venerdì 29 giugno 2012

"Il ribelle" di Juana de Ibarbourou


Caronte: io sarò uno scandalo sulla tua barca.
Mentre le altre ombre pregheranno, gemeranno o piangeranno,
e sotto il tuo sguardo da sinistro patriarca
timide e tristi, sottovoce, supplicheranno,

io andrò come un’allodola cantando lungo il fiume
e inonderò la tua barca col mio profumo selvaggio,
e illuminerò le onde dell’oscuro ruscello
come una lanterna azzurra che illumini il cammino.

Per quanto tu non voglia, per quanti sinistri lampi
mi lancino tuoi occhi, maestri di terrore,
Caronte, io sulla tua barca sarò come uno scandalo.

Ed esausta d’ombra, di coraggio e di freddo,
quando vorrai lasciarmi sulla riva del fiume
saranno le tue braccia a depormi come conquista di vandalo.

giovedì 28 giugno 2012

Considerazioni libere (287): a proposito dell'attesa di un vertice...

Francamente non mi aspetto molto dal "fatidico" vertice europeo di questi giorni e sinceramente non saprei neppure cosa aspettarmi di preciso. Di sicuro, al di là di qualche dichiarazione di facciata, dal vertice non uscirà una politica che si ponga come primo obiettivo la riduzione della disoccupazione e la lotta contro la precarietà e il lavoro nero; non saranno prese decisioni per avviare un programma di assistenza ai poveri e ai migranti; non sarà varato un grande piano di opere per mettere in sicurezza il territorio e non saranno decisi investimenti sull'istruzione e sulla sanità pubbliche; non verrà proposta una riforma del fisco che faccia pagare le tasse ai grandi patrimoni e si ponga l'obiettivo della redistribuzione dei redditi. La rivoluzione non comincerà da un vertice di questi capi di stato e di governo, in prevalenza esponenti del centrodestra.
Qualcosa comunque dovrà succedere, anche per dare il segnale che, nella loro lungimiranza e benevolenza, i governi decidono per noi. Al di là di tutto, io credo che Monti vada con una qualche tranquillità a questo vertice, almeno per quanto riguarda la tenuta e la durata del suo prestigioso incarico di commissario europeo per l'Italia, incarico che noi continuiamo a definire presidente del consiglio dei ministri. Basta ripensare a quello che è successo nei mesi scorsi. Di fronte alla sempre più evidente inaffidabilità di B. e dei suoi sodali, circa un anno fa chi sa e chi può in Europa ha deciso che era arrivato il momento di commissariare il nostro paese; prima c'è stata la lettera con cui Draghi ha riscritto il programma di governo e poi, visto che B. non voleva e soprattutto non poteva obbedire, hanno imposto il cambio di governo e Monti ha obbedito, seppur con qualche bizantinismo e con molti ritardi dettati non tanto dalla sua inconsistente maggioranza parlamentare - comunque controllabile a colpi di fiducia - ma da una struttura burocratica che vede progressivamente diminuire i propri poteri, accumulati in anni di malgoverno e di clientelismo. In questo contesto, pensate davvero che siano così pazzi da costringere Monti alle dimissioni? Devono salvare Monti, anche perché se si andasse al voto, probabilmente vincerebbe - o sarebbe comunque determinante per la nascita del nuovo governo - ancora una volta B., questa volta a capo di un partito di stampo lepenista antieuropeo e quindi ancora meno controllabile. Allo stesso modo troveranno qualche escamotage per "salvare" Samaras; dopo essersi spesi per scongiurare il "pericolo" Syriza, è improbabile che lascino il governo greco al suo destino, che comunque è già scritto.
Mi è già capitato di scrivere che in questi mesi, contrariamente a quello che una certa vulgata cerca di far credere, c'è più Europa, ma è un'Europa sempre meno democratica. Il problema non è soltanto l'inutilità politica del parlamento europeo, che non ha nessun vero potere e che ha la funzione di fatto di un ufficio studi che elabora dossier e proposte che vengono regolarmente disattese; il problema è la sempre più evidente marginalizzazione dei parlamenti nazionali, le cui funzioni sono delegate ai governi e, nell'ambito delle istituzioni comunitarie europee, ai capi di governo dei paesi più forti e più ricchi, Germania über alles. Da notare anche che il potere esecutivo dell'Unione, già di per sé molto risicato, è stato diviso tra il presidente del consiglio e il presidente della commissione, due persone nessuna delle quali si caratterizza per la forte autorevolezza politica; è cresciuto invece il peso del presidente della Banca centrale europea, il "tedesco" Draghi. C'è poi il potere dei funzionari, quelli che stanno governando di fatto la Grecia, quelli che tra poco dovranno andare in Spagna, per controllare come verrà speso il maxiprestito concesso a qual paese, che prima o poi dovranno venire qui in Italia. Tutti questi, da Draghi ai funzionari della troika, non rispondono a nessun potere democratico, ma hanno un'idea chiarissima di come deve funzionare un paese: mercato del lavoro senza vincoli, spesa pubblica ridotta all'osso, tassazione indiretta al posto di quella diretta; poi chi è più forte resisterà e chi non resisterà peggio per lui. La globalizzazione, nella forma di capitalismo selvaggio che stiamo conoscendo, si sta mangiando la democrazia come l'hanno costruita le generazioni precedenti alla nostra. Senza questa consapevolezza, senza questa fondamentale premessa, qualsiasi analisi di quello che emergerà dal vertice di questi giorni rischia di essere fuorviante: in questo quadro non ci sarà un risultato positivo del vertice. Quello che è bene per i nostri governi non è quello che è bene per noi, quello che è bene per l'1% non è bene per il 99%: bisogna assumere una nuova radicalità, anche per interpretare quello che succede nel mondo. 
Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni e proveremo a commentarlo. Intanto stasera ci consoleremo con la partita. Se vinceremo saremo convinti di aver vendicato i tedeschi "cattivi", se perderemo, sarà l'ennesimo complotto a nostro danno.

