mercoledì 29 gennaio 2014

Verba volant (56): memoria...

Memoria, sost. f.

Secondo la mitologia greca Mnemosine era la dea della memoria. Si tratta di una divinità molto antica, nata prima di Zeus e degli dei olimpii. Esiodo infatti racconta che era figlia di Urano, il Cielo, e di Gea, la Terra, e quindi sorella di Crono, il padre di Zeus, e dei Titani. Sempre l’autore della Teogonia racconta che Mnemosine - che nella lotta tra gli dei e i Titani si era schierata con i primi - venne amata da Zeus, che le apparve sotto forma di pastore. Da quelle nove notti d’amore sui monti della Pieria nacquero le nove Muse.
Diodoro Siculo, nel libro V della Bibliotheca historica, spiega che Mnemosine aveva scoperto il potere della memoria e che lei stessa aveva assegnato i nomi a molti oggetti e alle cose astratte che servono agli uomini per capirisi durante le conversazioni. Per questo, in qualche modo, Mnemosine è anche la dea di questo dizionario sui generis.
Mnemosine esercita un potere arbitrario quando assegna i nomi alle cose e infatti la memoria è qualcosa di fondamentalmente arbitrario.
Parlate con uno dei vostri vecchi di casa e vi accorgerete che spesso non sono in grado di ricordare cosa hanno fatto pochi giorni fa, ma vi sanno descrivere - con un’incredibile dovizia di particolari - un episodio capitato cinquant’anni fa; naturalmente non avete nessuna possibilità di verificare quei particolari e non potete far altro che confidare della memoria di chi ve li ha raccontati.
Fondamentalmente è per questa stessa ragione che le memorie sono il genere storiografico più infido e carico di menzogne. Chi scrive a volte mente intenzionalmente, anche se per lo più lo fa inconsciamente: è davvero convinto che le cose siano andate proprio come le lui le ricorda, anche se non è vero.
Io sono uno che cerca di esercitare il più possibile la memoria, ovunque ne ho l’occasione e specialmente attraverso questi mio blog e i miei post sui social network, ma anche la mia memoria è deliberatamente e dichiaratamente arbitraria. Ricordo a me stesso e a chi mi legge quello che penso sia importante ricordare e che ritengo ingiustamente dimenticato. Per questo motivo non manco di ricordare le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna, non perdo gli anniversari della morte di Antonio Gramsci e di Giacomo Matteotti, ricordo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’apartheid in Sudafrica. E molto altro, come avete spesso la pazienza di vedere.
L’importante è essere consapevoli che si tratta di scelte, in questo caso le mie scelte, perché questa è appunto la mia memoria.
Ad esempio, l’11 settembre la memoria mainstrem ricorda l’attentato alle Twin towers; io sono uno di quelli che ricorda invece il golpe americano in Cile e l’uccisione di Salvador Allende. Ci sono memorie più o meno importanti? Per me sì e mi assumo il rischio di fare queste scelte. Ciascuno di noi lo fa, nella sua vita privata come in quella pubblica. Ciascuno di noi ricorda gli episodi della sua vita che vuole ricordare, magari migliorandoli e trasformandoli un po’, e ne dimentica altri.
Anche per questo io diffido come la peste da chi parla di memoria condivisa. La memoria condivisa è una menzogna: è solo il modo per chi è al potere di imporre agli altri la propria memoria. E per annebbiare - o annullare del tutto - le altre memorie. Infatti è importante dire che la memoria è sempre plurale.
Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria: è un giorno importante, di quelli che apparentemente ricordiamo quasi tutti, vincitori e vinti, qualunque sia la nostra convinzione etica e politica. Non è assolutamente mia intenzione “rovinare” la festa, penso siano importanti tutte le manifestazioni, anche quelle fatte soltanto per obbligo istituzionale, credo sia importanti tutte le parole dette oggi, anche quelle dette senza convinzione e solo per puro esercizio retorico.
La memoria infatti è sempre più forte di noi, dei nostri tentativi di manipolarla e di usarla. La memoria è una dea, molto antica, più antica degli altri dei, di quelli che tengono il potere e di quelli che presiedono alle altre arti. E quindi si può far beffe di questi piccoli maneggi dei mortali.

venerdì 24 gennaio 2014

Verba volant (55): preferenza...

Preferenza, sost. f.

Questa è una parola dalla storia interessante, che negli ultimi 30 anni ha avuto alterna fortuna.
Partiamo, come sempre, dall'etimologia: il verbo latino praefèrre, poi diventato della quarta coniugazione nella forma praeferire, è composto di prae, ossia avanti, e ferre, ossia portare, e quindi letteralmente significa portare avanti.
Una mamma, per definizione, non ha una preferenza per uno dei suoi figli e negherà in ogni circostanza di averne, senza mentire, perché sa di voler bene a tutti nello stesso modo; anche se, magari inconsciamente, ha verso uno di loro maggiori preoccupazioni, dimostra una qualche forma di maggiore tenerezza.
C’è ad esempio questa mamma che conosco io: ha due figli, Enrico e Matteo. Ovviamente vuole bene ad entrambi, li ha educati allo stesso modo, punendoli, se del caso, e premiandoli con la stessa equità. I due fratelli sono molto diversi, il maggiore, Enrico, è un bambino serio, ben educato, che risponde a tono, molto bravo a scuola, uno di quelli su cui gli amici possono contare, anche se volte rischia di essere un po’ noioso e soprattutto è molto permaloso. Matteo, il minore, è più simpatico, fa gli scherzi, non sta mai attento a quello che dice, gli amichetti lo cercano perché inventa sempre nuovi giochi, a scuola fa più fatica, anche se in qualche modo se la cava sempre.
La mamma è comprensibilmente più preoccupata per Matteo, pensa che farà più fatica del fratello quando sarà grande: io la vedo che lo guarda con un misto di tenerezza e di rassegnazione, quando ne combina una delle sue. Anche se non lo vuole far vedere, ha una preferenza, specialmente quando i due litigano, ad esempio perché Matteo ha rubato un giocattolo a Enrico e lui fa il broncio e si chiude nella sua camera. Magari le sue preoccupazioni si riveleranno infondate e alla fine sarà proprio Matteo a far maggior fortuna. Chissà.
So che pensate che io stia divagando e volete che dica la mia sulle preferenze. Poi, se avete tempo e voglia qui ho scritto qualche “considerazione” un po’ più seria.
Io nel 1990 presi 82 preferenze alle elezioni per il Consiglio comunale di Granarolo e venni eletto. Avevo vent’anni e quegli 82 elettori scrissero il mio nome sulla scheda perché così aveva deciso il partito - allora c’era il Pci - e perché conoscevano i miei genitori. Io non ebbi alcun merito; nelle elezioni successive ne ho prese alcune di più: spero almeno quelle di essermele meritate.
Funzionavano allora le preferenze? Funzionava il partito - almeno a Granarolo, nel contado bolognese funzionava ancora - era in quella sede che venivi vagliato e messo alla prova. In altre parti del nostro paese le preferenze multiple divennero un elemento di corruzione politica. Servì il film Il portaborse di Daniele Lucchetti a svelare agli italiani - almeno a quelli che non praticavano quei traffici - come funzionava il sistema del controllo dei voti attraverso il gioco delle preferenze. Tanto che nel ’91 il referendum per l’abolizione delle preferenze multiple fu vissuto da molti di noi come una palingenesi del sistema politico italiano; sappiamo purtroppo come è andata a finire. Eravamo ingenui allora; io almeno lo ero.
Io non sono un pasdaran delle preferenze e francamente non ho mai condiviso l’enfasi per introdurle nuovamente nella legge elettorale. Finiti i partiti le preferenze sono diventate un mezzo per eleggere i più corrotti, ossia quelli che potevano comprarne di più; il caso Fiorito, solo per dirne uno dei più eclatanti, è la dimostrazione più evidente che non è questo il modo questo per rendere più pulita la politica italiana. Ovviamente so che le liste bloccate sono il modo per eleggere i meno intelligenti e i più devoti ai capi.
Mi rendo conto che l’alternativa rischia di essere tra ladri e cretini: una prospettiva non entusiasmante.
Io, a essere sinceri, una preferenza ce l’ho e ve la confido volentieri. Quando mi chiederanno di essere votati, risponderò come Bartleby lo scrivano: preferirei di no.

martedì 21 gennaio 2014

Considerazioni libere (383): a proposito della nuova legge elettorale...

