, senza aver fatto un minimo di gavetta, senza che nessuno la conosca; e quindi è naturale che mandi sms più o meno affettuosi a quelli che l'hanno sostenuta, che in questo caso purtroppo sono delinquenti. In altri casi possono non essere delinquenti, ma rappresentare interessi particolari, che poco o nulla hanno a che fare con il partito. Il problema è capire, dopo aver distrutto il partito, attraverso quali meccanismi si seleziona un gruppo dirigente: in alcuni casi è mera fortuna, l'essere al posto giusto al momento giusto o magari avere gli occhi blu, in altri casi il percorso è più opaco. Adesso Renzi e i renziadi scoprono che a Roma non c'è più un partito e si lamentano; e mandano il prode commissario. Signori, siete voi - compreso il commissario - che l'avete smantellato, adesso è un po' tardi per lamentarsi.
Proviamo a non far finta, anche stavolta, che sia sola una mela marcia.

giovedì 4 dicembre 2014

Verba volant (147): giustizia...


Giustizia, sost. f.

Per definire questa parola, ho deciso di raccontarvi una storia, una storia di ingiustizia.
Sono passati trent'anni dal più grave disastro industriale della storia, avvenuto la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984 a Bhopal, una città dell'India centrale: è un anniversario passato, purtroppo, sotto silenzio.
Quella notte, per un guasto di un impianto, da una fabbrica di pesticidi di proprietà della multinazionale americana Union Carbide si sviluppò una nube di isocianato di metile. Le 40 tonnellate di gas uccisero immediatamente quasi quattromila persone, mentre altre 15mila sono morte nei mesi successivi, a seguito delle conseguenze della fuga di gas. Si calcola che si siano ammalate, di gravi patologie polmonari e oculari, circa 500mila persone. La cosa ancora più drammatica e vergognosa è che a Bhopal si continua a morire per le conseguenze di quell'incidente, avvenuto trent'anni fa. Lo stabilimento non è stato ripulito, l'area non è stata bonificata, sono state abbandonate là centinaia di tonnellate di scorie tossiche, l'esposizione alle quali provoca ogni mese dalle dieci alle trenta morti. Le falde sono inquinate, con un danno gravissimo alla salute delle persone - sono frequenti infatti le anomalie genetiche - e alla crescita economica di quella città, che è una delle più povere del paese.
Le uniche persone ritenute responsabili del disastro sono stati otto dirigenti indiani della Union Carbide, giudicati colpevoli di omicidio colposo da un tribunale di Bhopal nel 2010; sono stati condannati a scontare due anni di carcere e a pagare 100.000 rupie di multa (circa 2.000 dollari). Sono stati tutti liberati, dopo il pagamento di una cauzione. Le indagini hanno dimostrato che non sono state applicate diverse misure di sicurezza: non vennero utilizzati i deflettori che avrebbero potuto impedire l'infiltrazione dell'acqua, i refrigeratori e le torri antincendio non funzionavano. Inoltre i medici non furono tempestivamente informati sulla natura del gas, rendendo più complicati i primi soccorsi.
La Union Carbide, a titolo di risarcimento, ha versato 2.000 dollari alle famiglie delle vittime e 550 dollari per i feriti, per un totale di 470 milioni di dollari e con questo si è tacitata la coscienza. Nel 2001 la Dow Chemical, la seconda più grande produttrice chimica al mondo, ha acquistato per 11 miliardi e 600 milioni di dollari la Union Carbide e da allora non c'è più un responsabile del disastro. Warren Anderson, che all'epoca del disastro era l'amministratore delegato della Union Carbide, è vissuto, fino al 29 settembre di quest'anno, con i lauti proventi della sua buona uscita negli Stati Uniti, nonostante su di lui pendesse un mandato di arresto internazionale per omicidio colposo, che nessuno ha eseguito perché il governo indiano, per timore di spaventare gli investitori internazionali, non ha mai chiesto la sua estradizione al governo degli Stati Uniti (e naturalmente il governo americano non avrebbe mai arrestato un proprio cittadino per un reato commesso in India).
La Dow Chemical non prende neppure in considerazione di ripulire l'area contaminata, perché quanto avvenuto a Bhopal non è una propria responsabilità. La stessa azienda nel 2002 ha accantonato la somma di 2 miliardi e 200 milioni di dollari - quasi cinque volte quello speso per i risarcimenti di Bhopal - per affrontare le possibili richieste di risarcimento di tribunali statunitensi in cause per i danni provocati dall'amianto prodotto dalla Union Carbide: evidentemente i cittadini statunitensi valgono molto di più di quelli indiani, alla faccia di qualunque principio sull'uguaglianza degli uomini.
Pianigiani, nel suo dizionario etimologico, definisce la giustizia come "ciò che è giusto e dovuto altrui" e spiega che deriva dal latino jus, in cui si riconosce la radice yu, yug, che indica un legame, da cui anche il termine agricolo giogo. C'è un legame tragico tra la fabbrica e i suoi padroni e quelle famiglie e c'è un obbligo dei primi a risarcire le seconde, un obbligo però che sappiamo disatteso.
Di fronte a un'ingiustizia così plateale noi possiamo far finta di niente, pensare che in fondo sia qualcosa che non ci riguarda; oppure possiamo decidere che è qualcosa che ci riguarda. E quindi dobbiamo ricordare; e arrabbiarci; e lottare. E dobbiamo credere che un giorno ci sarà la giustizia, su questa terra. E fare tutto quello che è in nostro potere affinché quel giorno arrivi, il prima possibile.

