giovedì 31 luglio 2014

per "l'Unità"



"Il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito. Dovrà essere un giornale di sinistra. Io propongo come titolo l'Unità puro e semplice che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale".

Antonio Gramsci, lettera per la fondazione de l'Unità, 12 settembre 1923

martedì 29 luglio 2014

"La lezione di storia" di Judi Benson

“La storia ci aiuta a riconoscere i nostri errori,
la seconda volta che li facciamo.”

Uomini, donne e bambini
spogliati nudi
gettati nel fiume gelato dell’inverno.
“La gente non sta tranquilla quando affoga.”

Uomini, donne e bambini
lanciati dalla cima del castello,
ossa rotte, crani sulle pietre.
Gemere, poi silenzio.

Uomini, donne e bambini
sotto tiro, corrono via,
corrono verso il petrolio che brucia.
Fiamme, fiamme, scoppietta la pelle.

Uomini, donne e bambini
che muoiono per le conseguenze, l’orrore,
le ferite che non guariscono.
Lente torture che si acuiscono col tempo.

Uomini, donne e bambini uccisi a caso
con precisione millimetrica. Bombardamento di precisione,
fuoco amico, oplà bombe, a grappolo.
Qualcuna scivola dalla lingua, qualcuna dalle dita.

I soldati starnutiscono, sbagliando a tracciare gli obiettivi.
Trasformando matrimoni in funerali.

Uomini, donne e bambini.
L’unico effetto collaterale che abbiamo avuto.

Verba volant (107): bambino...

Bambino, sost. m.

Questa è una parola che vorrei definire "naturale", perché deriva direttamente dai versi con cui comunicavano i nostri antichissimi progenitori, appena scesi dagli alberi.
Lo spiega meglio, con la consueta precisione, il Pianigiani:
Le lettere b-p-m, che per essere labiali sono fra le prime che articolano i fanciullini neonati, servono in molte lingue a formare i nomi di parentela con la ripetizione della stessa sillaba; in tal modo dev'essersi formato bimbo, con suo diminutivo bambino.
E infatti in moltissime lingue del mondo si usano suoni molto simili - e quindi parole simili - per indicare il cucciolo di uomo.
In questi giorni abbiamo parlato molto di bambini, forse troppo e quasi certamente male. Ci sono stati gli ottanta bambini morti sull'aereo della Malaysia Airlines che è stato abbattuto - forse per errore - in un’operazione di guerra sui cieli dell'Ucraina. Ci sono i bambini di Gaza - il loro numero è destinato a salire, perché mentre io scrivo e quando voi leggerete continueranno a morire sotto il fuoco dell'esercito israeliano. C'è stato il bambino morto - l'ennesimo bambino morto e quindi non ha fatto particolare scalpore - nel Canale di Sicilia, mentre la sua famiglia tentava il viaggio tra le coste dell'Africa e quelle dell'Europa.
Nessuna di queste morti a noi è sembrata naturale, anzi ci siamo infuriati a vedere quelle immagini - in alcuni casi ci sono state fatte vedere proprio perché ci infuriassimo - ci siamo rattristati, abbiamo pianto; chi ha un figlio piccolo immagino avrà provato un peso ancora maggiore di quanto sia successo a noi che non ne abbiamo. Eppure anche in quelle morti, che adesso viviamo come uno scandalo, c'è qualcosa di naturale, di animale. Forse dovremmo ricordarci più spesso che noi quello siamo, per quanto l'evoluzione abbia agito su di noi in maniera piuttosto inspiegabile.
E' un istinto naturale fuggire di fronte al pericolo ed è altrettanto naturale cercare di portarsi dietro la propria famiglia, per quanto quel viaggio possa essere pericoloso e pieno di insidie. Conosciamo tutti la storia di quell'artigiano della Galilea che affrontò un viaggio verso l'Egitto con la giovane sposa che aveva appena partorito, perché sapeva che il re voleva uccidere tutti i neonati. Fu un viaggio pericoloso, mise a repentaglio la sua vita e quelle della moglie e del figlio, eppure era convinto di fare la cosa giusta, anzi l'unica cosa possibile. Ogni giorno migliaia di padri e migliaia di madri prendono la stessa decisione e sono convinti di far bene, di fare il meglio per i loro bambini, che magari moriranno annegati al largo delle coste siciliane o disidratati sotto il sole del Sahara.
Anche la guerra è qualcosa di naturale, per quanto ciascuno di noi voglia credere il contrario, preferisca credere il contrario.
Nella Guerra del Peloponesso Tucidide racconta una piccola vicenda che non ha un particolare interesse bellico, ma serve a far capire le dinamiche e i motivi di quel conflitto. Melo era una piccola isola che, nonostante fosse molto vicina ad Atene, non era mai entrata nella sfera di influenza della città, allora egemone sull'Egeo. Nonostante i molti sforzi diplomatici degli Ateniesi, i Meli preferirono mantenere la propria neutralità. Fino a quando, nel 416 a.C., un anno di pace nella guerra con Sparta, gli Ateniesi decisero di risolvere quella storia una volta per tutte, inviando la loro enorme flotta contro la piccola isola. Dopo un assedio, durato molto più a lungo di quanto la stessa Atene si aspettasse, l'isola fu costretta alla resa, e Atene applicò una punizione spietata ed esemplare: tutti i maschi adulti furono uccisi, mentre le donne e i bambini furono ridotti in schiavitù.
Tucidide racconta l’ultima ambasceria degli Ateniesi, ormai decisi a distruggere l’isola "ribelle", in un celeberrimo dialogo, che è una delle più belle pagine dello storico greco.
Quandi i Meli chiedono agli Ateniesi:
E non potreste accettare che noi, restando in pace, fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuna delle due parti?
Questi rispondono:
No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza mentre l'odio lo è della nostra potenza.
Temo che ormai gran parte degli israeliani ragioni come gli Ateniesi e quindi ritenga necessario distruggere i palestinesi, perché solo l'odio potrà essere il segno della loro potenza, contro nemici ben più forti dei cittadini di Gaza.
Immagino che i bambini di Melo, almeno i più piccoli, non riuscirono a rendersi conto di cosa stava accadendo, perché da un giorno all'altro si trovassero a bordo di una nave e poi a servizio di qualche ricca famiglia ateniese o magari ad imparare un mestiere in una bottega del Pireo; forse qualcuno di loro visse ignaro della sorte della propria famiglia e della propria città. Forse neppure i bambini di Gaza, almeno i più piccoli, si stanno rendendo conto di cosa sta loro succedendo.
Noi però non siamo più bambini. Dobbiamo rendercene conto e dobbiamo chiederne conto a chi è responsabile della loro morte: Hamas e i terroristi palestinesi da un lato e il governo israeliano dall'altro.
Al governo di Israele lo chiederemo con più forza, perché pensiamo abbia una qualche responsabilità in più, non solo per la differenza delle forze in campo, per la sproporzione - simile a quella tra gli Ateniesi e i Meli - tra le loro capacità di offesa e di difesa, ma anche in ragione della storia di quel popolo, che ha sofferto più degli altri popoli. Ma la sofferenza che loro hanno subito, che hanno subito i bambini deportati a Terezin e in tutti gli altri campi di sterminio, non concede loro speciali diritti, anzi impone loro speciali doveri.
Per un bambino - e anche per una bambina - è naturale giocare. Lasciamoglielo fare.

lunedì 28 luglio 2014

Considerazioni libere (391): a proposito di una scelta che forse sbaglieremo...

