domenica 31 agosto 2014

Verba volant (115): personaggio...

Personaggio, sost. m.

Questa parola ha una storia etimologica molto interessante. Personaggio deriva infatti da persona. Gli antichi romani usavano questa parola per indicare la maschera di legno indossata sempre in scena dagli attori nelle tragedie e nelle commedie, sia greche che latine. Persona deriva infatti dal verbo per-sonare, ossia risuonare a traverso, perché la bocca era realizzata in modo tale da amplificare il suono della voce, una cosa indispensabile vista la maestosità dei teatri antichi e la necessità di raggiungere anche le ultime file del pubblico, dove si assiepavano i poveri.
Le maschere inoltre, con i tratti del viso enfatizzati, quasi come in una caricatura, servivano a far capire immediatamente al pubblico il carattere del personaggio sulla scena: lo sciocco, il vecchio avaro, l’innamorato e così via. Il significato attuale di persona ragguardevole e di prestigio, degna di ammirazione e di stima, deriva comunque dal francese personnage.
Mi pare che uno dei segni più evidenti del declino, temo ormai inesorabile, della nostra società sia proprio il fatto che non esiste più alcun criterio per definire chi sia un personaggio e chi non lo sia, chi sia tale perché degno della nostra stima e chi no.
Schettino è un personaggio? No, almeno non dovrebbe esserlo. È una persona coinvolta in una tragedia, in cui sono morte molte persone, e la giustizia dovrà decidere con che grado di responsabilità. Ovviamente Schettino ha tutto il diritto di raccontare la sua versione della storia, di difendersi da un’accusa così pesante; fino a quando la sentenza non sarà emessa ha anche il diritto di andare in giro, perfino di partecipare a delle feste, se qualche suo amico lo invita o di andare a fare un giro in barca. Non credo però sia un nostro diritto essere costantemente informati sui suoi spostamenti, sapere dov’è e con chi è; e quindi non è un dovere dell’informazione darci queste notizie.
Il problema infatti non è Schettino, ma le persone che vogliono essere dove c’è lui, che hanno l’ambizione di farsi una foto con lui, che si vantano di averlo conosciuto, che lo considerano appunto un personaggio. O peggio quell’insegnante dell’università di Roma che lo ha voluto invitare al suo corso, immagino proprio in ragione del suo essere un personaggio; e temo che a quella lezione ci siano andati più studenti del solito proprio perché era stato invitato quel personaggio e non uno sconosciuto pompiere, che credo avrebbe potuto parlare del tema della gestione del panico con maggior competenza.
Il tema è proprio questo. Oggi si diventa un personaggio indipendentemente da qualsiasi talento, da qualsiasi capacità, anzi pare che a volte saper fare qualcosa sia considerato un limite. Basta essere il fratello di…, la fidanzata di…, il compagno di banco di… per poter assurgere al rango di personaggio, per poter diventare l’ospite di un reality o di una qualsiasi trasmissione televisiva, per poter essere conosciuto e riconosciuto, alimentando in questo modo questa forma malata e perversa di notorietà. Un perfetto sconosciuto, senza alcun merito, indossa la sua maschera di legno e se ne sta fermo li, senza muoversi e senza parlare. E scrosciano gli applausi del pubblico, dalle prime alle ultime file.
Non so se Schettino abbia una figlia, ma se l’avesse potrebbe benissimo anche lei diventare un personaggio, fare qualche comparsata televisiva, diventare ospite fissa del circo dei talk show, presentandosi dapprima proprio come la figlia di Schettino, e quindi godere dei selfie degli ammiratori, che in pochissimo tempo non ricorderebbero neppure più il motivo per cui è diventata un personaggio; è lì in televisione e tanto basta. Sarebbe in breve un personaggio in sé, e poi magari ci sarà qualcuno che inviterà Schettino non in quanto Schettino, ma in quanto padre della figlia di Schettino, perché ormai ci saremo dimenticati del disastro della Concordia, che ha perso ogni interesse, dopo il viaggio avventuroso fino al porto di demolizione. E così via, in un declino senza fine.
E così sono diventati personaggi tutte queste mezze figure, persone senza arte né parte, vere teste di legno, per tornare alla nostra etimologia. E insieme a questi ci sono i criminali più o meno comuni. Perché il delitto è l’altro modo sicuro per diventare un personaggio, anzi più efferato è il crimine più il criminale può sperare di essere ospitato nelle trasmissioni con maggior audience e quindi finalmente assurgere all’empireo dei personaggi. È un personaggio Annamaria Franzoni? No, ovviamente, anzi, al di là della pena, su cui devono decidere altri, l’unica cosa a cui tutti noi la dovremmo condannare - anche se è detto che sia una condanna - è l’oblio. Esattamente il contrario di quello che avviene adesso.
La nostra società purtroppo non sa più cosa sia l’oblio; e ormai non sa più per cosa valga la pena essere ricordati.
E l’orchestra continua a suonare, senza neppure la consapevolezza che il Titanic sta affondando.

