mercoledì 24 dicembre 2014

da "La morte della Pizia" di Friedrich Dürrenmatt

Stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro. Vero è che in simili casi, essendo comunque dubitosi coloro che venivano a consultarla, la Pizia soleva rispondere con un semplice: sì e no, dipende…; quel giorno però l’intera faccenda le parve di un’idiozia veramente intollerabile, forse soltanto perché quando il pallido giovanotto arrivò claudicando al santuario erano ormai le cinque passate, invece di starlo a sentire Pannychis avrebbe dovuto chiudere, e allora, vuoi per guarirlo dalla fede incondizionata nelle sentenze degli oracoli, vuoi perché essendo così di cattivo umore le saltò il ghiribizzo di fare arrabbiare quel principe di Corinto dall’aria altezzosa, la Pizia gli fece una profezia che più insensata e inverosimile non avrebbe potuto essere, la quale, pensò, non si sarebbe certamente mai avverata, perché nessuno al mondo può ammazzare il proprio padre e andare a letto con la propria madre, senza contare che per lei tutte quelle storie di accoppiamenti incestuosi fra dèi e semidei altro non erano che insulse leggende. Va detto però che un leggero disagio la colse nel momento in cui, udite le parole dell’oracolo, quel tipo maldestro di un principe di Corinto sbiancò in volto; la Pizia lo notò pur assisa sul tripode e avvolta com’era da una nuvola di vapori, e pensò che dovesse trattarsi di un credulone straordinario. Quando poi, uscito dal santuario con fare circospetto, Edipo ebbe pagato l’oracolo al gran sacerdote Merops XXVII, che incassava personalmente dai clienti aristocratici, Pannychis lo seguì con lo sguardo ancora per un attimo e scrollò il capo perché vide che il giovanotto non prendeva la strada che portava a Corinto, dove pure vivevano i suoi genitori; ma il pensiero che quel responso dato per celia potesse provocare una disgrazia lo respinse subito e, nel rimuovere quella strana e spiacevole sensazione, la Pizia dimenticò Edipo.
Vecchia com’era, Pannychis trascinava stancamente anno dopo anno la sua interminabile esistenza, sempre ai ferri corti con il gran sacerdote, che pure grazie a lei faceva soldi a palate perché più passava il tempo più i suoi responsi diventavano spavaldi e azzardati. Non che lei credesse alle cose che diceva, anzi vaticinava in quel modo proprio per farsi beffe di coloro che credevano in lei, col risultato però di destare nei suoi devoti una fede assolutamente incondizionata. Pannychis profetava, vaticinava imperterrita, neanche a parlarne di poter andare in pensione. Merops riteneva infatti che quanto più una Pizia era vecchia e svampita, tanto più diventava brava, il meglio assoluto era una Pizia agonizzante, non a caso gli oracoli più spettacolosi li aveva pronunciati Krobyle IV, la Pizia che aveva preceduto Pannychis, in punto di morte. Pannychis, dal canto suo, si proponeva di astenersi del tutto dal profetare quando l’ora estrema fosse giunta anche per lei, ciò che voleva era morire con dignità, almeno quello, e senza fare sciocchezze; era già abbastanza degradante che ancora adesso fosse costretta a farne, per di più in condizioni di lavoro così deplorevoli. Il santuario era umido e pieno di correnti d’aria. Dall’esterno appariva sontuoso, primo dorico puro, ma l’interno era squallido, una spelonca male isolata di roccia calcarea. A unico conforto di Pannychis, i vapori che scaturivano dalla fenditura nella roccia, giusto sotto il tripode sul quale lei era assisa, alleviavano i dolori reumatici provocati dalle correnti d’aria.
Da tempo ormai quel che accadeva in Grecia non le importava più: che il matrimonio di Agamennone scricchiolasse o meno, o con chi se la facesse Elena, tanto per cambiare, era privo per lei di qualsiasi interesse. La Pizia profetava a casaccio, vaticinava alla cieca, e poiché altrettanto ciecamente veniva creduta, nessuno ci faceva caso se le sue profezie non si avveravano quasi mai, o solo qualche rara volta, proprio quando le cose non potevano che finire in quel certo modo: a Eracle, per esempio, l’eroe dalla forza leonina che non aveva nemici dal momento che nessuno era in grado di stargli alla pari, non restava altra via d’uscita che darsi la morte col fuoco, solo perché la Pizia gli aveva insufflato che dopo morto sarebbe diventato immortale. Diventò davvero immortale? Nessuno comunque avrebbe mai potuto verificarlo. E il semplice fatto che Giasone avesse sposato Medea era più che sufficiente a spiegare come mai alla fine lui si tolse la vita, ma non va dimenticato che quando era comparso a Delfi con la sua fidanzata per implorare un responso dall’oracolo del dio, la Pizia col suo fiuto infallibile aveva sentenziato seduta stante che meglio sarebbe stato per lui gettarsi sulla propria strada piuttosto che prendere in moglie quella mangiatrice di uomini.