mercoledì 3 dicembre 2014

Verba volant (146): pudore...

Pudore, sost. m.

Oggi sorridiamo a rileggere alcune delle parole che fino a pochi anni fa era proibito pronunciare durante una trasmissione della Rai: non si poteva dire amante, parto, vizio, verginità, talamo, alcova, amplesso ed erano assolutamente vietate anche espressioni, apparentemente innocenti, come membro del parlamento o in seno alla commissione. Era un'Italia bacchettona e moralista che non abbiamo motivi per rimpiangere, così come non rimpiangiamo gli esponenti di quella Dc, benché i loro epigoni - che oggi occupano posizioni di vertice in praticamente tutti i partiti dell'arco costituzionale - siano ben peggio di loro. E' cambiato il comune senso del pudore e probabilmente cambierà ancora, anche se è difficile immaginare una società dove le rappresentazioni del sesso siano più pervasive della nostra. 
Proprio perché ormai manca ogni senso del pudore, è sempre più faticoso guardare un telegiornale. Io ne guardo pochissimi, evito quelli che si dedicano esclusivamente alla cronaca e - come mi è già capitato di scrivere - non guardo un programma di cosiddetto approfondimento o un talk show da almeno quindici anni. Non è snobismo televisivo, perché la televisione la guardo e probabilmente guardo più trash-tv rispetto a voi: so esattamente quanti coltelli prevede l'offerta dello chef Tony, non mi perdo una replica di Man vs food e individuo al primo colpo gli autori dei quadri di Telemarket. E, se Zaira non è in casa, guardo anche i programmi sulla pesca sportiva, benché non sia mai andato a pescare in vita mia.
Però c'è una pornografia dell'informazione che detesto. Ricorderete che alcune settimane fa c'è stato un brutale attentato in una sinagoga di Gerusalemme: due terroristi hanno ucciso con i loro coltelli quattro rabbini e un poliziotto. Ci sarebbero state molte cose da raccontare su quell'episodio - anche senza voler approfondire le complesse vicende di quei popoli in guerra - proprio a partire dal modo scelto dagli attentatori per effettuare quella strage, un modo primitivo, barbaro, selvaggio. Su questo un giornalista serio avrebbe dovuto riflettere: le parole servono a questo, anche a raccontare l'orrore. Invece abbiamo ascoltato delle banalità mentre passavano sullo schermo le immagini, inquadrate in maniera morbosa ed insistente, del sangue delle vittime, in pozze, scie, gocce. E non una parola per spiegare perché quel sangue.
Che utilità ha, per completare l'informazione su questo recentissimo fatto di cronaca che ci ha colpito tutti, la foto degli slip del piccolo Loris, lasciati in un angolo di strada, che pure troviamo anche adesso sui principali siti on line? Capisco bene che quell'indumento sia una traccia, anche perché è apparsa solo adesso, a quattro giorni dalla scomparsa del bambino, ma ci sono le parole per raccontare questa storia, quell'immagine è inutilmente volgare. E credo che ciascuno di noi potrebbe portare degli esempi che l'hanno maggiormente colpito e disgustato.