mercoledì 27 agosto 2014

Verba volant (114): ghiaccio...

Ghiaccio, sost. m.

Mi sono imbattuto in rete nel video del signor Ernesto del quarto piano che, nel bel mezzo del cortile davanti ai garage, si getta addosso una catinella di acqua ghiacciata. Compiuta l’impresa, il signor Ernesto guarda soddisfatto in camera ed esclama, con tono enfatico:
spero che il mio gesto serva alla ricerca contro questa brutta malattia.
No, signor Ernesto, il suo gesto non servirà affatto alla ricerca contro la Sla - ammesso che lei sappia davvero di cosa si tratta - al massimo rafforzerà la pessima opinione che gli altri condomini hanno di lei. Sarebbe stata molto più utile una donazione di 5 euro, ma dubito che il signor Ernesto l’abbia fatta, vista la sua scarsa propensione a mettere mano al portafoglio, come possono testimoniare, anche in questo caso, tutti gli altri condomini. Devo dire che il caso del signor Ernesto non è isolato, perché noi italiani, evidentemente poco avvezzi all’uso della lingua inglese, non abbiamo capito molto bene come funziona la ice bucket challenge. Scopo dell’iniziativa è quello di raccogliere fondi, cosa che negli Stati Uniti sta riuscendo abbastanza bene. Chi ha ideato il gioco sostanzialmente sfida ciascuno di noi, facendoci questa domanda:
preferisci fare una donazione o gettarti addosso un secchio di acqua ghiacciata?
Dal momento che gettarsi addosso l’acqua ghiacciata non è piacevole, nemmeno in estate, si suppone che, per evitare questo sacrificio, uno faccia più volentieri una donazione. In Italia no, tutti hanno deciso che basta gettarsi addosso l’acqua ghiacciata e, in questo modo, senza pagar dazio, abbiamo dato il nostro contributo alla causa.
La stragrande maggioranza di noi ha questa unica possibilità per aiutare la ricerca: mettere fuori un po’ di soldi, rinunciando magari a qualcosa di superfluo. Ovviamente ci sono persone - e tra queste non c’è sicuramente il mio condomino - che fanno notizia se si gettano addosso il secchio di acqua ghiacciata e quindi contribuiscono anche in questo modo a sostenere la ricerca contro la Sla. Io ad esempio sono stato molto colpito dal fatto che abbia aderito il mio idolo di sempre: Kermit. So bene che è quasi impossibile capire dove comincia laspontanea voglia di sostenere una causa a cui si crede e la ricerca esasperata - e paracula - di pubblicità, ma chiudiamo un occhio e facciamo finta che tutte le persone che in questi giorni si sono sottoposte a questa pratica poco igienica per la loro salute lo abbiano fatto animate dalle migliori intenzioni. Ringraziamoli quindi.