Sinceramente non ricordo un altro periodo della storia italiana in cui la sinistra sia stata così irrilevante, dal punto di vista culturale prima ancora che da quello politico. Siamo pochi e siamo storditi, non sappiamo cosa dobbiamo fare, neppure da dove cominciare.
L'esperienza della Lista Tsipras ci ha dato un po' di fiato, ci ha permesso almeno di riconoscerci, di incontrarci di nuovo - spesso ci eravamo persi di vista - perfino di attirare qualche nuovo compagno; però ci siamo fermati lì. E comunque per fortuna che ci abbiamo provato, che siamo riusciti a raccogliere le firme e a raggiungere il quorum; se non l'avessimo fatto, sarebbe molto peggio. Come era abbastanza prevedibile, dal giorno dopo, smaltita la fatica, ci siamo nuovamente dispersi.
So ovviamente che c'è una discussione in atto per capire come continuare quell'esperienza, come collegare le energie faticosamente emerse in queste settimane con i nostri tre europarlamentari, con il lavoro dell'intero gruppo, con lo stesso Tsipras, ma ho l'impressione che questa discussione sia come travolta da quello che avviene nel paese e soprattutto che non riesca a superare uno scoglio fondamentale, ossia quello del rapporto con il Pd. Siamo quattro gatti e siamo divisi su questo punto - e questa non sarebbe neppure una novità per la sinistra italiana - ma francamente credo che questo sia davvero un punto dirimente, che deve essere affrontato una volta per tutte.
Per molti compagni è impossibile immaginare la sinistra italiana senza il Pd o almeno senza una parte di quel partito, perché il Pd si dichiara di centrosinistra, perché il Pd ha aderito al Pse, ma soprattutto perché nel Pd ci sono ancora tante persone con cui abbiamo condiviso periodi più o meno lunghi di lotta, con cui ci siamo confrontati, a volte scontrati, ma che abbiamo comunque sempre riconosciuto come del nostro campo. E poi perché nel Pd ci sono dei simboli - Renzi direbbe dei brand - che ci sono cari, ad esempio le Feste. Inoltre bisogna riconoscere che nel Pd esiste un dibattito, spesso dai toni accesi, e che ci sono persone che stanno male in quel partito, eppure stanno lì, in maniera quasi masochistica.
A volte, leggendo i commenti di alcuni amici che stanno in quel partito - non solo semplici iscritti, ma militanti, dirigenti locali, persone con incarichi nelle istituzioni - sembra quasi che Renzi abbia vinto contro il Pd. Che sia una sorta di corpo estraneo al partito che lo ha inspiegabilmente occupato e che è destinato ad esserne espulso, come in una crisi di rigetto. Molti compagni della cosiddetta sinistra radicale aspettano questo giorno e pensano che sia possibile lavorare ai fianchi quel partito per far sì che quella data si avvicini. Vista la mia storia personale, mi piacerebbe pensare che sia così facile, ma sinceramente non lo credo.
Certo in questa ultimissima fase abbiamo assistito a un processo di personalizzazione per noi della sinistra inedito, per cui Renzi e il partito si identificano e si sovrappongono, ma questo non basta a spiegare la trasformazione del Pd, di tutto il Pd, in un sistema di governo delle istituzioni e della società. E' qualcosa che è cominciato prima di Renzi, di cui abbiamo anche noi - ultimi dirigenti dei Ds - una parte di responsabilità e che coinvolge tutti, anche gli anti-renziani. In quel partito non solo non c'è più un riferimento ideale, ma ormai è prevalsa la totale identificazione tra partito e governo, il partito esiste in quanto governa. Se l'elemento fondante diventa quello che tutti chiamano ormai governance, è naturale che le posizioni interne siano piuttosto fluide e quindi che un presunto oppositore, come Orfini, diventi uno strenuo difensore del segretario e che i parlamentari e i dirigenti vengano valutati unicamente in base della fedeltà alla linea, quanto non alla presenza televisiva.
In questa trasformazione un elemento fondamentale è la crisi, perché è la crisi che giustifica l'urgenza di decidere, di governare per gestirla. L'unico vero valore che tiene unito il Pd è ormai l'urgenza e questo giustifica tutto, dalle scelte di politica economica alle proposte di revisione della Costituzione. Il patto del Nazzareno non è preoccupante per quello che c'è scritto o per quello che non c'è scritto, ma perché già il fatto di averlo stipulato indica che l'orizzonte politico del Pd è la pratica del potere in quanto tale. E basta.
Questo spiega - anche al netto degli opportunismi - le tante conversioni, per cui ad esempio qui in Emilia i dirigenti che si dicevano dalemiani sono passati, armi e bagagli, con il rottamatore, che effettivamente l'unica cosa che ha davvero rottomato è stato il suo partito. Ma anche Civati nasce come democratico ed è figlio dello spirito da cui è nato Renzi: inutile sperare che da una persona con quella storia possa rinascere la sinistra. Civati è soltanto un Renzi che ha perso. Quindi, compagni, non illudetevi, non ripartiremo né da lui né da Cuperlo.
Come credo sia evidente io sono uno di quelli che pensa che la sinistra possa crescere in Italia solo fuori e contro il Pd. Magari con il Pd sarà più semplice trovare punti d'intesa su alcune questioni rispetto di quanto lo sia con gli altri partiti del centrodestra, ma in Italia la sinistra può essere solo alternativa al Pd.
Il tema non è secondario anche perché nella prossima primavera ci sarà una tornata importante di elezioni regionali e in particolare perché qui in Emilia-Romagna voteremo già nel mese di novembre, dal momento che Vasco Errani si è dimesso. Concedo che queste dimissioni siano arrivate in maniera inattesa, come un fulmine a ciel sereno, ma ho come l'impressione che qualcuno non se ne sia ancora reso pienamente conto. Ormai siamo in agosto, forse ce ne occuperemo dopo le meritate vacanze; va bene, non c'è fretta, probabilmente non avremmo comunque fatto in tempo ad organizzarci, anche se ricordo che sapevamo già che si sarebbe votato in primavera.
Anche se mi sembra che qualcuno - penso in particolare agli amici di Sel - abbiano già deciso, ci sono soltanto due possibilità: o si fa una lista di sinistra a sostegno del candidato renziano, per cercare di condizionarne l'azione di governo o proviamo a presentare un nostro candidato - o una candidata - partendo dal 4,07% che abbiamo preso alle europee. Naturalmente in questo secondo caso saremmo destinati alla sconfitta - eventualità a cui, come noto io non aspiro, perché mi piace vincere - ma continueremo quella lunga fase di costruzione che ci aspetta, se non vogliamo lasciare questo paese in mano ai rappresentanti del pensiero unico. Ovviamente io spero che sceglieremo questa seconda strda, anche se ho il sospetto che una parte considerevole di noi opterà per la prima.  E quindi ci divideremo, rendendo le nostre forze ancora meno determinanti.
In Grecia, in Spagna, in Irlanda, ossia negli altri paesi europei in cui i rappresentanti del pensiero unico hanno governato con maggior violenza - e in cui quindi la crisi ha fatto maggiori vittime - una sinistra è tornata ad essere presente, dopo che il Pasok, il Psoe, i laburisti irlandesi hanno rinunciato di fatto a rappresentare questa parte dello schieramento, spesso dando vita a governi di coalizione con il centrodestra. Soprattutto, al di là dei risultati elettorali, in questi paesi la sinistra è un'opzione possibile, diversamente da quello che succede in Italia.
In questi paesi però il cammino è stato lungo, faticoso: a Syriza ci sono voluti più di sette anni per arrivare al risultato delle europee e la stessa Podemos ha cominciato da poco un cammino simile in Spagna, ma mettendo a frutto una parte del lavoro del movimento degli indignados, cominciato diversi anni fa. Un partito che nasce spontaneamente, già formato, come Atena dalla testa di Zeus, non esiste in natura, quindi non illudamioci qui in Italia, dove - facendo di necessità virtù - abbiamo messo i carri davanti ai buoi ed eletto dei parlamentari prima di avere un minimo radicamento sociale sul territorio. Il carro però adesso rischia di stare fermo, e i buoi con lui.
Al di là di quello che faremo alle prossime elezioni regionali, sia che decideremo di correre da soli sia che decideremo di stare fermi un giro - per me l'opzione di allearsi con il Pd non esiste e, nel caso, sarei fuori, tornando nell'oblio dell'astensione - credo occorra ricominciare, in ogni sede - qui in rete, come nelle piazze - a essere presenti, provando anche a collegarci ad altri movimenti, partendo sui due punti su cui credo la nostra azione possa avere più possibilità di parlare ad altri: la difesa della democrazia rappresentativa, oggi messa sotto scacco dalle riforme proposte dalla "larghissime intese" e difese - in maniera strenua quanto anticostituzionale - dal Quirinale; il considerare il lavoro come l'elemento fondante dell'economia.
Bisogna tornare ai fondamentali, anche perché ci stanno togliendo proprio questo.

da "Gli ultimi giorni dell'umanità" (atto I, scena V) di Karl Kraus

Conte Leopold Franz Rudolf Ernest Vinzenz Innocenz Maria
L'ultimatum è stato superbo! Finalmente! Finalmente!
Barone Eduard Alois Josef Ottokar Ignazius Eusebius Maria
Foudroyant! Ma per un pelo l'avrebbero accettato.
Conte
Mi avrebbe fatto venire una rabbia di quelle! Per fortuna avevamo quei due piccoli punti, la nostra inchiesta su territorio serbo e così... be', questa poi non l'hanno digerita. ora possono incolpare solo se stessi, i serbi.
Barone
Se ci si pensa bene - per quei due piccoli punti - per una simile quisquilia è scoppiata la guerra mondiale! Da morire dal ridere, a pensarci.
Conte
Ma non potevamo rinunciare a esigerli, quei due punti. Perché si sono incaponiti, i serbi, a non accettare quei due piccoli punti?
Barone
Be', era evidente fin dall'inizio che non li avrebbero accettati.
Conte
E questo noi già lo sapevamo. Eh, Poldi Berchtold è qualcuno, non c'è nulla da fare, e nella buona società sono tutti d'accordo. E' enorme! Ti dico... un'esaltazione! Finalmente, finalmente! Non era proprio più sopportabile. A ogni passo eri handicappato. Ora sarà un'altra vita! Quest'inverno, appena finita la guerra, mi faccio la Riviera.
[...]
Barone
E quando credi che ci sarà la pace?
Conte
Tra due settimane, al masismo tre, credo.
[...]
Barone
Sei sempre stato un ottimista da matti.
Conte
E va bene, allora quando?
Barone
Prima di due o tre mesi non se ne parla. Vedrai. Se tutto va bene, fra due. Ma deve andare tutto molto bene, caro mio!
Conte
No, ma allora, scusa, voglio dire... sarebbe una noia mortale. Ah sarebbe proprio charmant! No, non funzionerebbe, se non altro per il problema alimentare. Be', non crederai mica che quest'affare delle restrizioni alimentari potrà durare? Perfino da Demel coinciano già con la storia che bisogna tener duro... ah, charmant come situazione... già ci si restringe come si può, ma a lungo andare... E' ridicolo, non è possibile! O credi davvero?
Barone
Tu lo sai come la penso. Il paese non mi dà nessun affidamento. In fin dei conti, non siamo dei crucchi, anche se siamo costretti a metterci... Soltanto ieri parlavo con Putzo Wurmbrand, sai quello che sta con la Maritschl Palffy, è il braccio destro di Krobatin, dunque un patriota coi fiocchi - be', quando si comincia una guerra difensiva, dice lui - sai quello ci si incaponisce proprio, con la guerra difensiva...
Conte
Ma scusa - perché, non si tratta forse di una guerra difensiva? E piantala, sei proprio un arcidisfattista! E lo stato di necessità, te lo sei dimenticato, lo stato di necessità in cui ci trovavamo, e che siamo stati soi disant costretti a colpire per primi per via del prestigio e quindi - un momento, abbi pazienza... scusa, hai dimentica l'accerchiamento? Solo ieri parlavo con Fipsi Schaffgotsch, sai, quello che ha sposato uan Beligard, un po' scemo, tu lo conosci, ma tanto simpatico - dunque, che stavo dicendo... ah sì, dunque non siamo forse stati costretti a farci attaccare dai serbi a Temes-Kubin, per...?
Barone
Come?
Conte
Come? Vai, non fare il finto tonto... tu per primo sai benissimo che un attacco serbo a Temes-Kubin era necessario... voglio dire, dovevamo per forza colpire per primi...
[...]
Barone
Ma certo, e chi ha detto niente? Lo sai bene che fin dal principio proprio io sono stato per la prova di forza, nota bene, purché sia l'ultima. Come la chiamano non me ne importa un fico. "Guerra dfensiva" mi suona quasi come se ci dovesse in un certo modo giustificare. La guerra è la guerra, dico io.
[...]
Barone
Senti, fuori oggi c'è un sole... una meraviglia!
Conte (apre una busta dell'agenzia stampa e legge)
Leopoli è ancora in mani nostre...
Barone 
Che altro vuoi!
Conte
Allora, Poldi Berchtold, capisci (mormorando le altre parole del dispaccio) ... rioccupata... oh Dio, sempre la stessa storia... agassant... roba da far venire la nausea (appallottola il dispaccio) ... che volevo dire... più considero la situazione... tutto sommato... oggi si potrebbe andare a cena fuori con la Steffi.