Quello che è successo negli ultimi giorni credo meriti una riflessione un po' più compiuta rispetto alle battute, anche se ammetto che è fin troppo semplice prendere in giro uno come Renzi. Lascio quindi per oggi le definizioni di Verba volant e metto in fila alcune riflessioni che ho fatto in questi giorni e che ho in parte pubblicato su faccialibro.
Al di là degli aspetti tecnici - su cui tornerò dopo - c'è soprattutto una cosa che mi ha disturbato nell'analisi che hanno fatto Renzi e i renziani a proposito della legge elettorale. Secondo me - e mi pare anche secondo altri - la porcata calderoniana deve essere criticata in sé, ossia a prescindere dal risultato, essenzialmente per due motivi: perché assicura a una minoranza elettorale la maggioranza parlamentare - siamo lontani anni luce dalla "legge truffa" di degasperiana memoria che assegnava il 65% dei seggi della Camera alla lista che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi - e perché non c'è alcuna forma di controllo e di scelta degli eletti da parte degli elettori, anche se non bastano le preferenze a far sì che un parlamento sia davvero democratico.
Comunque sia, Renzi ieri ha fatto capire in maniera abbastanza esplicita che l'attuale legge elettorale non deve essere cambiata perché anticostituzionale, ma perché non funziona, ossia perché - essendoci un diverso meccanismo di calcolo tra la Camera e il Senato - non assicura maggioranze omogenee e quindi la tanto auspicata governabilità. Per Renzi - e temo per molti altri nell'ex-Pd, compresi quelli della cosiddetta minoranza, il porcellum deve essere cambiato soltanto perché non li ha fatti vincere. Tanto è vero che il punto centrale della proposta del già sindaco di Firenze non è la riforma vera e propria della legge elettorale, ma la fine del bicameralismo perfetto e la trasformazione del Senato in un'altra cosa rispetto ad un'assemblea legislativa.
Nel merito della proposta sulla nuova legge elettorale - l'Italicum - non cambia sostanzialmente nulla rispetto alla legge vigente. Chi raggiunge, da solo o in coalizione, poco più di un terzo dei voti governerà da solo e i parlamentari saranno scelti - come ora - dai leader di partito; difficile trovare le trovare le differenze con il porcellum, anche per un campione di Aguzzate la vista della Settimana enigmistica. Renzi, che sarà pure folkloristico, ma è parecchio furbo, si è inventato la bufala del doppio turno, che non scatterà mai, perché è assai improbabile che una coalizione non raggiunga un terzo dei voti, un po' perché ormai esiste un sistema tripolare e soprattutto perché, alla bisogna, rinasceranno le coalizioni stile Unione - visto lo sbarramento dell'8% per chi non farà parte di una coalizione.
Quindi alle prossime elezioni si confronteranno, al netto del risultato di Grillo - che comunque non bisserà il successo delle ultime elezioni - una coalizione di cosiddetto centrosinistra, imperniata su Renzi, con lo scudiero-narratore Vendola e rimasugli vari del centro, e una di destra, da Casini ai fascisti, intorno a B., a cui si accoderà anche il povero Angelino, a cui non si può certo chiedere di fare il leone. Al di fuori rimarranno la nuova Lega lepenista e forse una sinistra radicale che speriamo non sia un'aborto politico come la lista Ingroia. Dato che la matematica non è un'opinione, una delle due coalizioni supererà di poco il quorum e governerà, da minoranza, il paese. Naturalmente non si terrà conto di quelli che - come me - non voteranno, perché gli assenti hanno sempre torto.
Per far digerire la mancanza delle preferenze poi sono state introdotte le liste "piccine picciò", in modo che i cittadini conoscano gli eletti: si tratta di una voglia di fico molto trasparente, che fa vedere cosa c'è sotto, e non è un bello spettacolo.
Personalmente, nel merito della questione, rimango affezionato alla proposta - che un tempo ricordo andava per la maggiore nel partito in cui militavo - del doppio turno di collegio, come in Francia. In questo modo, durante il primo turno - con spirito proporzionale - ci si conta e l'elettore può votare il partito e il candidato che gli piace di più, mentre nel secondo turno - con spirito maggioritario - si sceglie il partito e il candidato meno sgradito, per vincere e garantire la governabilità. Questo sistema ha poi il merito di radicare il parlamentare al territorio. Sono abbastanza vecchio per ricordarmi come ha funzionato la scelta dei candidati nei collegi, quando c'erano, e non sono così ipocrita da dire che non non ci fu una scelta che teneva conto di equilibri politici altri rispetto agli stessi collegi - a Bologna e in Emilia-Romagna lo vedemmo bene, visto quanti candidati dovemmo "ospitare" nei nostri collegi - eppure quel sistema era meglio di questo e permise di vincere, anche per la capacità di uno come Mauro Zani di scegliere persone adatte ai collegi. Questo però presuppone che i collegi - ossia il paese - bisogna conoscerli, e bene, e non so quanti di quelli che ci sono ora siano in grado di farlo. Servirebbe semplicemente un partito, ma dell'ex-Pd si possono dare molte definizioni, ma non certo chiamarlo partito.
Comunque, come vado dicendo da ormai un po' di tempo, francamente a questo punto non mi pare neppure troppo rilevante quale sia la nuova legge elettorale. Il problema vero infatti è la riforma costituzionale strisciante - e non dichiarata - fatta in questi anni per ridurre gli ambiti della democrazia, per annullare di fatto le prerogative del parlamento e delle autonomie locali, per delegittimare i partiti, che peraltro hanno fatto di tutto e di più per delegittimarsi. L'obiettivo - come dicono ormai senza infingimenti quelli delle autorità finanziarie internazionali - è modificare in maniera radicale le Costituzioni nate dopo la fine della seconda guerra mondiale, in senso autoritario. Il problema è la mancanza di democrazia, reale e sostanziale, che nessuna legge elettorale può ricostruire. Non c'è democrazia dove le decisioni popolari sono disattese, dove gli organi elettivi sono esautorati e dove è sistematicamente violata la Costituzione, ma soprattutto non c'è democrazia dove ci sono povertà e crisi; in Italia adesso chi prende le decisioni vuole che continui ad essere così.

Verba volant (53): sintonia...

Sintonia, sost. f.

Il già sindaco di Firenze, quando ha detto che c'è "piena sintonia con Forza Italia", probabilmente non lo sapeva - lo studio dell'etimologia non è richiesto per partecipare alla Ruota della fortuna né tanto meno alle primarie alle Pd - ma sintonia è una parola che deriva direttamente dal greco antico.
Il termine infatti è composto da sun, che significa con, insieme, e da tonos, che significa suono, nota; in sostanza questa parola indica l’accordo di chi suona o canta insieme.
In politica - specialmente in Italia - si dice spesso che questo o quel personaggio se la canta e se la suona. Ma questa era la vecchia politica. Adesso è arrivato il giovane Renzi e tutto è destinato a cambiare. Matteo infatti, erede degli ideali neoplatonici di altri illustri fiorentini, come Lorenzo de' Medici, vuole abbandonare questa politica solipstica, incapace di comunicare, chiusa in se stessa, ed ha avviato la ricerca della sintonia suprema.
Quanta invidia gli sta procurando questo sforzo, quanta cattiveria si alimenta contro di lui, solo perché si ostina a coltivare l’armonia degli opposti. Forse voi ingenuamente pensate che sia semplice dire il giorno prima che “quando un leader politico viene condannato in maniera definitiva è game over” e il giorno dopo incontrare quello stesso leader condannato e anzi fare con lui la legge elettorale. Non è facile, ma Matteo coltiva la sintonia e riesce a fare anche questo.
E quanta sintonia Matteo dimostra verso il suo buon amico Enrico, tanto da dichiarare che i suoi dieci mesi di governo - in verità sono stati otto, ma neppure la matematica è richiesta per partecipare alle primarie del Pd - sono stati un fallimento.
E non è un gesto di eroica sintonia voler continuare a fare il sindaco di Firenze pur essendo segretario di partito e futuro candidato alla presidenza del consiglio? Solo un uomo con l’abnegazione di Renzi potrebbe accettare questo sforzo.
Renzi ha qualche anno meno di me, ma credo ricordi anche lui quando non esisteva ancora il telecomando e il televisore aveva soltanto due grandi manopole: volume e sintonia. Ecco qui nasce l’irresistibile ascesa dell’emulo di Arthur Fonzarelli, la sua precoce e tenace ideologia politica.
Matteo, gira la manopola, che non si vede Capodistria.

lunedì 20 gennaio 2014

Verba volant (54): orfano...

Orfano, agg. e sost. m.