Tra i personaggi noti ci sono molti sportivi e questo è un bene, perché per i ragazzi i campioni dello sport sono le persone da imitare, nel bene come nel male. In questo caso particolare c’è però da fare una riflessione in più. Sono molti gli sportivi colpiti da Sla, in Italia in particolare diversi calciatori, tanto da far nascere il sospetto che ci possa essere una qualche relazione tra questa malattia e il doping. Io ovviamente non so se questo sia vero, ma credo che gli sportivi e chi dirige il mondo dello sport non dovrebbe limitarsi alla secchiata d’acqua ghiacciata, ma dovrebbe anche un po’ chiarirsi le idee. Forse queste docce gelate dovrebbero servire ai dirigenti sportivi per capire che sarebbe ora di darci un taglio con l’esasperazione della vittoria e della prestazione. Ma temo non sia così, visto ad esempio che la nostra Federcalcio ha appena assunto un nuovo commissario tecnico che ha detto che l’importante è solo vincere, con buona pace dello spirito olimpico.
Ci sono poi pochissime persone che possono contribuire anche in un altro modo alla ricerca. E si tratta di chi ha responsabilità di governo. Negli Stati Uniti tra chi ha deciso di accettare la sfida della secchiata c’è stato anche Bush, il secondo, quello un po’ meno intelligente della famiglia. Encomiabile la decisione dell’ex-presidente che ha deciso di metterci la faccia; peraltro è stata la prima volta che ho visto un lampo di soddisfazione sincera negli occhi di Laura quando getta con forza l’acqua contro il marito. Bisogna anche ricordare però che negli otto lunghissimi anni della sua presidenza, Bush ha impedito qualsiasi ricerca sulle cellule staminali, per non scontentare i fondamentalisti cristiani che erano parte essenziale del suo elettorato. Non è stata la cosa peggiore fatta da quel pessimo presidente, ma certo la sua azione concreta non ha aiutato la ricerca scientifica, indipendentemente da quanta acqua si possa gettare ora addosso.
Ovviamente anche il nostro Renzie si è gettato addosso la sua secchiata d’acqua ghiacciata, accettando la sfida di Fiorello, che era stato sfidato dalla Pausini, che era stata sfidata da Jovanotti, che era stato sfidato dal topo che al mercato mia padre mio comprò. Al di là del folklore con cui il nostro purtroppo presidente del consiglio fa ogni cosa, la sua azione di governo favorisce la ricerca scientifica? Non mi pare. La sua ministra è adeguata al compito? Non mi pare, e non mi riferisco ovviamente alle sue “misure”, di cui pure ci siamo occupati in questa anomala estate. Impegnamo in questo settore cifre ridicolmente basse e i nostri contributi privati - quando li diamo - non possono ovviamente supplire carenze storiche, per cui l’Italia è, da sempre, agli ultimi posti nelle classifiche sugli investimenti in ricerca.
Quindi, proviamo a fare qualcosa di utile, meno ghiaccio e più soldi - e meno Renzi, se possibile - come ci suggerisce di fare Patrick Stewart, in questo video che ho “rubato” all’amica Gea.

martedì 26 agosto 2014

Verba volant (113): sponsor...

Sponsor, sost. m.