domenica 27 luglio 2014

da "Gli ultimi giorni dell'umanità" (atto I, scena IV) di Karl Kraus

Ottimista
E' ancora capace di negare? Non sente quest'entusiasmo? Non vede questo giubilo? Può sottrarvisi un cuore sensibile? Lei è l'unico. Crede che questo grande moto spirituale delle masse non porterà i suoi frutti, che questo magnifico preludio resterà senza seguito? Quelli che oggi esultano...
Criticone
... domani piangeranno.
Ottimista
Che importanza ha la sofferenza del singolo! Nessuna, come la sua vita. Finalmente lo sguardo dell'uomo si leva di nuovo in alto. Non si vive soltanto per il profilo materiale...
Criticone
... per le decorazioni.
Ottimista
Non si vive di solo pane.
Criticone
No, bisogna anche far la guerra, per non averlo.
Ottimista
Il pane ci sarà sempre! Ma noi ci nutriamo della speranza della vittoria finale, di cui non si può dubitare, e per raggiungerla...
Criticone
... moriremo prima di fame.
Ottimista
Che animo meschino! Come si vergognerà, un giorno! Non si richiuda in se stesso quando intorno c'è festa! Le porte dell'anima si sono spalancate. E in quest'anima, la memoria dei giorni in cui il paese ha preso parte, sia pure soltanto attraverso i bollettini quotidiani, alle gesta e alle sofferenze di un fronte glorioso...
Criticone
... non lascerà nemmeno una cicatrice.
Ottimista
I popoli impareranno dalla guerra...
Criticone
... a non dimenticare di farla in futuro.
Ottimista
La pallottola è partita, e all'umanità...
Criticone
... entrerà da un orecchio e uscirà dall'altro!