Orfano è una parola che arriva direttamente dal greco antico e ha un'evidente connessione etimologica con orbo; l’orfano infatti è colui a cui manca qualcosa, e segnatamente uno o tutti e due i genitori.
Al di là del significato letterale molto conosciuto, l’aggettivo ne ha anche uno figurato. Si dice ad esempio che le sconfitte spesso siano orfane; è vero e ne sanno qualcosa i miei ex-compagni del Pd. Però ho deciso di definire questo aggettivo perché il 24 gennaio prossimo scadrà il termine per pagare la cosiddetta mini Imu, che è appunto una tassa orfana. Naturalmente in questa scelta c’entra anche il fatto che mia moglie lavora al caaf della Cgil e quindi questo in casa nostra è l’argomento del giorno, ma non è solo questo. Vedrete.
Le tasse in generale sono orfane, perché chi le mette non ha particolare piacere ad associare il proprio nome a qualcosa che i cittadini evidentemente non amano. A essere onesti però non è sempre stato così; mi tocca, ancora una volta, tornare ai tempi della vituperata - e anche con buone ragioni - “prima Repubblica“.
Quando ero bambino - ossia parecchi anni fa - mio nonno, andato in pensione dopo aver lavorato molti anni in Comune a Granarolo - si mise a fare le denunce Vanoni; forse qualcuno dei miei lettori più vecchi ricorderà quando le persone chiamavano ancora così le dichiarazioni dei redditi, quelle che poi noi abbiamo cominciato a identificare, più burocraticamente, con i numeri dei modelli: 740, 730 e così via.
Permettetemi una brevissima digressione personale, che non c’entra con l’argomento, ma che voglio fare comunque. Questo mio nonno, il padre di mia madre, era un vecchio socialista, fiero della sua lunghissima militanza nel Psi. Vidi i bilanci che faceva per le primissime Feste dell’Avanti, in cui erano contabilizzati, con metodo, anche i mezzi polli. Per fortuna mio nonno non ha visto la fase dei ladri di polli, ma questa è davvero un’altra storia.
Torniamo alla denuncia Vanoni. La dichiarazione dei redditi si chiamava così perché fu introdotta da Ezio Vanoni, vecchio democristiano valtellinese, ministro delle finanze dal ’48 al ’54, il padre della riforma tributaria italiana, che portò all’obbligo delle dichiarazioni dei redditi annuali. Nonostante tutto, altra razza rispetto a quelli di adesso.
La mini Imu invece non porta il nome di nessuno. Questo governo, che pure l’ha varata, fa finta di nulla, anche perché cerca di farsi ricordare, oltre che per la durezza degli attributi del premier, come il primo governo che ha diminuito le tasse. Come ovvio si tratta di una bugia, ma Letta - e il suo ispiratore dal Colle più alto - sperano che valga la regola che una bugia ripetuta finisce per diventare una verità, o almeno una mezza verità. A loro basterebbe, visto come sono messi.
Neppure i sindaci, che pure incasseranno questi soldi, hanno una particolare voglia di arrogarsi il merito di questa tassa. Un po’ perché molti di loro sono dello stesso partito del presidente del consiglio e soprattutto perché non vogliono ricordare che questa tassa si paga proprio perché, tempo fa, loro hanno aumentato le aliquote, sperando che i cittadini non se ne accorgessero o che comunque dessero la colpa al governo di Roma. Poi, siccome non sanno neppure come useranno questi soldi, preferiscono abbozzare, non dire niente, far passare il 24 gennaio. Ad esempio nel mio Comune non hanno messo neppure un manifesto per ricordare che la tassa si deve pur pagare.
La mini Imu è proprio orfana di madre vedova. Fate un’offerta, il Signore ve ne renderà merito.

venerdì 17 gennaio 2014

Verba volant (52): rimpasto...

Rimpasto, sost. m.

So che quando faccio certe affermazioni rischio di creare lo sconcerto nei miei lettori più giovani, però è ora che sappiate la verità: c’è stato un tempo - e io c'ero - in cui non esisteva MasterChef, non esistevano i blog di cucina, ma solo i ricettari, e in cui i cuochi stavano soltanto in cucina.
E proprio in quell'epoca lì, quando le ricette erano soltanto quelle delle mamme e dell'Artusi, abbiamo cominciato a usare la parola rimpasto in senso figurato. Questa parola significa propriamente sia l'operazione di rimpastare sia la cosa stessa rimpastata. A sua volta, la parola pasta deriva dal latino pastus, che indica il nutrimento e infatti la pasta è l’alimento tipico del nostro paese.
Con il passare degli anni poi con rimpasto si è cominciato a descrivere la sostituzione di uno o più ministri e sottosegretarî in un governo, e, spesso, il contemporaneo passaggio di qualcuno di essi da un dicastero all’altro, senza che vi sia la caduta del gabinetto stesso.
Come ho detto, si tratta di una pratica antica, che ritroviamo anche nei governi del Regno d’Italia e sotto il fascismo, anche se la propaganda del regime allora preferiva parlare di rotazioni. Però bisogna riconoscere che è stata la Democrazia cristiana la vera, insuperata, maestra dei rimpasti. Bastava un piccolo scandalo per dare il via al tourbillon degli incarichi di governo e di sottogoverno, per sistemare i delicati equilibri delle correnti, per mettere in una posizione di potere un amico o per togliere da un’altra un nemico.
Il fatto che il presidente del consiglio e i segretari dei due partiti che sostengono l’attuale esecutivo provengano tutti e tre dalla Democrazia cristiana potrebbe farci sperare che quegli anni gloriosi siano tornati, ma - ahimé - non è così. Dov’è l’eleganza di un Filippo Maria Pandolfi? E dove la maniaca precisione di Giovanni Marcora? E Franco Maria Malfatti? E Vittorino Colombo?
Guardate le foto in bianco e nero di questi campioni del passato, hanno un’aria così dimessa, sembrano chiedersi ogni volta: ma che ci faccio qui? Che impareggiabile modestia.
Come fai a “rimpastare” questi che ci ritroviamo ora. Anche rimpastata la De Girolamo rimane la sboccata signorotta del Sannio che abbiamo conosciuto e ad Orlando per rianiamarlo servirebbe una centrifugata, non un rimpasto.
Il Pianigiani, nella sua profonda dottrina, dice che nell’etimologia di pasta si coglie anche l’influsso del diminutivo pastillus, ossia la pastiglia odorosa che si masticava per rendere gradevole l’alito, evidentemente non proprio profumato dopo libagioni abbondanti.
Dopo il rimpasto che cucineranno Letta e i suoi aiutanti di brigata credo servirà una buona dose di quelle pastiglie.

giovedì 16 gennaio 2014

Verba volant (51): amante...

Amante, sost. m. e f.

Si tratta evidentemente di una forma verbale, il participio presente del verbo amare; questa parola nel tempo - oltre a indicare chi innocentemente e pubblicamente ama il proprio amato o la propria amata - definisce ormai quella persona che ha una relazione amorosa extraconiugale e segreta.
Come noto, da pochi giorni i cugini francesi - e noi con loro - hanno scoperto che François e Julie sono amanti, ai danni della povera Valérie. Tecnicamente non si tratta di una storia extraconiugale, in quanto non c'è matrimonio da violare, ma in Francia hanno fatto enormi passi in avanti in questo campo e quindi a tutti gli effetti Valérie, oltre che prima première dame non sposata della storia della V Repubblica, è diventata, malgré soi, la prima moglie tradita non sposata. Invece la storia ha mantenuto il carattere della segretezza, almeno fino a quando quelli di Closer non hanno avuto la fortuna di imbattersi in questa storia.
Una grande fortuna, perché le storie di corna funzionano sempre, ce lo hanno insegnato romanzieri, drammaturghi, cineasti; francesi e non solo. E infatti tutti, pagato il nostro ipocrita obolo alla difesa della privacy, fatta l’inutile premessa che in fondo “sono solo fatti loro“, ci siamo gettati a capofitto a leggere cronache, a spulciare interviste, a guardare foto per sapere particolari sempre più intimi e possibilmente morbosi della liaison presidenziale.
Come sapete questo sostantivo non si declina per genere e quindi può indicare sia un uomo che una donna, come nel nostro caso. Siccome però le lingue - come la storia - le fanno i vincitori e da sempre vincono i maschi, questa parola nella sua accezione femminile si carica di un sottinteso negativo che non troviamo in quella maschile. E anche nella storia di questi giorni non manca questo lontano, ma persistente, pregiudizio.
Chi ha sedotto chi? Julie, è stata Julie, diranno subito i miei piccoli lettori. E’ lei la rovinafamiglie. Il povero François non ha potuto far nulla di fronte alla bellezza e allo charme di questa giovane attrice (anche questa professione, specialmente quando si tratta di donne, si porta dietro qualche pregiudizio di troppo).
Anzi credo che qualcuno comincerà a rivalutare il povero François, che - nonostante quella sua aria da impiegato di concetto - è riuscito ad avere una moglie, una quasi moglie e un’amante belle e intelligenti come ha avuto il presidente francese. François cadrà in piedi, nella migliore tradizione degli inquilini dell’Eliseo, mentre Julie sarà sempre l’amante di. Almeno, se Valérie l’avrà vinta e quindi François tornerà pentito al talamo nuziale, Julie potrà sempre partecipare ai reality, un’opportunità inedita per le amanti dei presidenti in altre epoche.
Per noi italiani poi è particolarmente doloroso leggere quello che succede in questi giorni in Francia, perché ancora una volta si dimostra la superiorità dei cugini transalpini. Il loro presidente per andare a letto con una giovane donna non deve neppure pagare.
Visto che l’amore è per fortuna anche altro, chiudo questa definizione con una storia che gli amici psicologi - la psicologia è una disciplina che confina con la filosofia e con altre scienze inutili di tal fatta - ricorderanno: il paradosso dell’amante.
La protagonista di questo breve apologo è una donna brillante, raffinata e molto colta. La donna ha due corteggiatori, il primo coltiva l’ideale dell’amore cortese, condivide con lei interessi intellettuali e spirituali, e si ritira ogni volta che deve dichiarare il proprio amore; il secondo è decisamente più spregiudicato e infatti non tergiversa e si dichiara. Il primo, nonostante il suo amore sia più forte di quello del rivale, finisce per rimanere un confidente della donna, un amico e non avrà mai l’occasione di raggiungere con lei un‘intesa sessuale, proprio in nome dell’amore che ha verso di lei.
Schopenhauer racconta più o meno la stessa storia nel paradosso dei porcospini.
Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.
La speranza è riuscire a trovare quella posizione. Vi auguro di riuscirci.