Le parole fanno giri strani, come hanno già avuto modo di verificare i lettori più attenti di Verba volant. Questa è una parola inglese, presa pari pari dal latino, e arrivata così in italiano; sponsor ha la stessa storia etimologica di media, ma almeno non soffre della nostra maldestra pronuncia: anche gli anglofili più accaniti non riescono a storpiarla. In latino sponsor significa garante, mallevadore, e nei testi cristiani indica il padrino di battesimo; l’etimologia è la stessa del verbo sposare, ossia deriva dal latino spondere, che significa assumere un impegno.
Come certamente sapete, proprio in questi giorni è stato scelto il nuovo commissario tecnico della nazionale italiana di calcio, un tema che ha appassionato gli italiani sotto l’ombrellone molto di più della controriforma istituzionale di Renzi. Non entro nel merito della scelta tecnica: il calcio è uno di quegli argomenti su cui, quando si prende una posizione, si scatenano dibattiti infuocati, con il rischio di attirarsi anatemi e strali e in particolare la Juventus - e tutto quello che le ruota intorno, nel bene e nel male - è oggetto di feroci polemiche, a confronto delle quali le discussioni dei primi concili cristiani sulla transustanziazione sono bazzecole.
Chiedo quindi clemenza ai miei lettori di fede juventina. Devo dire che mi pare bizzarro che sia stato scelto per guidare la nazionale un tecnico che ha subito una pesante squalifica in un delicato processo sportivo, ma Conte si è sempre proclamato innocente e, come si sa, Conte è un uomo d’onore. Quindi facciamo finta che vada tutto bene e continuiamo pure a tifare per la nostra squadra, anche se una parte di noi ha dovuto smettere, da almeno vent’anni, di urlare“forza Italia” quando c’è la partita della nazionale.
Mi interessa di più un altro aspetto della questione. La Federcalcio ha annunciato che lo stipendio di Conte sarà pagato in parte dagli sponsor. La cosa dovrebbe tranquillizzare i cittadini, in questi tempi di spending review e soprattutto evitare altre polemiche. Non preoccupatevi, pare ci voglia dire il presidente Tavecchio - e anche Tavecchio, si sa, è un uomo d’onore - non sprecheremo i vostri soldi in questi tempi di crisi. Ringraziamo quindi gli sponsor che sborsano i loro soldini per permettere a noi di sperare tra quattro anni di vincere il campionato del mondo.
Credo però che sarebbe bene mettere in chiaro che non si tratta di beneficenza; alla fine quei soldi li pagheremo comunque noi, acquistando una maglietta o un paio di scarpe. Certo, qualcuno obietterà, c’è una bella differenza tra risorse pubbliche che dovremmo mettere fuori tutti noi, con le nostre tasse, indipendentemente dal nostro interesse per il calcio, e soldi che ciascuno di noi può decidere o meno di spendere, acquistando questo o quel prodotto. Apparentemente è vero, anche se non è proprio così lineare. Spesso questi bisogni ci vengono indotti, perché non abbiamo veramente bisogno di quella maglietta o di quel paio di scarpe, ma veniamo convinti che siano qualcosa di indispensabile, di irrinunciabile. E proprio perché li sentiamo come indispensabili siamo disponibili a spendere di più, in modo da pagare la nostra quota dello stipendio di Conte.