Questa parola deriva dal latino, viene dal verbo difettivo pudere, che significa aver vergogna, anche se il suo significato originario era quello di non aver coraggio, mancare di ardimento, perché chi è pavido - ritorna la stessa radice - prova vergogna. Ovviamente non voglio discutere l'autorità etimologica del Pianigiani e capisco che questa sua definizione è sicuramente esatta, però vorrei per una volta ribaltare questa interpretazione. Bisogna trovare il coraggio di aver pudore, perché non si possono usare tutte le parole, in tutte le circostanze, solo perché siamo liberi di farlo. Non si può far vedere tutto, solo perché si è liberi di farlo o proprio trincerandosi dietro la libertà dell'informazione. Certo tu giornalista che indugi sul sangue del morto sei libero di esercitare il tuo diritto di cronaca, devi essere libero di farlo, ma dove va a finire la mia libertà? Noi a casa siamo costretti a vedere quel sangue, che non mi racconta nulla di più. Davvero in questo caso la mia libertà finisce quando comincia la tua.
E non è vero che le immagini siano necessarie a creare sdegno, a creare empatia verso le vittime. Quando leggi Niente di nuovo sul fronte occidentale impari ad odiare la guerra, senza vedere il sangue, senza vedere i cadaveri. E' la forza delle parole, è la forza della verità.
Diciamo le cose come stanno: queste immagini servono solo a solleticare la parte peggiore di noi, la nostra curiosità morbosa, il nostro voyerismo. Quando ero bambino i miei nonni avevano l'edicola, dove io passavo parecchio tempo, specialmente d'estate e dove - più grandicello - li aiutavo. Non so se sia ancora in vendita Cronaca vera, un settimanale laido, stampato in bianco e nero su una brutta carta, che aveva in copertina - sempre in bianco e nero - una donna seminuda e un titolo a grandi caratteri su un caso di cronaca efferata. Gli articoli di Cronaca vera erano un grondare di sangue, una serie ininterrotta di delitti spesso passionali, per lo più legati a vicende di sesso. Ricordo che raccontò anche il suicidio di mio zio, usando le iniziali, ed esasperando le circostanze di quell'episodio, mentendo in buona sostanza. Era un giornale che si vendeva naturalmente, anche se le persone un po' si vergognavano quando lo chiedevano. Probabilmente quegli articoli, letti adesso, risulterebbero meno pruriginosi, visto quello che c'è in televisione e nella rete. Per dire comunque che questa morbosità non è figlia della rete, c'è sempre stata, anche se l'anonimato di queste tecnologie la esasperano, oltre limiti accettabili. Non si tratta di cronaca, ma solo di un mezzo per vendere i giornali o, adesso, per far crescere gli ascolti. 
Un altro etimologista, il francese Delàtre, connette il verbo pudere al greco antico paidè, che significa infanzia, perché si tratta appunto di un sentimento naturale che nasce nel bambino, prima di diventare adolescente. Temo che i nostri figli non abbiano la fortuna di provare questo sentimento di pudore. Non glielo stiamo insegnando.