lunedì 13 gennaio 2014

Verba volant (50): morte...

Morte, sost. f.

Questa è una parola decisamente complicata, difficile da affrontare e da definire, anche perché è terribilmente difficile ragionare di questo tema.
Morte è una parola antica, che deriva dal latino mors e ha una radice mr che risale all'indoeuropeo e che si ritrova nel sanscrito e in molte altre lingue antiche.
Ho deciso di scrivere questa definizione perché Zaira mi ha segnalato e letto un articolo pubblicato su Time. E' utile leggere i giornali stranieri, scoprirete che c’è un mondo là fuori, oltre Letta, Grillo e Berlusconi.
L’articolo racconta la storia di due giovani donne degli Stati Uniti. Jahy aveva 13 anni ed è morta il 9 dicembre scorso in un ospedale della California, a causa di un’operazione, apparentemente banale, finita male. I suoi genitori hanno chiesto di non staccare le macchine di supporto alla vita, in attesa di un miracolo che non può succedere, perché dalla morte non si guarisce; un giudice ha dato ragione ai genitori di Jahy e ha ordinato ai medici di non sospendere ventilazione e alimentazione, almeno fino al 7 gennaio. Marlese è morta il 26 novembre scorso in un ospedale del Texas. Il marito e i suoi familiari hanno chiesto che le macchine siano staccate, ma i medici non lo possono fare, perché le leggi di quello stato impediscono di sospendere i trattamenti di supporto alla vita a una donna incinta; e Marlese era alla quattordicesima settimana di gravidanza.
Questi due casi sono nati anche perché c’è stata una confusione nell’uso delle parole, e per questo me ne voglio occupare qui.
I medici, sia per Jahy che per Marlese, hanno dichiarato la morte cerebrale. Morte è una parola a cui è sconsigliabile aggiungere aggettivi. A volte sono solo un eufemismo per rendere meno doloroso il ricordo di chi rimane: ha fatto una morte serena. Oppure si dice che qualcuno ha fatto una bella morte per galvanizzare qualcun altro a emulare un atto di eroismo. L’aggettivo cerebrale rischia di dare una speranza a chi ci vuole bene, sembra suggerire che la morte non è proprio definitiva, che si tratta di una “quasi morte”.
Stessa confusione si può fare anche con il contrario di morte. Gli apparecchi di supporto alla vita nei casi di Jahy e di Marlese non possono essere definiti così. L’uso sbagliato delle parole crea false speranze e alimenta inutili polemiche.
La scienza ha fatto grandi passi in avanti, la medicina ha per fortuna allungato e migliorato le nostre vite, ma ha oggettivamente reso più complicato capire quando finisce la vita e comincia la morte. Però quel momento rimane e non può essere stabilito né da una sentenza di un tribunale né dalla pietà e dell’amore di chi ci vuole bene. E’ la natura che decide - per chi crede è Dio - ma è qualcosa che a noi uomini sfugge ed è un bene che continui a essere così.

sabato 11 gennaio 2014

Verba volant (49): sceneggiato...

Sceneggiato, sost. m.

Propriamente si tratta di una forma verbale, il participio passato del verbo sceneggiare, ma ormai, diventata sostantivo, questa parola nell’uso comune indica una rappresentazione televisiva, spesso tratta da un soggetto letterario, trasmessa in più puntate.
A essere sinceri, ormai questa parola, nata da poco - visto che in questi giorni abbiamo festeggiato il sessantesimo anniversario della televisione in Italia - è ormai desueta, perché è stata sostituita dall'inglese fiction. Io sono affezionato a questa parola e continuo ad usarla, anche per un motivo che spero di chiarire nel corso di questa definizione.
Il 7 gennaio è stata trasmessa la prima puntata di un nuovo sceneggiato intitolato Gli anni spezzati, sul terrorismo e i cosiddetti anni di piombo. L'argomento è complesso e difficile, ma la televisione, in particolare quella pubblica, non dovrebbe fare solo cose semplici.
L’idea di fondo è quella di raccontare quegli anni attraverso tre storie esemplari, quella del commissario Luigi Calabresi, del giudice Mario Sossi e di un ingegnere della Fiat, un personaggio di fantasia che dovrebbe rappresentare la “maggioranza silenziosa“, uno dei quarantamila della marcia del 1980.
Le prime due puntate sono appunto quelle dedicate a Calabresi. Dopo aver visto un trailer, ho deciso di guardare la prima puntata, nonostante le polemiche che hanno accompagnato questo progetto e una certa ritrosia che ho ormai verso questi “nuovi” sceneggiati. Mi aveva attirato la scelta di affidare il ruolo del protagonista a Emilio Solfrizzi, che è un attore bravo, di quelli come c’erano una volta, come ha dimostrato - nonostante tutto - anche in questo lavoro. E poi questo è un tema che da sempre mi interessa molto.
La storia raccontata è complessa, tocca dei punti ancora scoperti della nostra storia recente, si tratta di una vicenda aperta su cui molti di noi hanno un’opinione in contrasto con la “linea” ufficiale. Chi ha commissionato questo lavoro è invece il “custode” di questa idea ufficiale e chi l’ha realizzato ha seguito questa linea: in fondo si attacca sempre l’asino dove vuole il padrone. Questo è lo sceneggiato della pacificazione, sempre invocata dall’uomo del Colle e pedissequamente seguita dai corifei della Rai: i “buoni” sono quelli dello stato e i “cattivi” i comunisti e gli anarchici. L’operazione almeno è scoperta, cosa che non è abituale ormai. Peccato che la bomba a piazza Fontana l’abbiano messa i “buoni” e che sempre gli stessi “buoni” abbiano ucciso il “cattivo” Pinelli, con buona pace di Napolitano.
Confesso di non essere arrivato in fondo alla prima puntata, non sono neppure arrivato al momento del racconto della strage di piazza Fontana e dell’uccisione di Pinelli, che pure è stato l’episodio centrale della vita di Calabresi.
Non sono riuscito a vedere tutta la prima puntata e non vedrò la seconda non perché il taglio della storia non sia il mio - lo sapevo dall’inizio - ma perché lo sceneggiato non è mai riuscito davvero a essere interessante, a decollare.
Se i primi “artigiani” della televisione hanno scelto di usare questa parola è perché la sceneggiatura era per loro l’elemento centrale, ancora più delle interpretazioni degli attori, che pure erano di altissimo livello. Avrei resistito alle ricostruzioni ideologiche arbitrarie e anche alle forzature storiche - leggo oggi che gli sceneggiatori hanno deciso che Pinelli si sarebbe suicidato, gettandosi volontariamente dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, come scritto nei mattinali della Questura - ma non ho resistito alla sciatteria nello scrivere. La cosa purtroppo non è infrequente in televisione, anzi tanti più sono gli autori tanto più la scrittura ne risente.
E’ la stessa sciatteria che capita di trovare - va detto per onestà per non fare la Bignardi della situazione, che fa la televisione senza vederla - non solo in quel mezzo, ma anche nella stampa o qui in rete. Personalmente la considero un elemento non casuale né secondario della crisi del nostro paese.
Chi scrive - specialmente chi lo fa per mestiere - ha una responsabilità verso chi legge, ma anche nei confronti di quello che sta facendo. Anche se sapesse che nessuno lo leggerà non per questo dovrebbe farlo in maniera trascurata, senza seguire le regole che in questo lavoro - come in ogni altro - ci sono.
Spesso la differenza tra buona televisione e cattiva televisione sta tutta qui. Come tra il cattivo giornalismo e il buon giornalismo. La forma è anche sostanza.

venerdì 10 gennaio 2014

Verba volant (48): scatto...