Allora probabilmente il problema non è quello di capire dove trovare i soldi per pagare lo stipendio del commissario tecnico, ma capire se quello stipendio è adeguato. So qual è l’obiezione di Tavecchio e di quelli che sostengono questa operazione: senza uno stipendio adeguato, ossia molto alto - scandalosamente alto - è impossibile trovare un tecnico molto bravo, dal momento che quelli bravi - o presunti tali - possono sperare di essere ingaggiati da squadre di club con ingaggi di questo livello, appunto scandalosamente alti. Vero, ma allora forse il problema è quello di darsi delle regole e di decidere delle priorità. È una priorità del paese, ossia pubblica, avere alla guida della nazionale uno dei tecnici più pagati del mondo? Francamente credo di no, ma immagino che anche su questo alcuni di voi potrebbero dissentire.
Poi c’è un altro piccolo problema. Chi ci garantisce del “garante”? Ossia chi garantisce che le scelte del commissario tecnico, pagato in parte degli sponsor, non saranno in qualche modo influenzate dallo stesso sponsor? Magari Conte - se non fosse un uomo d’onore - potrebbe avere un occhio di riguardo per quei giocatori che indossano abitualmente le stesse magliette e le stesse scarpe dell’azienda che gli dà una parte del suo stipendio. E così noi saremmo spinti a desiderare sempre più quelle scarpe, dal momento che verrebbero indossate da tutti i nostri idoli.
Il solito obiettore - che oggi evidentemente fa gli straordinari - adesso potrebbe criticarmi: proprio tu che consideri poco importante la nazionale di calcio, tanto da non volerci investire per uno stipendio adeguato, adesso ti preoccupi che venga scelto questo o quel giocatore, non badando alla qualità, ma alla marca delle sue scarpe? Effettivamente me ne importa poco, ma è la logica che mi preoccupa.
Infatti gli sponsor ormai non si limitano a pagare soltanto parte dello stipendio - poi ci diranno quanta parte, spero - del commissario tecnico della nazionale, ma intervengono in molti altri campi, che solitamente sarebbero di competenza dello stato. Gli sponsor intervengono in campi che il pubblico considera orami residuali, la cultura, la ricerca scientifica, l’educazione. Infatti, non essendoci più soldi pubblici per queste cose poco importanti, agli sponsor si chiede di restaurare un’opera artistica, di conservare un’area archeologica, di mettere in scena uno spettacolo di musica classica, di finanziare la ricerca sulla cura di una certa malattia, di sostenere le spese per un corso di laurea e così via.
Al di là del fatto che io potrei anche essere contento di acquistare, spendendo qualcosina di più, quel pacco di biscotti lì - e non quello più economico - per sostenere chi sostiene il Regio di Parma, anche in questo caso chi ci garantisce? Forse in questo caso specifico, non dovrei preoccuparmi troppo, perché so che Rosita è una gallina d’onore e so che, pur amando alla follia Puccini, non impedirà che venga rappresentato il Maestro Verdi. Ma in altri casi non sono così tranquillo. Ad esempio, chi mi garantisce che la ricerca scientifica sostenuta da una casa farmaceutica non si fermerà un attimo prima di arrivare a un risultato che potrebbe danneggiare quell’azienda? E chi mi garantisce che in quel corso di laurea sostenuto da un’importante azienda dell’informatica si studieranno ancora i programmi open source?
Domande a cui è difficile rispondere. Per fortuna che c’è il calcio a distrarci un po’.