lunedì 21 luglio 2014

da "La guerra del Peloponneso" (V, 84-114) di Tucidide

Nell’estate seguente Alcibiade giunse per mare ad Argo con venti navi e arrestò trecento Argivi sospetti di favoreggiamento per Sparta: gli Ateniesi li deportarono nelle isole vicine loro suddite. E gli Ateniesi fecero una spedizione contro l’isola di Melo con trenta navi loro, sei di Chio, due di Lesbo, e con 1200 opliti, 300 arcieri e 20 arcieri a cavallo venuti da Atene, 1500 opliti circa venuti dagli alleati e dagli isolani.
I Meli infatti sono coloni dei Lacedemoni e non volevano sottostare ad Atene come gli altri isolani, ma dapprima se ne stavano tranquilli in quanto neutrali, poi, costretti dagli Ateniesi che ne devastavano la terra, si volsero a guerra aperta.
Invasa la terra e accampatisi con questi contingenti, gli strateghi Cleomede di Licomede e Tisia di Tisimaco, prima di colpire il territorio, inviarono ambasciatori per intavolare una discussione. Ma i Meli non li condussero davanti al popolo, bensì li invitarono a parlare su quegli affari, per i quali erano venuti, stando davanti ai magistrati e agli oligarchi.
E gli ambasciatori ateniesi così parlarono: «Dal momento che la discussione non ha luogo in presenza del popolo, evidentemente perché esso resti ingannato non potendo udire, in un discorso continuato, argomenti persuasivi e inconfutabili una volta per tutte (abbiamo capito, infatti, che questo è lo scopo per cui ci avete condotto in disparte di fronte agli oligarchi), voi che siete qui seduti cercate di agire in modo ancor più sicuro. Rispondete punto per punto, e neppure voi con un discorso continuato, ma replicando subito a quelle frasi che a vostro parere sono inesatte. E dapprima diteci se vi piace la proposta che vi facciamo».
E i consiglieri Meli risposero: «La ragionevolezza dell’informarci tranquillamente a vicenda non incontra il nostro biasimo, ma i preparativi di guerra, che sono già qui presenti e non tarderanno a mostrarsi, ci appaiono discordanti da tutto ciò. Vediamo che voi siete venuti qui a giudicare ciò che diremo, e che la conclusione della discussione, se, come è naturale, noi avremo la meglio in difesa del diritto e perciò non cederemo, ci porterà la guerra, mentre ci porterà la schiavitù se ci faremo persuadere».
ATENIESI
«Se siete venuti qui con noi per far calcoli sui vostri sospetti per il futuro, o per qualche altro scopo che non sia quello di prendere per la città, sulla base delle circostanze presenti e di ciò che sta sotto i vostri occhi, una deliberazione che la salvi, smetteremo di parlare; se invece siete venuti proprio per questo, parliamone».
MELI
«È naturale e comprensibile per persone che si trovano in questa situazione volgersi a considerare tante cose, sia con parole che con supposizioni. Pure, la presente riunione è stata indetta per discutere della nostra salvezza, e la discussione si svolga, se vi piace, nel modo in cui ci invitate a discutere».
ATENIESI
«Noi dunque non vi offriremo una non persuasiva lungaggine di parole con l’aiuto di belle frasi, cioè che il nostro impero è giusto perché abbiamo abbattuto i Persiani o che ora perseguiamo il nostro diritto perché siamo stati offesi, ma ugualmente pretendiamo che neppure voi crediate di persuaderci dicendoci che, per quanto coloni dei Lacedemoni, non vi siete uniti a loro per farci guerra o che non ci avete fatto alcun torto. Pretendiamo invece che si mandi ad effetto ciò che è possibile a seconda della reale convinzione che ha ciascuno di noi, perché noi sappiamo al pari di voi che nelle considerazioni umane il diritto viene riconosciuto in relazione a una uguale necessità per le due parti, mentre chi è più forte fa quello che ha potere di fare e chi è più debole cede».
MELI
«A nostro parere, almeno, è utile (è necessario infatti usare questo termine, dal momento che avete proposto di parlare dell’utile invece che del giusto) - è utile che noi non distruggiamo questo bene
comune ma che sia salvaguardato il diritto che spetta a colui che di volta in volta si trova in mezzo ai pericoli, e che sia avvantaggiato colui che riesce a persuadere un altro anche senza raggiungere i limiti dell’esattezza più rigorosa. E questo fatto non è meno utile nei vostri riguardi, in quanto in caso di insuccesso sarete d’esempio agli altri a prezzo di una severissima punizione».
ATENIESI
«Ma noi non temiamo la fine del nostro impero se anche dovesse finire, perché non sono terribili per i vinti quelli che come i Lacedemoni comandano ad altri (e del resto la presente contesa non riguarda noi e i Lacedemoni), bensì i soggetti, qualora di propria iniziativa assalgano chi comanda e lo sottomettano. E su questa questione ci sia permesso di correre rischi: ma che noi siamo qui per favorire il nostro impero e che per salvare la nostra città ora vi facciamo questi discorsi, tutto ciò ve lo mostreremo, intenzionati a comandare a voi senza spendere fatica e a salvarvi con vantaggio di entrambi».
MELI
«E come può derivare dell’utile a noi dall’essere vostri schiavi, come a voi dal comandarci?».
ATENIESI
«Perché a voi toccherebbe obbedire invece di subire la sorte più atroce, mentre noi , se non vi distruggessimo, ci guadagneremmo».
MELI
«E non potreste accettare che noi, restando in pace, fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuna delle due parti?».
ATENIESI
«No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza mentre l’odio lo è della nostra potenza».
MELI
«È così che vedono la giustizia i vostri sudditi, sì da porre sullo stesso piano quei popoli che non hanno niente a che fare con voi e quelli che, vostri coloni per la maggior parte e vostri ribelli in un certo numero, sono stati da voi assoggettati?».
ATENIESI
«Sì, perché credono che né gli uni né gli altri manchino di giustificazioni per se stessi, e credono che alcuni di loro possano salvarsi grazie alla loro potenza, mentre noi non li assaliamo per paura. Sicché, oltre a farci comandare a un maggior numero di persone, voi con la vostra sottomissione ci fornireste un motivo di sicurezza, tanto più se, isolani e per giunta più deboli di altri, voi foste sconfitti da un popolo dominatore del mare».
MELI
«E nell’altro caso non credete di trarne sicurezza? Giacché, come voi ci avete distolto dal discorrere della giustizia e ci avete consigliato di obbedire a ciò che è utile per voi, così noi, mostrandovi il nostro vantaggio, dobbiamo cercare di persuadervi che il nostro utile può coincidere col vostro. E in realtà tutti coloro che ora sono neutrali, come non ve li renderete nemici allorché, guardando a quanto avviene a noi, penseranno che un giorno voi assalirete anche loro? In tal caso, che altro farete se non accrescere il numero dei vostri nemici e persuadere i riluttanti ad esserlo, anche se ora non ne hanno alcuna intenzione?».
ATENIESI
«No, perché noi non consideriamo pericolosi coloro che, abitatori di qualche parte della terraferma, grazie alla loro intatta libertà si guarderanno bene dallo stare sulla difensiva nei nostri riguardi; al contrario, noi temiamo quelli che, da qualche parte, sono isolani e non soggetti al nostro impero, come voi, insieme con coloro che ormai sono esasperati dalla costrizione del nostro dominio. Perhé costoro, abbandonandosi a calcoli errati, potrebbero numerosissime volte esporre se stessi e noi a un manifesto pericolo».
MELI
«Certo, se voi affrontate tali pericoli perché il vostro impero non abbia mai fine, e se i vostri sudditi li affrontano per liberarsene, per noi che siamo ancora liberi sarebbe grande viltà e debolezza non affrontare ogni rischio prima di essere schiavi».
ATENIESI
«No, se la vostra deliberazione sarà ispirata a saggezza: ché per voi la lotta ora non è su un piano di parità, per decidere della vostra valentia, e cioè perché non siate tacciati di un’onta; ora piuttosto si decide la salvezza, cioè di non opporsi a chi è molto più forte».
MELI
«Ma noi conosciamo le vicende della guerra, che talvolta danno una sorte comune alle due parti avverse più di quanto ci si potrebbe aspettare dalla disparità delle forze; e per noi il cedere immediatamente ci priva di ogni speranza, mentre con l’agire c’è ancora qualche speranza di restare ritti in piedi».
ATENIESI
«Ma la speranza, che incoraggia al pericolo, se anche danneggia quelli che vi si affidano in una situazione di abbondanza, pure non li rovina. Ma quelli che tentano la sorte con tutte le loro sostanze (ché la speranza è per sua natura prodiga), la conoscono subito appena scivolano: essa però non lascia indietro qualche occasione perché uno possa poi stare attento, una volta che l'ha conosciuta. E voi, che siete deboli e vi potete permettere una sola gettata di dadi, non vogliate subire questo danno o rendervi simili a molti uomini che, pur potendo salvarsi con mezzi umani, una volta che la speranza di manifesti aiuti li abbia abbandonati in mezzo alla sventura, si volgono alla speranza di ricevere soccorsi invisibili, e cioè alla mantica e ai vaticini e a tutte le altre cose di questo genere che affliggono gli uomini insieme con le speranze».
MELI
«Certo anche noi, siatene sicuri, pensiamo che è difficile lottare contro le vostre forze e contro la sorte, se essa non sarà favorevole. Pure, noi confidiamo di non essere da meno per quanto riguarda la sorte che ci manderà la divinità, giacché noi, pii, ci opponiamo a persone in giuste, e abbiamo fiducia che l’inferiorità delle nostre forze sarà compensata dall’alleanza coi Lacedemoni, i quali saranno costretti ad aiutarci se non altro per dovere di consanguineità e per sentimento dell’onore. E insomma, la nostra audacia non ci sembra del tutto infondata».
ATENIESI
«Ma per quanto riguarda la devozione dei sentimenti verso la divinità, neppure noi crediamo di essere da meno, per ché noi non pretendiamo né portiamo ad effetto alcuna cosa che devii dalle umane credenze nei confronti della divinità o dai desideri degli uomini nei confronti di se stessi. Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comanda: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della stessa nostra potenza. E così nei confronti della divinità, per quanto è probabile, non crediamo di essere inferiori a voi; quanto alla convinzione che avete nei riguardi dei Lacedemoni, per cui confidate che accorreranno in vostro aiuto per un sentimento d'onore, noi, pur considerando beata la vostra inesperienza, non invidiamo la vostra pazzia. I Lacedemoni, di solito, sono valorosi quando sono chiamati in causa loro stessi con le loro consuetudini patrie, ma sul loro modo di trattare gli altri, sebbene vi sia molto da dire, pure in breve si potrebbe mostrare che costoro, nel modo più evidente tra tutti gli uomini che conosciamo, considerano onesto ciò che è piacevole e giusto ciò che è utile. Eppure, una tale convinzione non reca vantaggio agli irrazionali tentativi di salvezza a cui ora vi volgete».
MELI
«Ma noi abbiamo fiducia che per via dell’utile che ne deriva i Lacedemoni non vorranno, col tradire i Meli loro coloni, diventare infidi a quei Greci che sono favorevoli a loro e util i a quelli che sono loro nemici».
ATENIESI
«Non credete che l’utilità si accompagni alla sicurezza, mentre il giusto e l’onesto si compiono con pericolo (cosa che, solitamente, i Lacedemoni non osano fare)?».
MELI
«Ma noi crediamo che loro tanto più affronteranno il pericolo per noi e lo considereranno meno grave di quello affrontato per altri, in quanto noi siamo situati vicino alle azioni militari del Peloponneso e siamo più fidati di altri per via della consanguineità che si rivela nel nostro modo
di pensare».
ATENIESI
«Ma la sicurezza, ai soccorritori, non è data dal benvolere di chi li ha chiamati in aiuto, ma solo dalla propria eventuale superiorità nell’agire, e a questo i Lacedemoni badano più degli altri (per sfiducia nel proprio apparato militare assalgono i vicini ricorrendo perfino all’aiuto di molti alleati), sicché non è probabile che compiano la traversata per arrivare fino a un'isola mentre noi siamo signori del mare».
MELI
«Essi però potrebbero anche delegare altri a farlo, e vasto è il mare di Creta, in cui la cattura di qualcuno da parte di chi ne ha il controllo è più difficile di quanto non lo sia la salvezza di chi vuole passare inosservato. E se fallissero in questo intento, potrebbero anche rivolgersi contro la vostra terra e contro quegli alleati che vi sono rimasti e che Brasida non ha assalito; e le difficoltà allora non sorgerebbero tanto per una terra che non vi riguarda, quanto per la difesa del vostro suolo e di quello degli alleati».
ATENIESI
«Ma una di queste eventualità non si potrà realizzare se non dopo che voi avrete sperimentato la vostra sorte e imparerete che gli Ateniesi non si sono mai ritirati da un assedio per timore di altri. E noi riflettiamo che, pur avendo detto di volerci consultare per provvedere alla vostra salvezza, in questa discussione voi non avete detto ancora niente che possa dare agli uomini la fiducia di potersi salvare. Al contrario, le vostre maggiori forze sono rappresentate da speranze di cose di là da venire, mentre le forze che sono qui presenti sono insufficienti a vincere quelle schierate di fronte. E voi mostrate grande irragionevolezza se, dopo averci congedati, non prenderete qualche decisione più equilibrata di questa. Che certo non vi volgerete a quel sentimento di onore, il quale procura grandi rovine agli uomini quando sorge in mezzo ai pericoli più evidenti e dall’esito più vergognoso. Infatti a molti, che pur prevedevano a che cosa andavano incontro, il cosiddetto sentimento dell’onore, sorretto dalla forza di un nome ingannevole, trascinò con sé, una volta che le suddette persone furono vinte da quella parola, il destino di piombare volontariamente nelle sciagure più atroci e di attirarsi per colpa della loro stessa irragionevolezza una vergogna più vergognosa che se fosse dipesa dalla sorte. Ma da questo avvenire, se la vostra decisione sarà saggia, voi vi guarderete, e non considererete sconveniente essere vinti dalla più potente città, la quale vi sollecita a obbedire alle sue moderate richieste, a divenirne alleati conservando la vostra terra (pur essendo sottomessi a un tributo) e, quando vi si concede la scelta tra la guerra e la sicurezza, a non intestardirvi nella soluzione peggiore. Coloro che non cedono a chi è pari di forze, si comportano al meglio di fronte ai più forti e sono moderati verso i più deboli, costoro ottengono i più grandi successi. Riflettete dunque, anche dopo la nostra partenza, e ricordatevi più volte che state per prendere una decisione che riguarda la vostra patria, la quale è una sola e la cui salvezza dipende da un’unica decisione, a seconda che essa sia quella giusta o meno».
Gli Ateniesi abbandonarono la discussione: i Meli, trattisi in disparte, poiché le loro vedute erano ressappoco simili alle risposte date nel dibattito, così risposero: «Le nostre convinzioni non sono mutate, o Ateniesi, né in così breve tempo priveremo della sua libertà una città abitata già da settecento anni, ma fiduciosi nella sorte che ci manda la divinità, la quale ha sempre salvato la città fino ai nostri giorni, fiduciosi inoltre nel soccorso degli uomini e dei Lacedemoni, cercheremo di salvarci. Noi vi proponiamo di esservi amici, e nemici di nessuna delle due parti in lotta, e vi invitiamo a ritirarvi dalla nostra terra dopo aver concluso un trattato che sembri essere utile sia a noi che a voi».
Così dunque risposero i Meli; gli Ateniesi, sciogliendo ormai il convegno, dissero: «Certo, a giudicare da queste vostre decisioni, voi, soli tra tutti quelli che conosciamo, considerate più sicuro il futuro del presente e, per il fatto che lo desiderate, contemplate l’incerto come se si stesse già realizzando e, gettandovi nelle braccia dei Lacedemoni e delle speranze e della sorte, quanto più siete pieni di fiducia, tanto più conoscerete gravi sciagure».
E gli ambasciatori ateniesi tornarono al loro esercito: gli strateghi ateniesi, poiché i Meli non cedevano, si dettero subito alle operazioni belliche e, essendosi diviso il lavoro città per città, assediarono tutto all'intorno i Meli. E in seguito gli Ateniesi, dopo aver lasciato per terra e per mare una guarnigione composta dai loro soldati e da quelli degli alleati, si ritirarono con il grosso dell'esercito. Quelli lasciati a Melo, rimanendo sul posto, continuavano l'assedio.
[...]
Arrivò da Atene un altro esercito al comando di Filocrate di Demea, e i Meli ormai erano stretti da assedio a tutta forza; verificatosi anche un tradimento, si arresero agli Ateniesi a condizione che questi decidessero dei Meli secondo la loro discrezione. E gli Ateniesi uccisero tutti i Meli adulti che catturarono e resero schiave le donne e i bambini; abitarono quindi loro stessi la località, dopo avervi inviato cinquecento coloni.