Scatto, sost. m.

Questa parola - dal latino ex, ossia fuori, e captare, intensivo di capere, ossia prendere - ha indubbiamente un valore onomatopeico: infatti la parola riproduce in qualche modo il suono dell'azione. I più giovani dei miei lettori non possono ricordarlo, ma la grande maggioranza di voi ha fatto esperienza degli scatti di un telefono a gettone e può testimoniare che quando il gettone scendeva faceva proprio quel suono lì. Uno scatto.
Oggi però non è lo scatto di un archeologico telefono a essere balzato agli onori delle cronache, tanto da meritare una definizione in questo pur umile dizionario. Sono invece gli scatti allo stipendio degli insegnanti, prima concessi e poi frettolosamente ritirati; come noto nei prossimi mesi i lavoratori della scuola dovranno restituire il maltolto.
Ora mettiamo le mani avanti e anticipiamo le vostre facili ironie: noi dipendenti pubblici non scattiamo, mai; è contro la nostra natura.
Tornando al tema del giorno, questa repentina decisione del sedicente governo italiano ha provocato uno scatto d’ira, un moto di sdegno, non solo tra gli insegnanti - come era legittimo e doveroso aspettarsi - ma anche da altri.
Perfino un politico che ora va per la maggiore, già sindaco di una bella città del centro Italia, si è improvvisamente ricordato che esistono gli insegnanti e - dato che qualche suo consigliere gli ha spiegato che votano perfino - è andato in televisione - anche se l’ha fatto di malavoglia, vista la sua naturale ritrosia - per difendere i loro diritti. Naturalmente a questo qui, come a tutti gli altri che in queste ore hanno difeso gli scatti acquisiti degli insegnanti, poco importa della scuola, ma ogni occasione è buona per dare una stoccata a questo governo e quindi hanno usato anche gli insegnanti.
Il problema francamente - non me ne vogliano gli amici e le amiche insegnanti, siete un buon numero tra i miei lettori più fedeli - non è tanto quello degli scatti in sé. Naturalmente spero vi lascino quei quattro spiccioli, che si aggiungono a uno stipendio già inadeguato per un lavoro come il vostro.
Il problema vero è che già domani - al massimo dopodomani - finita la flebile eco della polemica di giornata, della scuola non importerà più nulla a nessuno. La scuola sparirà dai titoli dei giornali e dalle home page dei siti per tornare nel dimenticatoio in cui l’hanno relegata i nostri governi - tutti i nostri governi, di centrodestra e di centrosinistra - in questi anni. Abbiamo purtroppo assistito a una girandola di riforme e di controriforme, di cui abbiamo ormai perso il conto, nessuna delle quali ha migliorato davvero la scuola, la situazione è sempre peggiorata.
Alcune cose sulla mia idea di scuola, le ho scritte pochi giorni fa nella definizione di educare e non ci torno. Voglio solo dire che se andassi al governo - cosa che non succederà mai - la prima cosa che farei sarebbe quella di tornare a mettere l’aggettivo pubblica nel nome del ministero.
Comunque, passati gli scatti - che forse vi saranno perfino lasciati, cari amici insegnanti - continueremo a non parlare dello stato fatiscente di molti edifici scolastici, continueremo a non parlare del problema degli abbandoni - che in alcune zone d’Italia raggiunge picchi spaventosi - soprattutto continueremo a non parlare di un’istituzione che ha perso progressivamente il senso della propria missione civile.
Questo è avvenuto, nonostante il lavoro di molti di voi, ma anche per colpa di qualcuno di voi, che ha vissuto e vive la scuola in modo superficiale, lo considera un lavoro come un altro, che gli garantisce un magro stipendio, pochi problemi e parecchio tempo libero. Io sono un dipendente pubblico, orgoglioso di esserlo e della funzione pubblica del mio lavoro; mi arrabbio molto con ci addita genericamente come fannulloni, ma mi arrabbio anche perché i fannulloni ci sono, prendono lo stesso stipendio che prendo io e non fanno quello che dovrebbero fare. E questi ci sono anche tra i colleghi della scuola, magari sono anche quelli che oggi fanno più caciara perché hanno tolto loro gli scatti.
Il nostro paese - come ogni altro paese che vuol essere democratico - ha bisogno della scuola pubblica, di una scuola pubblica che funziona bene, con insegnanti preparati, che lavorano e ben retribuiti per il lavoro che fanno. In Italia siamo lontani da questo obiettivo, e infatti siamo sempre meno un paese democratico.
Servirebbe proprio uno scatto d’orgoglio.

mercoledì 8 gennaio 2014

Verba volant (47): contratto...

Contratto, sost. m.

Leggendo i giornali di oggi ho saputo che il giovane Letta - noto anche per la particolare lega metallica con cui sarebbero forgiate alcune parti del suo corpo, particolarmente preziose - sta redigendo un nuovo contratto di governo.
In un caso come questo, quando si parla di termini legali è sempre meglio andare con i piedi di piombo - essendo io sono solo un vecchio filosofo, coscritto all'incarico di scrivere un dizionario - preferisco rivolgermi ai più esperti colleghi della Treccani. Vediamo appunto la loro definizione:
regolamento di interessi che trae la sua forza vincolante dall'accordo di coloro che lo stipulano; in partic., nel diritto privato, accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico a contenuto per lo più patrimoniale.
Mi pare chiaro che un contratto nasce sempre per mettersi d’accordo su questioni di soldi ed evidentemente anche questo nuovo contratto, che il giovane Letta sta preparando con la vigile supervisione del più alto Colle, deve regolare qualche faccenda di questo genere.
C’è però qualcosa che non quadra, almeno a me, probabilmente perché - come ho detto - sono filosofo e non sono esperto di diritto. I soldi su cui i contraenti di questo nuovo contratto devono mettersi d’accordo non sono i loro, ma sono i nostri; non mi pare una differenza da poco. Nonostante questo, ossia che noi mettiamo nel contratto la cosa più importante, il conquibus - per usare un termine legale - a noi non chiedono di firmare niente, anzi ci escludono in partenza dalla stesura del contratto.
Sicuramente lo fanno per farci un favore, ci sono poche cose al mondo noiose come la redazione di un contratto - tutti quei commi, quei rimandi, quegli eccetera eccetera. Poi stasera io ho calcetto, domani Zaira ha la lezione di yoga, giovedì so che non possono né Antonella né Filippo, venerdì sera non possiamo metterci a parlare di un contratto, praticamente è semifestivo; dovremmo rimandare tutto a lunedì prossimo, ma intanto l’Europa ci guarda e ci ammonisce.
Dovremmo ringraziare il giovane Letta e i suoi amici Angelino e Matteo che si mettono lì, al posto nostro, a discutere dei termini del contratto. Quante cose noiose devono fare, quante complicazioni devono sobbarcarsi. Devono decidere quanto e quando farci pagare un po’ di nuove tasse; pensate soltanto a quanto tempo impiegheranno nella scelta dei nuovi acronimi, visto che ormai hanno già usato molte delle innumerevoli combinazioni possibili delle 21 lettere del nostro alfabeto.
Pensate quanti passi in avanti abbiamo fatto dalla seconda metà del Settecento, quando Jean-Jacques Rousseau diceva che il contratto sociale è la risposta che una comunità dà al problema di
trovare una forma di associazione che protegga, mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a sé stesso e rimanga libero come prima.
E da questo ricavava la tesi che ognuno di noi, inteso come singolo, si dà a tutti gli altri, ossia alla comunità, e ciascuno di noi, come membro della comunità, riceve da tutti gli altri, come singoli. Se quest’alienazione dei diritti e dei doveri avviene senza riserve, ognuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno, e nessuno ha interesse a rendere onerosa la condizione altrui. La comunità, così costituita, diviene la depositaria naturale di tutta la sovranità; e questa sovranità dunque può appartenere solo al popolo e non è divisibile.
Ma, state tranquilli, non è il nostro caso.

Verba volant (46): limite...

Limite, sost. m.