venerdì 22 agosto 2014

Verba volant (112): comico...

Comico, sost. m.

L’origine di questa parola risale a molti secoli fa e, come tutte quelle che riguardano il teatro, deriva dal greco antico. Komos era infatti il frastuono della festa, in particolare il canto degli avvinazzati, e da questa parola derivò il termine komodia - genere teatrale non a caso caro a Dioniso - diventato in latino comoedia.
Anche se, almeno a detta di Umberto Eco, un ignoto monaco nel Medio evo ha distrutto il secondo libro della Poetica di Aristotele, quello appunto dedicato alla commedia, ne sappiamo abbastanza - o crediamo di saperne comunque abbastanza - sulla commedia e sui comici. Invece è sempre difficile capire perché ridiamo. E, di conseguenza, è difficile far ridere. Almeno in modo intelligente, perché basta pochissimo per suscitare una risata del pubblico, più o meno pagante: è sufficiente una smorfia, una parolaccia, uno schiaffo ben assestato e le gente comincia a ridere, spesso in maniera inconsulta, senza riuscire a fermarsi. Lo sanno bene i tanti guitti che si credono comici solo perché le persone ridono quando loro si esibiscono; se è per quello, la gente ride anche di un matto o di uno storpio, anche se ormai non è politicamente corretto farlo. E ridiamo quando vediamo un altro inciampare, anche se poi ci arrabbiamo con chi ride quando inciampiamo noi.
Robin Williams invece era un vero comico, uno di quelli capaci di far ridere e di far pensare il suo pubblico. Certamente sapeva anche fare le smorfie - in questo era davvero formidabile - e aveva il suo campionario di parolacce, ma usava questi mezzi, li metteva al servizio della propria arte. Faceva lo stesso Aristofane che non disdegnava le volgarità, sapendo che gli sarebbero servite per far arrivare il suo messaggio, spesso piuttosto complicato, al pubblico che affollava il teatro di Atene per vedere le sue commedie.
A leggere i ricordi che in questi giorni d’estate hanno riempito la rete - al di là della retorica di quelli che non l’hanno conosciuto, ma vogliono comunque apparire in occasioni ghiotte come queste, per sfruttare un po’ la popolarità del morto - emerge il fatto che Robin Williams amava molto far ridere, non solo per la vanità di essere applaudito, per quell'istinto da “puttana” che porta tanti suoi colleghi a cercare di stare sempre sotto i riflettori, ma proprio perché gli piaceva far ridere, soprattutto dove pensava ce ne fosse più bisogno, ad esempio nella corsia di un ospedale o in un campo militare in Afghanistan.
Lo so che Williams ha avuto l’opportunità di interpretare ruoli importanti e complessi, comici e drammatici, in film belli e intensi, con registi importanti, ma per quelli della mia generazione rimarrà sempre Mork, perché lo abbiamo conosciuto così, quando eravamo ragazzini e in qualche modo siamo cresciuti con lui.
Alla fine di ogni episodio lo stralunato alieno faceva il suo quotidiano rapporto a Sua obesità Orson, spesso stupendosi delle bizzarrie degli umani. Nei giorni scorsi Mork e Orson si sarebbero fatti mille domande, senza riuscire a darne una spiegazione, sul suicidio un uomo come Robin Williams, famoso, ricco, che amava il suo lavoro e che aveva ancora tante possibilità di divertire gli altri. Il suicidio è qualcosa che non riusciamo mai a spiegare noi umani, che pure ne abbiamo purtroppo esperienza diretta, figuratevi due extraterrestri.
Quel breve dialogo finale era importante nell'economia del racconto, perché conteneva la morale della storia; in questo c’era in quei telefilm un tratto antico, come in una favola di Esopo o appunto in una commedia. Credo allora sarebbe giusto trarre una morale dalla morte di Williams, magari smettendola di citare a sproposito battute di suoi film come fossero frasi dette da lui.
Quella morte ci insegna che dovremmo avere rispetto per chi fa un lavoro, un qualsiasi lavoro, sapendo che magari non è così facile o scontato come ci appare. E che dovremmo avere rispetto per chi soffre e per chi cerca di superare quella sofferenza, psichica o fisica, in un modo che consideriamo sbagliato. A uno come Robin Williams perdoniamo di aver ceduto alla droga e all'alcol, mentre consideriamo in maniera sprezzante un poveraccio che si droga o che beve, e usiamo queste parole - drogato e alcolizzato - come un insulto; quindi - e questa è un’altra morale - cerchiamo di essere meno ipocriti nei nostri necrologi,quando muore una persona importante, e più attenti alla sorte dei poveri cristi. Troppe volte noi pensiamo che la depressione sia una malattia da ricchi, o giustificandola - con banalità tipo “i soldi non danno la felicità” - o disprezzando chi ne soffre, perché pensiamo che un ricco non abbia diritto di essere depresso. Un’altra morale è che la depressione invece può colpire tutti, star del cinema e operai, e che tutti sono, in troppi casi, lasciati soli ad affrontare questa malattia. Il suicidio di Robin Williams ci insegna soprattutto che, al di là della nostra tracotanza e della nostra superbia, la vita è qualcosa di terribilmente complesso e fragile.
Sono convinto che di tutto questo stiano parlando lassù Mork e Orson.

mercoledì 20 agosto 2014

"Fine della discussione col secondino" di Samih al-Qasim


Dallo spioncino della più piccola delle celle
vedo alberi che mi sorridono,
tetti affollati della mia gente,
finestre che piangono pregano per me.
Dallo spioncino - è la più piccola cella -
vedo la tua, la più grande.

Verba volant (111): vacanza...

Vacanza, sost. f.