domenica 20 luglio 2014

"Eternità del ficodindia" di Mahmoud Darwish


Dove mi porti padre?
Verso il vento, figliolo.
Via dal pianoro dove i soldati di
Bonaparte elevarono terrapieni
per spiare le ombre sui bastioni
vecchi di San Giovanni d’Acri.
Un padre disse al figlio: non avere
paura del fischio delle pallottole!
Aggrappati alla terra e sarai salvo.
Noi sopravviveremo,
saliremo
sui monti a settentrione, ritorneremo
quando i soldati vanno a casa,
lontano.
- Dopo di noi chi abiterà la nostra casa,
padre?
- Rimarrà, figliolo, tale e quale noi l’abbiamo lasciata.
Tastò le chiavi come fosse il suo corpo
e si sentì sicuro.
Passando una barriera di rovi, disse:
ricorda, figliolo, qui gli Inglesi
in croce, sulle spine di un ficodindia,
per due notti intere
misero tuo padre.
Ma non parlò. Tu crescerai
e agli eredi dei fucili
racconterai di quel sangue versato sul ferro.
- Perché hai lasciato il cavallo
alla sua solitudine, padre?
- Perché dia vita alla casa, figliolo.
Le case muoiono se parte chi le abita.
L’eternità apre le porte
da lontano ai viandanti della notte.
Ululano i lupi delle terre desolate
a una luna spaurita.
E un padre dice al figlio:
sii forte come tuo nonno,
sali con me l’ultimo poggio
delle querce, figliolo.
Ricordati: qui il giannizzero è caduto
giù dalla mula da guerra,
tieni duro con me
e ritorneremo
- Ma quando, padre?
- Fra un giorno, figlio, forse tra due.
Un distratto domani dietro a loro
masticava un lungo, notturno vento invernale.
I soldati di Giosuè
con le pietre della loro casa
edificavano una cittadella.
Erano ansanti sulla via di Cana.
Qui passò un giorno nostro Signore,
qui cambiò l’acqua in vino e a lungo parlò
dell’amore, ricordalo domani.
Ricorda i castelli dei crociati
annientati dall’erba d’aprile
alla partenza dei soldati.

"'O paese 'e Pulicenella" di Eduardo De Filippo


Pulicenella sapìte che dice?
Ca paese significa munno.
Sape solo ch’è la largo e ch’è tunno;
e nun tene pariente né amice.
Dice “’O cunto purtatel’a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella è padron’ ‘e paese.
Pulicenella fa tutt cos’isso.
Pulicenella, si arriva nu fisso,
ca vulesse… che saccio… fà spese.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella ‘o sapìmmo ca tene
tutt’e vizie d’‘a rosamarina.
E perciò ca se sceta matina...
vò sapè … se ntalléa… se trattène.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella, adderet’‘o spurtiello
‘e l’ufficio “Domanda e risposta”
te risponne… ma caro te costa
ca pè chesto… pè chesto e pè chello.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella sta sempre stunato;
puveriello… nun sap’ e nun sente.
Ma si appura c’‘a povera gente,
s’ha mettuto nu sold' astipato.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella nun tene giudizio;
nun ce penza c’‘o tramm’ è scassato.
Si ‘o biglietto l’avite pavato
bene o male, v’ha fatt’ ‘o servizio.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella ha signato, guardato,
dint’o vico di tale… di tale…
s’hadda fa nu lavoro stradale;
s’hadda fa… ma però s’è fermato.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella te dice “Firmate
Questa causa l’abbiamo vinciuta”.
Sì sicuro ca già l’‘e perduta
e cu tutto ch’‘e avut' 'e mmazzate.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella le piaceno ‘e ccarte
spicialmente… si songhe sigante.
Chelli bbone s’‘e tten’ astipate
'e ssuggette t’‘e mmen’ jnt’‘e scarte.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella è spassuso... se spassa
quanno port’‘e cartelle arretrate.
Sono imposte d’uscita e d’entrata,
però isso nun pava na tassa.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella fa mille mestiere:
‘o barbiere, ‘o stagnaro, ‘o pittore,
l’architetto, ‘o ngignere, o’ duttore.
Sap’ ‘o munn’ ‘e diman’ e d’ajere.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella fa pur’ ‘o scrittore.
E s’abbacca cu chist’ e cu chilo.
Ten’ ‘a penna, e nu core tantillo
e se joc’ ‘a parola d’onore.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella è padron’ ‘e paese.
Sape vita miracul’ e morte.
P’‘e ppertose, p’‘e ssenghe e p’‘e pporte
mette recchie… e s’ ‘a squaglia all’inglese.
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

Pulicenella se mena d’‘o lietto,
quanno tras’‘o vapore int’‘o porto.
E nunn’ave né colpa né tuorto,
quann’ afferr’‘o straniero pè pietto…
Dice “’O cunto purtatel’ a me”.
Pulicenella sapìte chi è?
…Perepè …perepè …perepè.

sabato 19 luglio 2014

Verba volant (106): senato...

Senato, sost. m.