mercoledì 27 giugno 2012

27 giugno 1980: strage di Ustica...



27 giugno 1980, ore 20.58
un operatore radar a Marsala:
"Sta' a vedere che quello mette la freccia e sorpassa!"

31 agosto 1999
il giudice Rosario Priore conclude così la sua ordinanza-sentenza:
"L'incidente al DC-9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC-9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti."

lunedì 25 giugno 2012

"Ogni mattina" di Manolis Anaghnostakis


Ogni mattina
Cancelliamo i sogni
Con cautela costruiamo i discorsi
Le nostre vesti sono un nido di ferro

Ogni mattina
Salutiamo gli amici di ieri
Le notti si dilatano come fisarmoniche
Suoni, rimpianti, baci perduti.

(Insignificanti
Enumerazioni
Nulla, solo parole per gli altri

Ma dove finisce la solitudine?)

domenica 24 giugno 2012

"Undici comandamenti e il Programma" di Henry Miller

1 - Lavora a una cosa per volta finché non hai finito.
2 - Non iniziare nuovi libri, non aggiungere altro materiale a Black Spring.
3 - Non ti innervosire. Lavora con calma, gioiosamente, temerariamente su qualsiasi cosa abbia tra le mani.
4 - Lavora rispettando il Programma e non secondo l´umore. Fermati all´ora prefissata!
5 - Quando non puoi creare puoi lavorare.
6 - Cementa un po' ogni giorno, piuttosto che aggiungere nuovo fertilizzante.
7 - Rimani umano! Incontra gente, vai nei posti, bevi se ti va di farlo.
8 - Non fare il cavallo da tiro! Lavora solo con piacere.
9 - Evita il Programma quando ti va – ma ritornaci il giorno seguente. Concentrati. Raffina. Elimina.
10 - Dimentica i libri che vorresti scrivere. Pensa solo a quello che stai scrivendo.
11 - Prima di tutto scrivi. Pittura, musica, amici, cinema, tutto viene dopo.

Il Programma

mattine:
Se intontito, scrivi e organizza, come stimolo. Se in forma smagliante, scrivi.

pomeriggi:
Lavora sulla sezione del momento, seguendo il piano della sezione scrupolosamente. Nessuna intrusione, nessuna deviazione. Scrivi per finire una sezione alla volta, tutta e per bene.

sere:
Vedi gli amici. Leggi nei café. Esplora parti poco familiari – a piedi se piove, in bicicletta se è asciutto. Scrivi, se sei dell’umore, ma solo su un progetto minore. Dipingi se sei vuoto o stanco. Prendi appunti. Fai schemi, progetti. Fai le correzioni di MS.