La parola latina limes, limitis, indicava prima di tutto la via traversa - limes o licmes ha la stessa radice lic che ritroviamo ad esempio nella parola obliquo - e di seguito è passata ad indicare la via che fa da confine. I Romani infatti chiamarono limiti le pietre che segnavano i confini; queste pietre erano sacre e non potevano essere rimosse o spostate, in quanto erano poste sotto la protezione della dea Limite. Chi spostava o ignorava i confini perciò violava una legge divina e contravveniva alle norme degli uomini.
Anche noi, quando superiamo un limite, infrangiamo una regola, commettiamo una colpa, più o meno grave. A volte per questa colpa siamo sanzionati, molto spesso riusciamo ad evitare la pena, anche se la colpa rimane.
Una serie di limiti ci sono imposti dalle leggi, in una scala che va dai limiti di velocità ai dieci comandamenti. Molti di questi limiti non sono espressi chiaramente, ma non per questo sono meno cogenti: si tratta delle leggi non scritte, di cui parla Sofocle nell’Antigone. Proprio in nome di queste leggi non scritte, ossia delle leggi della natura, la sfortunata figlia di Edipo e di Giocasta può ribellarsi al re Creonte e violare le regole imposte da lui, perché queste leggi sono eterne e divine, superiori alle leggi degli uomini.
Spesso i limiti ce li imponiamo noi stessi; anche in questo caso dobbiamo fare di tutto per non superarli. Nella pratica di tutti i giorni spesso siamo indulgenti con noi stessi e troviamo ogni scusa per giustificarci e autoassolverci.
Ho deciso di definire questa parola perché in queste ore mi è capitato di leggere diversi commenti sulla malattia di Pier Luigi Bersani che hanno oggettivamente superato il limite. In molti gli hanno augurato la morte.
A me è successo alcune volte di superare questo limite. Recentemente ho pubblicamente gioito per la morte di Margaret Thatcher, perché era una nemica di classe. E so che non mi sarà facile resistere alla tentazione di fare lo stesso quando succederà a Berlusconi e a Napolitano, ossia a due personaggi, con cui non solo ho una profonda divergenza politica, ma di cui non ho nessuna stima umana. In casi come questi sarebbe meglio il silenzio.
La rete ha certamente contribuito a spostare il senso del limite, ma credo sia un alibi pericoloso dare tutta la colpa alla rete. Su questo tema sono molto d’accordo con una cosa che ha detto Stefano Rodotà:
Quello che è illegale offline lo è online.
Certo la rete è qualcosa da maneggiare con cura. Ad esempio dobbiamo evitare una possibilità che pure la rete ci offre, ossia quella di restare anonimi: dobbiamo metterci la firma e la faccia, sempre. Questo ovviamente non ci permette di superare ogni limite - molti dei messaggi contro Bersani erano firmati - ma almeno ci dovrebbe rendere consapevoli che, se lo facciamo, possiamo pagarne le conseguenze.
Come ho detto io cerco di porre dei limiti a quello che scrivo. Non sempre ci riesco, lo ammetto, ma credo sia fondamentale farlo. Anche se uso politicamente la rete, pur sotto i velami di un dizionario. Considero questi spazi un’opportunità importante, anche perché, fuori di qui, non ne rimangono molti.
Proprio per questo credo sia necessario definire delle regole, e quindi dei limiti, al di là di quello che ci impongono le leggi sulla libertà di stampa e di espressione. E pur senza cadere nell’errore di porci castranti autocensure, non dobbiamo usare un linguaggio che inneggia alla violenza. In nessuna occasione e contro nessuno. Né possiamo sfruttare momenti come una malattia. Diceva Talete di Mileto, l’iniziatore della filosofia greca:
Evita di fare quello che rimprovereresti agli altri di fare.
Può sembrare banale, eppure questo è il limite che dovremmo rispettare.
Anzi, proprio perché noi siamo più deboli, abbiamo interesse che le regole ci siano e che vengano rispettate. Dentro e fuori la rete.

martedì 7 gennaio 2014

"Stretti in una scansia fissata al muro" di Roberto Roversi


per Zaira e per i tanti anni che passeremo ancora insieme... 

Stretti in una scansia fissata al muro
di una biblioteca proprietà di un cardinale
libri rari inglesi nel silenzio
di una città italiana
si scontrano: Cos'è la polvere del tempo?
gli occhi di un saggio che strisciano sul foglio
come una formica?
è la polvere bianca portata da un fiore?
è un rapido bagliore?
Omero fu più vecchio di Esiodo
scrive Gellio
allora il tempo è la vecchiezza di Omero
o la giovinezza di Esiodo?
Il mio foglio è più vecchio del tuo grida un libro,
tu siedi fra il sonno della pergamena
come il cane fra il gregge
io resisto in piedi (vedi) e ho
la spada in mano corpi tipografici forbiti e
xilografici segnali che mi circondano a difesa.
Basta un lampo a ridurre in cenere la nostra memoria
ma tu non conosci la pazienza dell'attesa
mentre per me tomo antico inglese
anche il sonno di un bambino
se lo saprò aspettare
diventa una veloce ala dell'alba
sogno sorpresa scoperta verde del mondo
più della scienza canuta
più del mio lento invecchiare
quando gocciava miele

Verba volant (45): compito...

Compito, sost.m.

Incerta è l'etimologia di questa parola. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di una variante di computo, dal verbo latino computare, ossia calcolare, per significare il lavoro di cui si deve calcolare la durata. Secondo altri deriverebbe dal participio del verbo complere, ossia completare, per significare il lavoro che si deve portare a compimento, che deve appunto essere completato.
Il 7 gennaio ricominciano le scuole di ogni ordine e grado, come si diceva una volta; bambini e ragazzi torneranno sui banchi e dovranno portare i compiti delle vacanze, che hanno dovuto fare in questi giorni di festa, magari con l’aiuto dei loro genitori.
In questi giorni - come succede regolarmente in ogni periodo, più o meno lungo, di vacanza - è tornato alla ribalta il tema dei compiti: servono davvero? sono troppi? si possono ridurre?
Lo scorso 21 dicembre la ministro Carrozza è intervenuta sul tema, parlando a una platea di duemila alunni pisani: Ragazzi - ha detto - chiedete ai professori di darvi meno compiti. Comprensibilmente la ministro è stata calorosamente applaudita, cosa che le succede raramente.
Ha poi cercato di rimediare, aggiungendo: Chiedete di farvi dare più letture, e invitando i giovani e le loro famiglie a visitare mostre, a seguire concerti, ad ascoltare musica classica e contemporanea. Questo si può anche fare - avranno pensato i giovani ascoltatori di Carrozza - in televisione danno sempre il concerto di Capodanno; è palloso, ma sempre meglio dei compiti. Temo invece che, nonostante l’auspicio della ministro, non ci sia stato nel corso di queste vacanze, un significativo incremento dell’attenzione verso la musica contemporanea.
Da un po’ di tempo la parola compito è entrata anche nel linguaggio politico.
E’ stato per primo il professor Monti a dire che l’Italia doveva fare i compiti a casa. Per come ce l’hanno spiegata, le cose sono andate più o meno così. In uno dei rituali incontri dei capi di governo dell’Unione europea, la cancelliera Merkel, con il severo cipiglio di una tutrice di Amburgo, ha tirato fuori dalla sua cartella i compiti da distribuire ai suoi recalcitranti allievi.
La signora maestra non ha però dato a tutti gli stessi compiti; agli alunni più bravi e obbedienti ha assegnato problemi di facile soluzione, esercizi semplici, insomma compiti che potevano impegnare non più di un pomeriggio, mentre per quelli meno bravi la cosa è stata assai più complessa. Anzi più uno era in difficoltà, più i compiti erano difficili: per la Grecia sono risultati praticamente impossibili da risolvere. Personalmente ho qualche riserva su questo metodo pedagogico tedesco, ma ormai va per la maggiore.
E noi i compiti li abbiamo fatti? Monti prima ha detto di sì, anzi ha detto che erano pure facili, poi ha provato a copiare da Rajoy, che però non ce li ha passati, alla fine ha detto che li avevamo fatti tutti, ma li aveva mangiati il cane Empy e che li avremmo portati al vertice successivo.
Poi li ha lasciati da finire a Letta che prima ha detto che sì li avrebbe fatti, poi - credo anche su suggerimento della ministro Carrozza - che non li avremmo più dovuti fare. Insomma abbiamo provato a schivarli, nella migliore tradizione italica.
Mi sa che questa è la volta che ci bocciano.

Verba volant (44): educare...

Educare, v. tr.