L'etimologia di questa parola è davvero evidente, quali lapalissiana: senatus deriva da senex, che significa vecchio, in quanto nell'antica Roma questo era il consiglio degli anziani, un organo che ha resistito al passaggio, traumatico, dalla monarchia alla repubblica e a quello, graduale e non violento, dalla repubblica all'impero.
Un organo di questo genere c'era anche in molte altre città antiche. Ad esempio in età omerica il consiglio che affiancava il re si chiamava gerusia; come è evidente, si tratta della stessa radice della parola italiana geriatria e quindi anche la gerusia era il consiglio degli anziani. Questo nome è rimasto, in epoca storica, a indicare gli organi assembleari, con un ruolo consultivo piuttosto importante e significativo, a Sparta e a Cartagine.
Come noto la storia la scrivono i vincitori e allo stesso modo sono i vincitori che determinano quali parole sopravvivono e quali invece sono destinate a scomparire. Cartagine è stata sconfitta, i Romani hanno gettato il sale sulle sue rovine, e quindi la parola senato ha continuato ad essere usata fino ai ai giorni nostri, mentre gerusia è un reperto di archeologia etimologica.
In sostanza per gli antichi vecchiaia era sinonimo di saggezza e quindi al giovane condottiero, che doveva avere l'energia e la forza per guidare le truppe in battaglia, era necessario affiancare un gruppo di uomini saggi, di consiglieri che avessero esperienza delle cose del mondo, anche per insegnargli la temperanza.
Credo ricorderete il film Lawrence d’Arabia. In una delle ultime scene Lawrence, che ha ormai capito che il suo governo non intende rispettare i patti che egli aveva preso con gli arabi e anzi che Gran Bretagna e Francia si sono spartite quelle terre, irrompe nell'ufficio di Allenby e si sorprende di trovarci il principe Faysal che discute con il generale e con Dryden. E' proprio il principe che congeda Lawrence, con queste parole:
Non c'è altro da fare, qui, per un guerriero. Ormai si tratta di amministrare: lavoro da vecchi. I giovani combattono, e per questo le virtù della guerra sono virtù di giovani: il coraggio e la fiducia nel futuro. Poi vengono i vecchi e fanno la pace, e i vizi della pace sono i vizi di tutti i vecchi: la sfiducia e il sospetto.
Sfiducia e sospetto erano i vizi anche del senato della Roma repubblicana, che divenne ben presto qualcosa di più di un semplice consiglio degli anziani; nel complesso sistema istituzionale romano questo consiglio assunse via via funzioni proprie e definite e soprattutto finì per rappresentare gli interessi delle grandi famiglie, aristocratiche prima e borghesi poi, che avevano il controllo economico della città. Con l'impero il senato perse molte delle sue prerogative, anche se assumeva un ruolo, non sempre codificato, nel momento di passaggio da un imperatore all'altro.
Comunque sia diventare un senatore era un onore ambito a Roma, perfino di più di quanto lo sia oggi. I senatori antichi godevano di maggior potere e indiscutibilmente di maggior prestigio rispetto a quelli attuali, che però godono certo di maggiori benefit.
Per tornare alla definizione della nostra parola, nel diritto pubblico moderno, nei parlamenti bicamerali a regime monarchico il senato è la cosiddetta camera "alta", destinata ad accogliere, per diritto ereditario, i capi delle famiglie patrizie e, per nomina sovrana, i membri dell'alto clero e cittadini di particolari meriti sociali. Nei regimi repubblicani bicamerali il senato si differenzia in genere dall'altra assemblea per le diverse procedure che regolano l'elezione dei suoi membri e per un particolare prestigio simbolico. Spesso negli stati federali il senato è l'assemblea in cui i diversi stati sono rappresentati con lo stesso peso e quindi rappresenta l'unità della nazione.
Come noto in Italia la Costituzione del '48, attualmente in vigore, seppur con alcune gravi modifiche, prevede un sistema che i costituzionalisti chiamano bicameralismo perfetto. Tra le due camere non c'è alcuna differenza di ruolo e di funzioni. Il Senato della Repubblica ha un maggior prestigio puramente formale.
A tutt'oggi, cosa sia esattamente il senato immaginato da Renzi e da Berlusconi non è dato sapere.
Una costituzione perfetta non esiste, anzi non può esistere. Per cui diffidate da chi vi spaccia la sua come tale. Le costituzioni funzionano più o meno bene, soprattutto per come sono applicate, per come sono rispettate, ma anche per come sono state scritte. Funzionano meglio le costituzioni che hanno un disegno unitario, in cui c'è un'idea, più o meno espressa, più o meno esplicita, che tiene insieme le sue parti. Nella Costituzione del '48 un disegno unitario c'era. Le riforme costituzionali degli anni successivi questo disegno lo hanno abbandonato e la nostra Costituzione somiglia sempre più a un vestito da Arlecchino, con pezze di colori e tessuti diversi.
Il "nuovo" senato è l’ennesima pezza: vi lascio immaginare su quale parte del corpo sia stata cucita. I senatori non saranno più eletti dai cittadini, ma saranno nominati da grandi elettori regionali - che peraltro attingeranno dalle loro stesse fila - in base proporzionale al numero degli abitanti delle singole regioni. Se fosse un senato "federale" le regioni dovrebbero avere lo stesso peso, come avviene negli Stati Uniti, dove i senatori sono due sia per la California che per il Wyoming. Invece il Pd e Forza Italia hanno da sistemare propri sodali più in Lombardia e in Toscana che in Molise e quindi è saltata questa rappresentanza paritaria. I senatori non avranno più il potere legislativo, eppure godranno dell'immunità che giustamente è riconosciuta, in tutto il mondo civile, a chi esercita tale potere. Come ho scritto in un'altra definzione, questa immunità serve soltanto a garantire l'impunità a qualche amico sindaco o consigliere regionale, che quindi potrà finalmente rubare indisturbato.
Sembra un pasticcio questa riforma e, per molti versi, lo è. Ma c'è del metodo in questa follia. Intanto "lor signori", attraverso questi servi sciocchi - per tacer delle servette - sono riusciti a liberarsi di una camera e quindi di un pezzo del potere rappresentativo e democratico. Non è poco. Le assemblee elettive subiscono un duro colpo, anche quelle apparentemente non toccate dalla riforma, perché sono riusciti a dimostrare che queste non sono poi così indispensabili. E' la stessa cosa che hanno fatto con le Province, dove hanno eliminato solo il consiglio, lasciando in carica un presidente-podestà di nomina politica.
In un'altra epoca della nostra storia era verosimile che, diventato più maturo, dopo molti anni in cui aveva fatto il sindaco, diventasse senatore un uomo come Peppone, che certamente non era il più intelligente né il più brillante e certo non il più colto, ma che aveva buon senso e soprattutto rappresentava meglio di tutti gli altri - e anche meglio di don Camillo - la sua comunità. Con la grande riforma che si apprestano ad approvare Peppone non diventerebbe più senatore.

martedì 15 luglio 2014

Verba volant (105): sconfitta...

Sconfitta, sost. f.

Immagino che tra cinquanta o sessant’anni i bambini brasiliani che, lo scorso 8 luglio, hanno assistito con sgomento alla sconfitta umiliante della loro nazionale ricorderanno quella giornata, quella partita e anche quell’incredibile 7-1, con un misto di tenerezza e di nostalgia. Il tempo lenisce le ferite - specialmente queste superficiali - e ciascuno di noi è sempre indulgente con i ricordi della propria infanzia e della propria adolescenza. Pensate che quelli della mia generazione guardano già con nostalgia agli anni ’80, un periodo davvero piuttosto brutto, che ha probabilmente l’unico merito di averci visto ragazzine e ragazzini.
E poi gli dei del football hanno una particolare predilezione per quella terra lontana e tra qualche anno la Seleção tornerà a vincere e solleverà di nuovo, per la sesta volta, l’ambito trofeo.
Ovviamente, tra cinquanta o sessant’anni anche i bambini tedeschi proveranno la stessa allegra nostalgia, riguardando i filmati della cavalcata nibelungica dei loro eroi, perché certi sentimenti sono uguali in tutti gli emisferi. Però quella partita sarà ricordata sempre come la sconfitta del Brasile e non come la vittoria della Germania.
C’è, come ovvio, una ragione oggettiva: certamente i tedeschi sono stati bravissimi, ma una semifinale del campionato del mondo può finire con un simile passivo solo se una squadra smette di giocare e i brasiliani l’altra sera hanno semplicemente smesso di giocare a calcio, limitandosi a guardare la palla che entrava impietosamente - e ripetutamente - nella loro rete.
C’è però una ragione più profonda che attiene alla natura umana.
In quella sconfitta c’è stato qualcosa di epico e nell’epica tendiamo sempre aprendere le parti per quelli che perdono. Nel drammatico duello che conclude l’Iliade soffriamo per Ettore, ci dispiace vederlo cadere, vorremmo scendere anche noi dalle porte Scee, schierarci al suo fianco, e urliamo con Andromaca quando Achille, accecato dall’odio, infierisce sul suo cadavere, forandogli i piedi e trascinandolo nella polvere, attaccato al suo cocchio.
Quando i brasiliani si sono fermati, i tedeschi sono rimasti dapprima interdetti, poi non hanno resistito alla tentazione di fare gol - e d’altra parte chi di noi non avrebbe voluto scrivere il proprio nome nella storia di quella partita? - fino a quando Mesut Özil, quando era già lanciato a rete, ha deciso di sbagliare l’ottavo gol, ricordando a se stesso, ai suoi compagni e anche noi impotenti spettatori, la lezione dei suoi antichissimi avi troiani.
Il greco Omero sa che la sua storia non può finire così, perché altrimenti noi saremmo solo dalla parte dei nemici troiani; non possiamo amare né l’arrogante Agamennone né il furbo Odisseo, ma il poeta fa in modo che amiamo proprio l’iracondo Achille. Alla fine noi soffriamo con lui perché sappiamo che il suo destino è segnato: Achille morirà dopo la morte di Ettore e quindi Achille, uccidendo il comandante troiano, decide la sua stessa morte.
E l’Iliade si conclude finalmente con l’incontro tra l’eroe e il vecchio re Priamo che, senza scorta, si reca nel campo acheo per chiedere il corpo del figlio e quindi il grande poema della guerra si chiude in questo modo, con l’incontro di due grandi sconfitti.

lunedì 14 luglio 2014

Verva volant (104): garantismo...


Garantismo, sost. m.