lunedì 1 dicembre 2014

Verba volant (145): fiducia...

Fiducia, sost. f.

I lettori e le lettrici di Verba volant sanno che spesso io scelgo le parole da definire a seconda di quanto suggerito dall'attualità. Molti di voi mi hanno segnalato delle parole, che prima o poi tratterò, perché questo dizionario spero andrà avanti ancora per parecchio tempo, almeno fino a quando ci divertiremo, io a scriverlo e voi a leggerlo.
Fiducia non è propriamente un vocabolo d'attualità, anche se l'idea che questa parola definisce e racconta torna spesso nelle cronache di questi giorni. Francamente non possiamo più giudicare di attualità il fatto che il governo abbia richiesto l'ennesimo voto di fiducia: immagino che tra il tempo in cui io scrivo questa definizione e voi la leggerete sarà già aumentato il numero di volte in cui sono ricorsi a questa prassi, che dovrebbe avere carattere straordinario. Al di là del fatto che questo uso smodato e anticostituzionale del voto di fiducia ha segnato di fatto la più importante riforma istituzionale del nostro paese - fatta, anche se non dichiarata - ossia la trasformazione dell'Italia da repubblica parlamentare a repubblica semipresindenziale, è paradossale come proprio questo ricorso insistito alla fiducia renda evidente quanta poca fiducia ci sia sul mercato. Proprio perché Renzi non si fida - ampiamente ricambiato - dei parlamentari del suo stesso partito, ad ogni pie' sospinto chiede la fiducia.
A me però interessa poco questa fiducia "romana", ma vorrei farvi notare quanta poca fiducia ci sia in giro. Siamo noi che non ci fidiamo, spesso a ragione, a volte forse per una cresciuta forma di disillusione.
Non ci fidiamo di chi ci governa o di chi vorrebbe farlo e infatti siamo sempre più restii ad andare a votare, come hanno testimoniato - in maniera plateale e, a suo modo, drammatica - anche le ultime elezioni regionali. Certamente qui in Emilia-Romagna ha pesato in molti la voglia di dare un segnale alla "nuova" classe dirigente che ha occupato manu militari il partito un tempo maggioritario nella nostra regione, ma questa disillusione ha interessato e coinvolto tutte le forze politiche. Io - come una parte di voi - sono abbastanza vecchio per ricordarmi cosa successe nel 1999 a Bologna: una parte rilevante degli elettori del partito che allora si chiamava Ds decise di astenersi, per manifestare in questo modo la propria sfiducia verso chi fino ad allora aveva governato la città. E come noto vinse Guazzaloca, che non sfondò a sinistra, ma semplicemente portò a votare tutta la destra, da quella presentabile a quella impresentabile. A queste regionali invece la sfiducia è stata generalizzata, spalmata su tutti i partiti - vecchi, nuovi e nuovissimi  - e credo si tratti di un segnale ancora più grave, perché questa fiducia è difficile da ricostruire.
Non ci fidiamo dei medici. Forse i dodici vecchi che sono morti dopo aver fatto il vaccino antinfluenzale sarebbero morti comunque, però non ci crediamo, anche perché chi ha - o ha avuto - in casa una persona anziana sa che troppo spesso i loro sintomi sono sottovalutati, a loro le cure vengono somministrate in maniera un po' generica, abbiamo l'impressione in sostanza che i medici investano poco nella cura dei loro pazienti più anziani. Proprio oggi ho visto l'ennesima intervista a un medico di base che invitava i telespettatori anziani a vaccinarsi, spiegando che se non lo avessero fatto nelle prossime settimane ci sarebbero stati più casi di influenza e quindi i medici sarebbero stati costretti a lavorare di più. Al dottore è sfuggita una frase infelice, che però racconta bene del difficile rapporto che abbiamo noi con i medici, che immaginiamo sempre prezzolati dalle case farmaceutiche. Con una qualche ragione.
Non ci fidiamo in sostanza - non solo dei medici, ma di tutti quelli a cui siamo costretti a chiedere qualcosa, dall'idraulico al commercialista - anche perché ci capita sempre più spesso di trovarci davanti a persone incompetenti e che fanno male il loro lavoro, un po' per dolo e soprattutto perché non lo sanno proprio fare.
Non ci fidiamo di quello che è scritto nelle etichette, anche perché spesso i prodotti che ci vendono sono adulterati. A volte forse non dovremmo fidarci neppure di chi ci dà dei soldi, almeno non avrebbe dovuto fidarsi quel signore tedesco a cui è stata rifilita una banconota da 300 euro, prodotta in una "zecca" napoletana.
Non ci fidiamo di chi fa beneficienza e di chi ci chiede un po' dei nostri soldi per aiutare gli altri, perché pensiamo che forse quei soldi, i nostri soldi, verranno usati male, verranno sprecati. Verranno rubati in buon sostanza e così, nel dubbio, non diamo nulla.
Il termine latino fiducia deriva dal verbo fidere, ossia aver fede. E c'è qualcosa di sacro in questo verbo, che condivide la radice dell'antico sanscrito che significa conoscere. Noi ci fidiamo di chi conosciamo. E proprio perché conosciamo sempre meno le altre persone, non ci fidiamo di loro. O forse non ci fidiamo degli altri perché conosciamo troppo bene noi stessi e temiamo che gli altri facciano a noi quello che noi saremmo pronti a fare a loro. 
Oggi però non riesco a non pensare al fatto che forse il piccolo Loris ha avuto fiducia di una persona che conosceva, l'ha seguita quando questi gli ha proposto di andare a fare un giro, invece di andare a scuola, magari gli ha detto che era stato mandato dalla madre a prenderlo. Loris si è fidato e oggi è morto. Mi dispiace pensare a un mondo in cui i bambini non si possano fidare, nella loro ingenuità, degli altri.
Il protagonista di Miracolo a Milano sogna un mondo dove "buongiorno voglia davvero dire buongiorno". Noi questo sogno lo abbiamo abbandonato da un pezzo; se mai lo abbiamo avuto.