In questo caso l'etimologia è fondamentale. Il verbo latino è composto dalla particella e che significa da, fuori, e dal verbo ducare, ossia condurre; quindi educare è, secondo la sempre efficace definizione del maestro di etimologia Ottorino Pianigiani
condur fuori l'uomo dai difetti originali della rozza natura, instillando abiti di moralità e di buona creanza.
Ho deciso di scrivere questa definizione perché ho letto ieri una frase di papa Francesco che mi è piaciuta molto e che mi ha colpito.
La formazione è un'opera artigianale, non poliziesca. Dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo piccoli mostri.
Chiaramente il papa con questa riflessione ha voluto prima di tutto mandare un messaggio diretto - e senza ambiguità curiali - ai suoi sottoposti, perché evidentemente egli sa che c’è ancora qualcuno che usa metodi educativi che potremmo definire datati. Francesco si riferisce in particolare all'educazione dei religiosi, anche perché ha denunciato nello stesso contesto il fenomeno della tratta delle novizie, che è qualcosa che ci ricorda la manzoniana monaca di Monza, ma che è purtroppo attuale in alcune parti del mondo.
Al di là di questi temi, credo che queste parole del papa abbiano anche un significato per così dire "laico". Personalmente ho trovato una certa affinità - mi si perdoni l’immodestia - tra quello che ha detto Bergoglio e quello che ho scritto qualche giorno fa sulle virtù artigiane della politica, nella definizione di laboratorio.
Penso anch'io che nell'educazione e nella formazione bisognerebbe applicare queste stesse virtù artigiane. In questi anni invece gli esperti ci hanno spiegato che la scuola deve funzionare come un’azienda, che lo spirito manageriale è quello che si richiede a insegnanti e formatori. Credo invece che nella scuola ci sia bisogno di più "artigiani" e di meno manager: farei partire da qui una futuribile riforma della scuola, affinché la formazione non sia poliziesca, ma non sia neppure standardizzata, come oggi troppe volte capita di vedere.
Tra l’altro questi concetti hanno, a mio avviso, un forte richiamo "classico", nella cultura dell'antica Grecia e in particolare nel pensiero politico di uomini come il sofista Protagora di Abdera, a cui ho dedicato questo blog. Tra l'altro il sofista era prima di tutto un artigiano della parola, uno capace di usare le parole e capace di insegnare questa abilità agli altri.
Per Protagora lo stato è qualcosa di essenziale alla vita degli uomini, senza di esso la razza umana sarebbe condannata all’estinzione, uccisa dagli altri, ben più forti, esseri viventi: il possedere l'arte politica è proprio di tutti i cittadini. L’arte politica non è un dono di natura e nemmeno del caso, come l’essere brutti o l’essere alti, ma è qualcosa che può essere acquisito e soprattutto può essere migliorato. Ovviamente anche se tutti gli uomini possiedono l'arte politica, ciascuno la possiede a un grado diverso: compito del sofista è allora quello di
aiutare chiunque, a diventare buono e virtuoso più di tutti gli altri.
La parola chiave della sua filosofia politica è educazione. E infatti il suo interesse si sposta sulle forme di educazione, perché qualunque giovane, ricco o povero, nobile o plebeo, può essere educato a essere un cittadino.
Nasce qui la scuola per tutti. Qualcosa a cui non vogliamo rinunciare.

lunedì 6 gennaio 2014

Verba volant (43): unione...

Unione, sost. f.

Questa è proprio una bella parola, una di quelle che definisco più volentieri.
Deriva dal latino tardo unio, unionis, e presenta ovviamente la radice di unus. L'unione è propriamente l'azione di unire, ovvero il fatto di unirsi o di essere uniti con altri individui. C'è uno sforzo dinamico in questa parola, il desiderio, e anche la fatica, di raggiungere un’unità, ossia la condizione e la caratteristica di essere uno, solo uno e non più di uno. E non è un caso che in inglese la parola union indichi il sindacato, ossia dove si sta uniti, per definizione.
Anche unità è una bella parola, ovviamente con la stessa etimologia. Molti di noi a questa parola sono particolarmente affezionati. Tra poco più di un mese ricorderemo il novantesimo anniversario della fondazione de l’Unità; il nome, come noto, fu proposto da Antonio Gramsci.
Il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito. Dovrà essere un giornale di sinistra. Io propongo come titolo l’Unità puro e semplice che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale.
Quella de l’Unità è una storia gloriosa; purtroppo il futuro è molto incerto, ma questa è un’altra storia, di cui mi occuperò in un’altra definizione.
Torniamo ad unione. Questa parola ogni tanto ritorna in auge in un suo particolare significato, ossia quando si accompagna all’aggettivo civile. Buon ultimo è arrivato il segretario di un sedicente partito di centrosinistra, che ha proposto, in una sua recentissima esternazione, di introdurre finalmente anche nel nostro paese le unioni civili.
Sarebbe proprio civile farlo, visto lo stato miserevole dei diritti delle persone in questo particolare e importante aspetto della vita. Ora, pur riconoscendo che unione è una bella parola, con una bella etimologia e un bel significato, mi chiedo perché si debba usare questa parola quando nella nostra Costituzione esiste già un termine che indica perfettamente il contratto tra due persone che hanno deciso di passare insieme la loro vita.
Ripassiamo allora l’art. 29.
La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
Ecco basterebbe applicare alla lettera la norma costituzionale, visto che qui non si parla di maschio e femmina. E usare la parola che esiste già, matrimonio appunto, senza inventare delle altre formule. Questo crea qualche problema a Giovanardi e a Formigoni? Mi dispiace per loro e se ne dovranno fare una ragione. E poi questo è un paese libero e, se non lo vogliono, non saranno costretti a sposare un altro uomo.
Non so cosa succederà nelle prossime settimane. Forse - ancora una volta, temo - non se ne farà nulla, per salvaguardare il precario equilibrio di governo. Oppure questa volta si arriverà a una legge, magari perché Renzi ha la necessità di dare un contentino alla sinistra del suo partito, mentre si appresta a proporre misure economiche indigeste, sul piano del lavoro e delle pensioni. O forse - come dice qualche amico che giustamente non si fida - Renzi, a cui non importa nulla di questo tema, l’ha evocato soltanto per mettere in difficoltà l'”amico” Letta, magari per far cadere il governo e andare il prima possibile alle elezioni.
Francamente non mi interessa cosa pensa del tema il già sindaco di Firenze. Il tema dei diritti delle persone omosessuali è una questione importante, anzi troppo importante per lasciarla in mano a questi quattro mestieranti.
Il tema del diritto delle persone omosessuali di costituire una famiglia non è qualcosa che interessa esclusivamente le persone omosessuali, ma è qualcosa che coinvolge tutti, a partire dagli eterosessuali. In un tempo in cui tendono a restringersi così velocemente gli ambiti democratici, una battaglia, una grande battaglia sociale, per far crescere i diritti serve davvero a tutti, a prescindere dal fatto che siamo etero od omosessuali e dal fatto che ci vogliamo sposare o no. E proprio perché è un tema fondamentale, questa questione non dovrebbe diventare la bandiera di un singolo partito e dovrebbe perfino non essere vincolata alla scontro tra destra e sinistra.
Al di là delle idee che ciascuno di noi ha, che possono anche essere molto diverse, per me questa è una battaglia di civiltà, su cui non è più tempo di perdersi in mediazioni. Non chiamare le cose con il proprio nome e cioè non usare la parola matrimonio non è un buon inizio.

sabato 4 gennaio 2014

Verba volant (42): lettera...

Lettera, sost. f.