Io ho imparato ad essere garantista grazie a un film e ad una serie di articoli dell’Unità.
Cominciamo dal film. La parola ai giurati - Twelve Angry Men, in originale - è stato il primo lungometraggio di Sidney Lumet del 1957. Cerco di rivederlo sempre quando lo trasmettono in televisione e spero l’abbiate visto anche voi.
Il film racconta la seduta di una giuria chiamata ad esprimersi su un caso di omicidio. La vicenda è apparentemente semplice: un uomo viene trovato morto in casa sua con un pugnale nel petto e il primo sospettato è il figlio, le cui liti con il padre erano molto frequenti. Il ragazzo è membro di una gang, è il colpevole ideale, e tutte le prove sembrano confermare che sia stato proprio lui. I membri della giuria sono convinti che il ragazzo sia colpevole, non sembra neppure necessario discuterne, tanto forte è l’evidenza dei fatti. Però uno dei dodici giurati - uno splendido Henry Fonda - getta un granello di sabbia nell’ingranaggio e dichiara di avere un ragionevole dubbio sulla colpevolezza del ragazzo e chiede di discutere nuovamente il caso. Il film è in sostanza la storia del modo in cui il giurato n. 8 convince gli altri undici suoi compagni che quel ragionevole dubbio esiste, sfidando le loro pigrizie, i loro pregiudizi, i loro rancori, i loro preconcetti. E proprio perché quel ragionevole dubbio esiste, il ragazzo non può essere condannato.
Parecchi anni fa, quando l’Unità non viveva la crisi in cui si trova in questi giorni - una crisi cominciata molto tempo fa e che temo purtroppo sia arrivata adesso al punto finale - tra i collaboratori del giornale c’era Mario Gozzini. Il politico e giornalista fiorentino aveva una rubrica settimanale in cui affrontava in particolare i problemi della giustizia. Gozzini ha legato il suo nome alla legge dell’86, grazie alla quale nel nostro paese si è affermato il principio della prevalenza della funzione rieducativa della pena.
Garantismo era allora una parola di sinistra, tanto che il Movimento sociale fu l’unico partito che votò contro alla legge proposta dal senatore del Pci. Anzi negli anni successivi fu sempre la destra ad accusarci di essere troppo lassisti, di essere buonisti, come si cominciò a dire, con un brutto neologismo. Anzi cominciò a passare l’idea che la sinistra per essere “moderna”, per sfondare al centro - soprattutto quando si affermò lo strano bipolarismo italiano - in sostanza per vincere, dovesse essere meno garantista. I sindaci del centrosinistra ad esempio assunsero come modello molto più Rudolph Giuliani e la sua tolleranza zero, piuttosto che le teorie garantiste di Gozzini, su cui pure anche loro si erano formati.
Legge e ordine divennero in qualche modo parole di sinistra. O almeno, anche parole di sinistra. Poi, quasi per un curioso contrappasso, fu la destra a sventolare la bandiera del garantismo, in particolare dopo che il leader indiscusso di quello schieramento cominciò ad essere oggetto di indagini: la storia è fin troppo nota perché io la racconti ancora una volta in questa sede. Il garantismo di Berlusconi è però qualcosa di molto diverso dal garantismo di Gozzini. E anche dal garantismo di Sidney Lumet. E’ il garantismo dell’impunità, per chi ha il potere e i soldi. E’ il garantismo dell’ingiustizia.
Ho visto che in questi giorni il novello leader del Pd ha rivendicato di essere garantista e di esserlo sempre stato - e il suo partito con lui - commentando la vicenda di Vasco Errani. Al di là del merito - personalmente anch’io credo che l’ormai ex presidente dell’Emilia-Romagna sia penalmente innocente e mi auguro riesca a dimostrarlo - trovo un po’ sospetto l’affanno con cui Renzi si è affrettato a dichiarare la sua fede garantista, peraltro verso una persona che non ama, che ha contribuito a isolare e che è ben felice di sostituire con un suo uomo di fiducia. Mi viene il sospetto che il cosiddetto patto del Nazzareno abbia un addendum segreto sulla giustizia, che presto ci sarà rivelato, e che, ancora una volta - come sta accadendo con le riforme istituzionali - ci farà digerire quello che fino a qualche anno fa ci pareva indigeribile.
A Renzi e al Pd interessa limitare l’autonomia della magistratura, in particolare di quella inquirente, magari sottomendola al potere esecutivo - in questo sarebbero perfettamente esauditi i desiderata di Berlusconi, ma anche quelli del Piano di rinascita nazionale di gelliana memoria. A Renzi e al Pd non importa nulla - al di là di qualche efficace e retorica petizione di principio - della condizione dei detenuti o delle difficoltà di applicare davvero i principi della legge Gozzini, che sono sempre più disattesi nelle carceri italiane, dove stanno ormai solo i poveri cristi, colpevoli o innocenti poco importa, che non possono pagarsi un avvocato abbastanza bravo da farli uscire.
Diceva Mario Gozzini:
Il pianeta carcere con i suoi abitanti non può essere considerato qualcosa di siderale, di «totalmente altro» da noi che ne stiamo fuori. È una parte della società che, a causa dei suoi comportamenti antisociali, dei reati commessi violando le leggi, sconta la pena inflitta al termine di un processo non solo legittimo, ma doveroso, inderogabile. Dunque la società libera non può lavarsene le mani come se non la riguardasse, deve, al contrario, farsene carico. Non ci si può limitare a chiedere che i rei siano posti in condizione di non nuocere più: ci si deve innanzitutto interrogare se del reato commesso non esista una responsabilità collettiva, sia pure indiretta, in quanto non abbiamo saputo intervenire in tempo per risolvere un disagio e prevenirne le conseguenze criminose, perché la prevenzione, di cui tanto si parla, non è delegabile interamente agli organi di polizia, è compito di tutti.
Ecco, per riformare la giustizia, io partirei da qui. E dal giurato n. 8. Piuttosto che dalla coppia di fatto Renzi-Berlusconi.

domenica 6 luglio 2014

Verba volant (103): asilo...

Asilo, sost. m.

Questa è una parola con una storia molto antica alle spalle. L'aggettivo greco asylon indicava quel luogo, solitamente un tempio - ieròn, in greco antico - o uno spazio comunque sacro, dove non c'era diritto di cattura, che in greco si dice appunto syle.
Quindi per gli antichi - e questo significato è passato nelle lingue moderne - l’asilo è l'immunità - una parola che in questi giorni torna in maniera ricorrente in Verba volant - concessa a chi, fosse uno schiavo fuggitivo o un delinquente o un prigioniero di guerra, si rifugiava in un luogo sacro. Come noto il diritto di asilo è la garanzia di inviolabilità accordata a stranieri rifugiati, per motivi politici, in territorio estero o in sedi che godono della extraterritorialità.
Partendo da questo significato, con la parola asilo si è cominciato ad indicare l'edificio destinato a ospitare, temporaneamente o permanentemente, speciali categorie di persone bisognose di ricovero, sorveglianza o assistenza.
E infine, in un caso particolare - oggetto della mia definizione di oggi - la stessa istituzione destinata alla tutela e all’assistenza di queste persone: penso in particolare - come probabilmente avrete già capito - all'asilo nido.
Probabilmente la prima struttura a chiamarsi così nel nostro paese è stato l’asilo di carità per l’infanzia, aperto dall’abate Ferrante Aporti a Cremona nel 1828. Quasi contemporanea è l’apertura di alcuni presepi, ad esempio quello in funzione dal 1842 per i figli degli operai delle cartiere Cini a San Marcello, vicino a Pistoia. Il termine presepe - che non prese piede nel nostro paese - corrisponde al termine francese crèche, che è il nome con cui viene ancora oggi chiamato l’asilo nido in Francia.
Nel 1850 a Milano viene fondato il primo ricovero per lattanti, ma anche in questo caso il termine non è riuscito a sfondare e infatti la parola ricovero è rimasta a indicare le strutture per ospitare gli anziani, all’altro capo della vita. Comunque già nei primissimi anni del Novecento le strutture dedicate all’infanzia hanno definitivamente cominciato a chiamarsi asili nido, nome che è rimasto tuttora a indicare questa istituzione, anche se ormai prevale, specialmente nel linguaggio familiare, il termine nido.
Ho fatto questo lungo excursus perché ho letto, seppur distrattamente, che il Comune di Bologna ha deciso di far nascere l’istituzione degli asili nido e delle scuole dell’infanzia, a cui “trasferirà” a breve tutti i servizi all’infanzia - nidi e scuole materne comunali - che ora fanno capo direttamente al Comune.
La cosa ha creato una qualche animazione nella morta gora della politica cittadina e perfino una qualche fibrillazione nella maggioranza. Di questo ovviamente mi importa assai poco. Ho una pessima opinione dell’attuale amministrazione della mia ex-città, la cui unica fortuna è quella di avere come pietra di paragone l’indifendibile amministrazione Delbono.
Confesso che non ho letto abbastanza per farmi un’opinione precisa sull’argomento. Ho l’impressione che sia un escamotage per rendere più “leggero” il bilancio del Comune, stretto dai vincoli imposti dai vari governi Napolitano che si sono succeduti in questi anni, i più centralisti dall’epoca di Bonaparte. In questo caso si tratta di un trucchetto degno del più ciarlatano degli imbroglioni da fiera, visto che alla fine i costi rimarranno sempre a carico della collettività. Qualcosa del genere hanno fatto gli amministratori di Parma che, per eludere i vincoli del patto di stabilità, hanno creato una serie di società partecipate che, sfuggite al controllo, hanno portato al fallimento di fatto del Comune qui nella città ducale. Immagino che Merola ci spiegherà che si tratta diun modo per rendere più efficiente e meno costoso il servizio; sarà, in fondo, concittadini, Virginio è un uomo d’onore.
C’è una cosa però che nella discussione di queste settimane non mi ha proprio convinto. Mi pare che sia stata tutta incentrata nel merito di questioni di carattere sindacale. Ci si è confrontati per lo più sul tema se l’istituzione avrebbe favorito o danneggiato i lavoratori - per lo più lavoratrici, a dire la verità - di quelle strutture. Il Comune spiega - e in questo gli posso perfino credere - che si tratta dell’unico modo normativo per rendere stabili i contratti a termine dei lavoratori precari, mentre una parte dei lavoratori dicono che questo toglierà loro alcuni diritti, che - bisogna ammetterlo - in alcuni casi sono privilegi rispetto alla condizione di altri lavoratori. Ho visto che la Cgil ha tentato di barcamenarsi come al solito tra queste due posizioni, con discorsi molto realisti - come quello dell’ex segretario della Camera del lavoro Danilo Gruppi - che condivido. Nelle condizioni date, poter salvaguardare dei posti di lavoro è già un risultato fondamentale.
Molti anni fa, alla fine del secolo scorso, mi sono occupato un po’ di servizi all’infanzia, facendo l’assessore nel mio piccolo Comune, e so bene che la qualità di un asilo nido è legata essenzialmente alle capacità di chi ci lavora. Le strutture sono importanti, gli ausili sono necessari, ma senza insegnanti brave e bravi - uso volutamente la parola insegnanti - un asilo nido semplicemente non c’è. Nonostante questo e con tutto il rispetto per le colleghe e i colleghi che lavorano negli asili nido di Bologna e di qualsiasi altro comune italiano - che fanno un lavoro difficile e prezioso - io continuo a pensare che i protagonisti del servizio non siano i lavoratori, ma le bambine e i bambini e quindi mi spiace molto che nella discussione bolognese sia mancato il loro punto di vista - e quello dei loro genitori. In sostanza la domanda giusta da porsi credo sarebbe stata: con l’istituzione il servizio funzionerà meglio o peggio? le bambine e i bambini staranno meglio o peggio?
Ricordo che in quegli anni lì - e anche prima - una “nostra” battaglia era quella di trasferire le competenze sugli asili nido dal ministero che si occupava dei servizi sociali a quello della pubblica istruzione, proprio perché volevamo sottolineare che consideravamo l’asilo nido una scuola a tutti gli effetti e le dade vere e proprie insegnanti. Francamente mi pare che questo sia un obiettivo molto sbiadito, che si sia perso nell’affannosa ricerca di far tornare i conti. Adesso il primo obiettivo è quello di far quadrare i bilanci e, in subordine, quello di offrire servizi di qualità. E proprio in nome della compatibilità economica abbiamo rinunciato alla gestione diretta dei servizi, li abbiamo appaltati, quasi sempre al massimo ribasso, abbiamo esternalizzato, privatizzato, in pratica abbiamo rinunciato a svolgere questo ruolo educativo che per me rimane essenziale e di cui credo che le bambine e i bambini abbiano bisogno.
Lottiamo allora per il diritto di asilo. Nido.