Anche Verba volant è stata in vacanza. Probabilmente ve ne siete accorti, perché - come avviene di solito in televisione in questa stagione - sono state pubblicate delle repliche. Ovviamente spero che ne abbiate sentito un po’ la mancanza.
Questa parola deriva, attraverso il francese vacance, dal latino vacantia, la forma neutro plurale del sostantivato vacans, -antis, participio presente di vacare. La vacanza è prima di tutto la condizione di essere o di rimanere vacante, ossia lo stato di una carica, di un ufficio civile o ecclesiastico, che rimane privo del titolare e da qui il periodo durante il quale rimane appunto vacante. Da questo significato deriva quello ormai più consueto, ossia il periodo di riposo, più o meno lungo, che una persona si concede dalle proprie ordinarie occupazioni, o più comunemente si fa concedere, quando lavora - come si diceva una volta - “sotto padrone”. Quindi per parafrasare una celebre canzone - vincitrice del Festival di Sanremo nel 1970 - chi non lavora non fa le vacanze.
Probabilmente negli anni Settanta questa regola non scritta valeva ancora. Nel mese di agosto le città si riempivano di cartelli “chiuso per ferie” e un esercito di vacanzieri si metteva in marcia verso i luoghi di villeggiatura; partivano tutti insieme, con la stessa precisione con cui, sempre tutti insieme, timbravano i cartellini per entrare in fabbrica. E tutti insieme lottavano e manifestavano, ma questa è un’altra storia.
I tempi però sono cambiati e si pone quindi un interessante problema. Gli insegnanti precari, che vengono licenziati a giugno e saranno riassunti in settembre, sono in vacanza? Per tanti lavoratori, pubblici e privati, la vacanza non è più un diritto, ma semplicemente il periodo che passa da un contratto all’altro, periodo in cui naturalmente non sono pagati. D’altra parte è già consueto che non ti paghino quando lavori, quindi non puoi pretendere che ti paghino anche per non lavorare.
Comunque la vacanza ha dignità costituzionale, anche se molti preferiscono dimenticarlo. Credo serva un piccolo promemoria, anche per tutti gli apprendisti costituzionalisti all’opera in questi giorni. L’art. 36, al terzo comma, recita:
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
Siamo ormai un paese senza vacanze? In un certo senso si, perché siamo sempre più un paese senza lavoro. O con un lavoro precario, incerto e malpagato, per cui le vacanze diventano sempre più un lusso. E comunque cerchiamo di farle - spendendo il meno possibile, accorciandole, tagliandole, insomma, in qualche modo adattandole alla nuova situazione - non per ostentare uno status che sappiamo di non avere più, ma probabilmente per fingere una normalità, o un simulacro di normalità, che ci aiuti a sopportare questa situazione.
Anche perché - ed è questo il vero problema - siamo ormai un paese vacante.
Senza un parlamento legittimo, visto che quello che c’è è stato eletto con una legge che è stata giudicata anticostituzionale; e proprio in forza di essere stato così delegittimato, ha deciso di autoproclamarsi costituente. Senza un governo, visto che quello che si dichiara tale aspetta ordini da altre autorità, che non abbiamo eletto e che quindi non ci renderanno conto delle loro decisioni. Siamo perfino senza il presidente della Federazione italiana giuoco calcio, almeno senza uno di cui non doversi vergognare. Siamo senza intellettuali che ci possano aiutare ad affrontare questa fase difficilissima della vita del paese. Siamo senza sinistra, che è vacante ormai da molti anni. Molti sono senza futuro e lo cercano, quando possono, fuori da questo paese; sperando magari nelle vacanze pagate.
Ormai l’unica sede non vacante è la cattedra di san Pietro e speriamo che Francesco la occupi ancora abbastanza tempo per cambiare un po’ di cose; perfino noi laici dobbiamo accontentarci di questo.
E una sede vacante prima o poi viene occupata. Magari indegnamente, come sta succedendo adesso all’Italia. O peggio, come è già successo in questo paese, quando una monarchia e un governo vacanti furono sostituiti da qualcosa di molto peggiore, che non vorremmo rivedere, anche se ne possono riconoscere già i sintomi.
In fisica, come si sa, i vuoti si riempiono. E la stessa legge vale anche per la politica.
A proposito, buon rientro. Spero abbiate passato delle buone vacanze. E soprattutto spero abbiate un lavoro a cui tornare.