In queste circonstanze la fortuna dell’oracolo era ormai inarrestabile, anche per motivi economici. Merpos XXVII aveva in mente lavori colossali di ristrutturazione: un gigantesco tempio di Apollo, un portico delle Muse, una colonna ofitica, diverse banche e perfino un teatro. Il gran sacerdote frequentava ormai solo re e tiranni e da tempo aveva smesso di preoccuparsi dei sempre più numerosi incidenti sul lavoro e del palese e crescente disinteresse del dio. Conosceva i suoi Greci, Merops. E quante più follie tirava fuori la vecchia nei suoi vaneggiamenti tanto più lui era contento, nessuno comunque l’avrebbe buttata giù da quel tripode dove, infagottata nel suo nero mantello, passava il suo tempo a sonnecchiare tra i vapori. Dopo la chiusura del santuario, Pannychis aveva l’abitudine di starsene seduta ancora un po’ davanti al portale laterale, poi, zoppicando, andava a rintanarsi nella sua capanna, si cucinava un semolino e lo lasciava lì perché si addormentava. Detestava qualsiasi cambiamento nel trantran quotidiano. Solo di tanto in tanto, e sempre di malavoglia, si presentava nell’ufficio di Merops XXVII, borbottando e mugugnando; il gran sacerdote, del resto, la faceva chiamare solo quando arrivava qualche indovino con la richiesta che un oracolo da lui stesso formulato venisse pronunciato dalla Pizia per un suo cliente. Pannychis detestava gli indovini. Va bene che non credeva negli oracoli, ma non vedeva nell’arte del vaticinio niente di particolarmente indecente, gli oracoli non essendo per lei che un’idiozia voluta dalla società; tutt’altra cosa erano invece le profezie dei veggenti, che lei era tenuta pronunciare su loro ordinazione; formulati com’erano in vista di un certo scopo, quegli oracoli celavano sempre qualche sporco intrallazzo, se non addirittura un ben preciso interesse politico; e la sera d’estate in cui Merops, stiracchiandosi dietro la scrivania, le disse col suo solito tono melenso e falsamente cordiale che il veggente Tiresia aveva espresso un desiderio, la Pizia pensò subito che dietro quella richiesta si nascondesse qualche sporco intrigo o calcolo politico.
Per questo, benché si fosse appena accomodata su una sedia, Pannychis XI scattò in piedi e dichiarò che con Tiresia non voleva avere niente a che fare, era ormai troppo vecchia, protestò, per poter imparare, tenere a mente e recitare con sicurezza gli oracoli altrui. Arrivederci e grazie. Un momento, disse Merops inseguendola e sbarrandole il passo sulla soglia dell’ufficio, un momento, non era il caso di prendersela in quel modo, anche lui era convinto che quel cieco di un Teresia fosse un tipo quanto mai sgradevole, di sicuro il più grande maneggione e politicante di tutta la Grecia, e, per Apollo, marcio e corrotto fino alle midolla, ma bisognava ammettere, aggiunse, che nessuno pagava bene come Tiresia, e stavolta la sua richiesta era più che comprensibile, essendo a Tebe di nuovo scoppiata la peste. La peste era di casa a Tebe, borbottò Pannychis, né c’era da stupirsene poi tanto, disse, bastava un’occhiata alle condizioni igieniche intorno all’acropoli, la cosiddetta Cadmea, per rendersi conto del perché in quella città la peste fosse diventata per così dire endemica. Certo, disse Merops XXVII a Pannychis XI sperando di rabbonirla, Tebe era proprio raccapricciante, un fetido buco sotto ogni aspetto, non a caso correva voce che perfino le aquile di Giove faticassero a sorvolare la città perché sbattevano un’ala soltanto, dovendo con l’altra turarsi il naso, e poi… per non parlare poi di quel che succedeva alla corte del re. Tiresia chiedeva di profetare al suo cliente, atteso a Delfi per l’indomani, che la peste non sarebbe finita se prima non fosse stato scoperto l’assassino di Laio, il re di Tebe. Pannychis, stupita per la banalità dell’oracolo, pensò che Tiresia, data l’età, si fosse ormai rincitrullito. Giusto per salvare la forma, domandò ancora quando quel delitto fosse stato commesso. Mah…, esattamente non lo sapeva, fu la risposta di Merops, vari decenni addietro, ma non aveva grande importanza, che l’assassino si trovasse o no, la peste prima o poi sarebbe finita, e allora i Tebani si sarebbero persuasi che gli dèi, per venire loro in aiuto, avessero di loro iniziativa ristabilito la giustizia annientando l’assassino dopo averlo scovato in un qualche remoto nascondiglio.

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