sabato 5 luglio 2014

Verba volant (102): immunità...

Immunità, sost. f.

L'aggettivo latino immunis è composto dal prefisso negativo in e da munus, che significa obbligo, servizio, anche imposta; l'immunità è quindi - in senso strettamente etimologico - il non essere soggetti a determinati obblighi o servizi e di conseguenza l'essere liberi.
Naturalmente esistono diverse forme di immunità.
Mitridate VI re del Ponto è ricordato, oltre che per la strenua resistenza con cui si oppose alla dominazione romana, per la sua immunità ai veleni. Il sovrano, che temeva di essere avvelenato - pratica abbastanza frequente in quei tempi, specialmente tra i potenti dell’Asia minore - escogitò un metodo che si rivelò molto efficace: si somministrava egli stesso il veleno, dapprima in dosi piccolissime e in seguito sempre maggiori, in modo da assuefare il suo organismo a diverse sostanze tossiche.
In questo modo riuscì ad evitare gli attentati alla sua vita, ma ovviamente non riuscì a bloccare l’avanzata inarrestabile delle truppe romane, che pure ci misero trent’anni per conquistare il suo paese. Per non cadere prigioniero degli odiati nemici, Mitridate decise di uccidersi, ma il veleno ovviamente non fu efficace ed era ormai troppo vecchio per colpirsi con la spada. Secondo alcuni storici un suo ufficiale brandì il colpo mortale, su ordine dello stesso re, mentre secondo altri furono i sicari che egli aveva mandato ad uccidere il figlio, che nel frattempo si era alleato con i Romani, a cambiare bandiera, offrendo la testa del vecchio re ai nuovi padroni. Cose che succedevano allora in Asia minore; e che succedono ancora adesso, anche se con minor spargimento di sangue. Forse.
In medicina è stata coniata la parola mitridatismo proprio per indicare la particolare forma di resistenza acquisita a veleni, introdotti a dosi dapprima minime e poi progressivamente crescenti. Si tratta di un fenomeno che si verifica quasi esclusivamente quando il veleno viene somministrato per via orale, grazie alla diminuzione progressiva dell’assorbimento intestinale nei confronti di quella determinata sostanza tossica.
Il mitridatismo è una pratica diffusa anche in politica, anche se ovviamente non si chiama così. Un esempio lampante di questo processo sul corpo vivo del paese è il percorso delle cosiddette riforme istituzionali.
Se “lor signori” avessero tentato di cambiare la Costituzione tutta in un colpo ci sarebbe stata una qualche reazione e così hanno cominciato con piccole modifiche, poco significative: una parola aggiunta lì, un aggettivo tolto là. Mentre facevano questi piccoli ritocchi, ci rassicuravano che la prima parte non l’avrebbero mai toccata, ci dicevano che la nostra era la Costituzione più bella del mondo; hanno perfino ingaggiato uno dei loro più famosi giullari per fargli fare uno speciale televisivo, dedicato proprio alla “poesia” della nostra Costituzione. Aggiungevano però che in fondo era stata scritta tanto tempo fa e che quindi qualche aggiustamento qui e lì era necessario, per renderla moderna. E noi zitti, abbiamo bevuto le prime dosi di veleno, anzi abbiamo anche chiesto di aumentare un po’ la dose, pretendendo sempre nuove leggi elettorali.
Loro però hanno continuato a inoculare il veleno e infatti i cambiamenti sono stati via via sempre più forti, sempre più radicali. Sempre più eversivi. Dal novembre 2011 poi hanno rotto ogni indugio e, assicurandoci che la cura era inevitabile per combattere gli effetti della crisi, il Dottor Morte che siede al Quirinale e i suoi sottoposti di palazzo Chigi hanno cominciato a farci bere il veleno a dosi da cavallo. Hanno smesso anche di fingere, non ci dicono più che non cambieranno mai la prima parte della Costituzione e immagino che qualcuno stia già scrivendo questi nuovi articoli, come è stato chiesto - in maniera esplicita ed onesta, forse troppo onesta - dal centro studi del Fmi, che ha individuato come ostacolo all’affermarsi del finanzcapitalismo proprio le Costituzioni scritte all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, a loro avviso troppo di sinistra e progressiste.
E quindi hanno introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione, una piccola rivoluzione, passata nel silenzio e nell’indifferenza generali. Poi hanno abolito le Province o meglio non le hanno proprio cancellate del tutto, hanno soltanto abolito le elezioni provinciali, per cui questi enti rimarranno in piedi, con le loro funzioni, ma saranno gestite da persone scelte da loro. Con il pretesto di abolire la casta, le hanno dato più potere; e noi non solo siamo stati zitti, abbiamo pure applaudito e ringraziato. Allo stesso modo non aboliranno il senato, semplicemente hanno abolito le elezioni. Ci tolgono un fastidio: ci penseranno loro a nominare i nuovi senatori. Così piano piano ci abitueremo a non votare. E noi ancora zitti, assistiamo al dibattito di questi giorni un po’ distratti dagli occhioni della Boschi, ma soprattutto intorpiditi dal veleno, che ormai ha fatto effetto. Siamo immunizzati a tutte le loro nefandezze.
A proposito di immunità, la Costituzione del ’48 - ormai la chiamano così, per farci capire quanto sia vecchia - prevede un istituto che si chiama immunità parlamentare.
Il testo originale dell’art. 68, scritto dai Costituenti, recitava:
I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
Sull’onda dell’indignazione per le inchieste di Mani pulite ci fu una di quelle riforme di maquillage, di cui parlavo prima e adesso nel “nuovo” art. 68 c’è scritto
I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
In sostanza non era cambiato nulla, ma ci fecero credere che l’immunità parlamentare, che era considerata un inaccettabile privilegio, fosse stata abolita.
Personalmente sono favorevole all’immunità parlamentare - lo sono adesso,come lo ero allora - perché si tratta di un istituto necessario in ogni democrazia parlamentare come la nostra, ma adesso, a parte la pantomima sulla primogenitura della proposta, è diventata davvero un privilegio ingiustificabile. Introdurla per il nuovo senato “regio” è una decisione costituzionalmente grave; infatti non è necessaria per tutelare l’indipendenza dei nuovi senatori, che non avranno alcun potere reale, ma servirà soltanto a garantire l’impunità di alcuni gaglioffi - amici degli amici - che, da sindaci e da presidenti della regione, potranno rubare con maggior tranquillità di quanto facciano già adesso.
Ma noi, grazie al veleno, stiamo zitti, anzi battiam, battiam le mani.

martedì 1 luglio 2014

da "Orlando furioso" (V, 1-3) di Ludovico Ariosto


Tutti gli altri animai che sono in terra,
o che vivon quieti e stanno in pace,
o se vengono a rissa e si fan guerra,
alla femina il maschio non la face:
l'orsa con l'orso al bosco sicura erra,
la leonessa appresso il leon giace;
col lupo vive la lupa sicura,
né la iuvenca ha del torel paura.

Ch'abominevol peste, che Megera
è venuta a turbar gli umani petti?
che si sente il marito e la mogliera
sempre garrir d'ingiuriosi detti,
stracciar la faccia e far livida e nera,
bagnar di pianto i geniali letti;
e non di pianto sol, ma alcuna volta
di sangue gli ha bagnati l'ira stolta.

Parmi non sol gran mal, ma che l'uom faccia
contra natura e sia di Dio ribello,
che s'induce a percuotere la faccia
di bella donna, o romperle un capello:
ma chi le dà veneno, o chi le caccia
l'alma del corpo con laccio o coltello,
ch'uomo sia quel non crederò in eterno,
ma in vista umana uno spirto de l'inferno.