Chi legge con qualche regolarità queste note e chi ha la pazienza di seguirmi anche su Twitter e Facebook - siete molti di più di quelli che sarebbe ragionevole attendersi - sa che non ho ascoltato il Messaggio di fine anno. Mi pare comunque equo e reciproco: Lui non si cura di quello che penso io e quindi io faccio altrettanto. Non ho letto neppure i resoconti né ho ascoltato i servizi agiografici dei telegiornali, ma ho saputo, leggendo le bacheche di alcuni amici, che Lui ha letto alcune lettere.
E lettera è proprio la parola di cui voglio occuparmi oggi, per cominciare questo nuovo anno di Verba volant.
In italiano questa parola indica sia ciascuno dei segni con cui si rappresentano graficamente i suoni delle vocali e delle consonanti dell’alfabeto sia la comunicazione scritta che una persona indirizza a un’altra. In latino questa possibile confusione era risolta in questo modo: al singolare lĭttĕra era il segno alfabetico, mentre il plurale littĕrae era usato come sinonimo di epistŭla. Anche in greco antico il singolare gramma e il plurale grammata hanno questi due significati.
Al di là delle letterine a cui il Presidentissimo ha voluto magnanimamente rispondere nel corso del Suo Messaggio (dal 1 gennaio - come previsto dal decreto Milleproroghe, per evitare il reato di lesa maestà bisogna sempre usare la lettera maiuscola quando ci si riferisce, anche indirettamente, a Lui), c’è un’altra lettera che ha segnato in maniera profonda la storia recente del nostro paese. Sono certo che i miei attenti lettori non se ne sono dimenticati, ma vale comunque la pena ricordare quei giorni.
La Lettera - anche in questo caso è d’obbligo l’iniziale maiuscola - è quella firmata da Jean-Claude Trichet e da Mario Draghi - anche se verosimilmente è stata scritta solo da quest’ultimo - che venne fatta recapitare al nostro governo il 5 agosto 2011. In quei giorni la Lettera è stata evocata molte volte, alternando paure e speranze, ma rimanendo sempre segreta.
Proprio questa segretezza permise alle fantasie italiche di fare congetture sul suo contenuto, alimentando così quel particolare settore del mondo dell’informazione che si occupa di “retroscena“. Sotto l’egida della Lettera, segreta ed evocata, il governo italiano, allora rappresentato da Berlusconi e Tremonti, ha passato quell’estate a fare e a disfare manovre economiche, il cui unico effetto - nefasto per tutti - è stato l’aumento dell’Iva. Giova ricordare ai corifei del berlusconismo trionfante e anche ai leghisti - che in quel governo erano rappresentati da un tal Bobo Maroni, un modesto musicista di Varese - che l’Iva hanno cominciato ad aumentarla proprio loro.
Ricorderete certamente. Erano le settimane in cui scoprimmo lo spread e in cui sembrava che il paese stesse per fallire, se non ci fossimo affidati alle cure della Bce e dei suoi presidenti. Il 29 settembre di quello stesso anno - data maliziosamente scelta per rovinare il genetliaco dell’allora premier - il più autorevole quotidiano italiano, da sempre espressione dell’establishment e quindi naturalmente vicino al centrodestra - perché in natura i ricchi sono sempre di destra - pubblicò la Lettera e così scoprimmo che il suo contenuto era semplicemente il programma politico che il governo italiano avrebbe dovuto adottare, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione. Prendere o lasciare. E infatti l’Italia prese, prima con il governo Monti, poi con quello Letta, sempre con la copertura acostituzionale (sull’alfa privativo dovrò scrivere qualcosa un’altra volta) del Presidentissimo.
Va dato atto agli estensori della Lettera di essere stati chiari e concisi. La Lettera prevede che le decisioni in materia economica “siano prese il prima possibile per decreto legge“, a cui dovrà seguire “la ratifica parlamentare”. Eseguito; e infatti da allora il parlamento ha smesso di legiferare, limitandosi a ratificare, con voti di fiducia, i decreti del governo di turno, sempre firmati dal Presidentissimo, l’unico che in questi anni non è mai cambiato.
E’ chiara l’idea di democrazia che sta dietro alla Lettera. Chi l’ha scritta naturalmente sa che in una repubblica parlamentare, qual è l’Italia, le cose non funzionano - o almeno non dovrebbero funzionare - in questo modo, ma ritiene questa “riforma” un passaggio essenziale, tanto da prefigurare anche “una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio”. Eseguito anche questo; e infatti abbiamo introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio e abbiamo approvato il fiscal compact, con effetti vincolanti.
Ovviamente la Lettera si occupa più di economia che di riforme istituzionali - anche se, en passant, è citata l’abolizione delle Province - ed è in questo campo che la cultura di destra è più evidente: “piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali”, “privatizzazioni su larga scala”, “accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”, ma con maggiore interesse sui licenziamenti, naturalmente. Sono poi citate l’abolizione delle pensioni di anzianità, la riduzione della spesa pubblica - anche “riducendo gli stipendi” dei dipendenti pubblici, noti fannulloni - controlli molto rigorosi sulle autonomie locali, con buona pace dei federalisti dei pratoni. Molto di questo è stato eseguito; e Letta e Renzi si preparano a fare il resto.
La Lettera dice molte cose, ma non parla di molte altre. Ad esempio non chiede che il fisco venga riformato affinché chi più ha di più contribuisca di più al bilancio pubblico e soprattutto che tutti paghino il dovuto; non chiede che si affronti con serietà il fatto che una parte sempre più rilevante dell’economia italiana è in mano alla malavita organizzata; non affronta l’enorme e ormai insopportabile differenza tra donne e uomini nel mondo del lavoro; non cita le condizioni di precarietà di tantissimi lavoratori; non parla del divario che continua a crescere tra i pochissimi che sono sempre più ricchi e i moltissimi che sono sempre più poveri.
La Lettera infine è presentata come l’unica soluzione possibile, suggerita da un’autorità super partes - peraltro non eletta democraticamente - tecnica e non politica. Qui c’è evidentemente un trucco, che però questi maghi sono molto abili a mascherare.
Ecco, se dovessi mai scrivere al Presidentissimo gli chiederei come mai, a un certo punto, il nostro paese ha deciso di applicare alla lettera la Lettera.

venerdì 3 gennaio 2014

Verba volant (41): laboratorio...

Laboratorio, sost. m.

Io ho sempre guardato con sospetto alla parola laboratorio.
Presa a sé si tratta di una bella parola, con un'etimologia importante - deriva infatti dal latino labor, che significa fatica - purtroppo è stata usata male e le parole, come le cose, soffrono se usate male. Ad esempio, i tortellini sono una meraviglia della cucina bolognese - ed infatti devono essere preparati o in casa o in un laboratorio di pasta fresca - ma se vengono serviti con la panna (perdonate questa volgarità, ma mi serve per la similitudine) perdono tutta la loro poesia; se poi ne mangiate troppi vi possono far male. Alla parola laboratorio è successo qualcosa del genere: è stata usata troppo e male.
La mia idiosincrasia per l’uso arbitrario di questa parola nasce dal fatto che ho sempre considerato il suo uso un espediente per giustificare teorie già formate e compiute, di cui si cerca semplicemente una conferma. Da emiliano, non ho mai creduto al laboratorio emiliano, di cui pure ci sono stati fior fiore di teorici, in genere non emiliani. Allo stesso modo ogni tanto torna in auge l’idea dell’esistenza di un laboratorio siciliano, secondo cui quello che succede nell’isola è destinato a succedere poco dopo nel resto del paese; anche questa tesi mi pare sia sostenuta in particolare da coloro che siciliani non sono e soprattutto da quelli che, avendo vinto le elezioni in quella regione, sperano legittimamente di ripetere lo stesso risultato nel resto dell’Italia.
Insomma è una parola che non mi piace perché troppe volte l’abbiamo sentita usare, a sproposito, dal politico di turno. A Bologna poi ne abbiamo fatto un uso smodato; faccio immediatamente outing e ammetto di averla usata anch’io: accadde anni fa, quando facevo un altro mestiere. Lo dico ora io, prima che qualche zelante servo dei nuovi - si fa per dire - padroni del vapore rinfacci la mia passata militanza e vada a scoprire qualche mio antico scritto…peraltro non rinnego né l’antica militanza né i precedenti scritti, li guardo con senile indulgenza.
C’era - e immagino ci sia ancora, anche se da tempo non frequento volutamente la vostra città - un orgoglio campanilistico che ci ha portato a credere che Bologna fosse al centro del mondo e soprattutto che la politica bolognese fosse sempre e comunque avanti un passo rispetto all’Italia, all’Europa, all’universo e altri siti, per dirla con Dulcamara.
Eravamo comunisti quando fuori erano tutti fascisti, poi eravamo riformisti quando c’erano ancora i comunisti, e siamo stati ulivisti prima che nascesse l’Ulivo; abbiamo aperto ai cattolici, quando era ancora di moda essere anticlericali, in sostanza siamo stati democratici prima degli altri. Solo con Renzi avete perso il tocco magico - uso il voi perché a questo punto la responsabilità è tutta vostra, i miei reati politici sono ormai prescritti - e siete diventati renziani fuori tempo massimo.
Perfino quando abbiamo perso – lì c’ero e uso il noi – consegnando la città al centrodestra annacquato di Guazzaloca, lo abbiamo fatto con un cupio dissolvi di sapore melodrammatico, che forse avremmo potuto risparmiare a noi stessi e alla città, tanto che fu necessario chiamare un “eroe” nazionale per trarci d’impaccio.
Come noto, da più in alto si cade più ci si fa male, e la sinistra bolognese ha creduto di essere parecchio in alto e cosi ritrovarsi alla mediocrità di un Delbono - comunque un ladro di polli rispetto a quello che c’è in giro - o di un Merola è stato sconfortante.
Mi scuso con i miei venticinque lettori non bolognesi - i bolognesi sono ancora meno - per questa lunga divagazione locale, ma credo possano essere utili anche a voi.
Anche il Partito Democratico è nato con l’ambizione di essere un laboratorio e in questo qualcosa di vero c’era. Come il dottor Frankenstein assemblava pezzi di cadaveri per dare vita alla creatura, cosi il Pd è nato assemblando pezzi di gruppi dirigenti in putrefazione e il brillante risultato è ora sotto lo sguardo di tutti, tanto che è bastato un Renzi qualsiasi per diventare segretario.
Detto qual è il laboratorio che non mi piace, provo a dire anche qual è quello che mi piace. Mi piaccioni i laboratori del falegname, del calzolaio, del fornaio, insomma di chi fa, di chi cerca sempre di imparare, di chi prova a insegnare quello che sa, di chi cerca di fare qualcosa di nuovo, osservando quello di cui c’è bisogno, di chi ascolta le persone per cercare di risolverne i problemi. Secondo me queste doti artigiane potrebbero anche essere applicate alla politica.