Nota: Concediti abbastanza tempo durante il giorno per fare ogni tanto una visita nei musei o uno schizzo o una gita in bicicletta. Schizza nei café, sui treni e nelle strade. Evita i film! Biblioteca per i riferimenti una volta alla settimana.

mercoledì 20 giugno 2012

"Ordine del giorno" di Hans Magnus Enzenberger


Telefonare consulente fiscale, lavorare un po'.
Meditare sulla foto di una donna
che si è ammazzata.
Andare a vedere quando si è cominciata a usare
l'espressione immagine del nemico.
Dopo il tuono osservare le bolle
che il nubifragio forma sul lastrico
e bere l'aria bagnata.
Fumare e guardare un po' di televisione senz'audio.
Chiedersi di dove viene il prurito del sesso
durante una squallida riunione.
Pensare per sette minuti all'Algeria.
Dar fuori in bestemmie come un dodicenne
su un'unghia che si è spezzata.
Ricordarsi di una precisa sera,
ventun anni fa, era di giugno,
un pianista nero suonava il cha cha cha
e qualcuno piangeva di rabbia.
Non dimenticare di comprare il dentifricio.
Cercar di capire perché
perché Dio non lascia mai
in pace gli uomini, e neanche il contrario.
Cambiare la lampadina in cucina.
Ritirare dal balcone, con cautela,
la cornacchia fradicia, arruffata, inanimata.
Contemplare le nuvole, le nuvole.
Ma anche dormire, dormire.

martedì 19 giugno 2012

"La verità di Agamennone" di Antonio Machado

La verità è la verità, che la dica Agamennone o il guardiano dei porci. Agamennone: "Sono d’accordo". Il guardiano dei porci: "Non mi convince".

lunedì 18 giugno 2012

Considerazioni libere (286): a proposito di come si vedono dall'Italia le elezioni greche...

Io sono di parte: lo sapete e sapete anche di che parte. Da giovane ero più moderato, invecchiando tendo a essere sempre più fazioso e polemico, con qualche preoccupazione di Zaira, che già prevede gli anni in cui dovrà sopportare un vecchio a cui non va mai bene niente. Faccio sempre più fatica ad ascoltare senza arrabbiarmi le banalità di quelli che vanno in televisione e che scrivono sui giornali e soprattutto mi fanno veramente andare fuori dai gangheri quelli che, in malafede, dicono cose diverse da quelle che pensano. E infatti finisce spesso che spengo la televisione. Ieri sera, nei commenti ai risultati delle elezioni greche ho assistito a una fiera di banalità, di pressapochismo e soprattutto di malafede. Provo a dirvi come la vedo, cercando di non arrabbiarmi troppo.
I greci hanno votato - la seconda volta in meno di due mesi - e sta per nascere un nuovo governo. Le cancellerie europee hanno tirato un sospiro di sollievo: ha vinto il partito su cui loro avevano puntato e non dovranno fare i conti con Syriza. Anche gli speculatori sono contenti: la vittoria di Nuova democrazia garantisce che il patrimonio pubblico greco sarà svenduto, naturalmente a loro, e che la crisi greca è destinata a peggiorare, garantendo a loro lauti guadagni. Anche i greci ricchi sono contenti di questo risultato: avranno ancora qualche mese per finire di portare all'estero i loro depositi in euro, potranno partecipare alla spartizione delle privatizzazioni e, in caso di ritorno traumatico alla dracma - cosa ancora possibile, viste le ricette ultraliberiste di Samaras, che sono destinate al fallimento - potranno continuare a curare i loro lucrosi interessi. Anche i greci che in questi anni hanno approfittato del sottogoverno hanno gioito, vedendo il volto rassicurante degli esponenti di Nuova democrazia festeggiare la vittoria: la lotta alla corruzione e al clientelismo è rimandata a data da destinarsi. Riconosco che non è stato facile per i greci scegliere questa volta quale partito votare. Nel corso di questa concitata campagna elettorale - molto di più di quanto fosse già capitato in vista delle elezioni del 6 maggio - dall'Europa è arrivato un messaggio chiaro: o votate Nuova Democrazia (o al massimo l'inoffensivo Pasok) oppure faremo fallire la Grecia. L'ex primo ministro Papademos, l'uomo della Banca centrale, il Monti greco, lo ha detto chiaro e tondo pochi giorni prima del voto: non ci sono più i soldi per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni, ossia il poco che tiene in vita un paese in cui l'industria praticamente non esiste, il turismo è in crisi e l'agricoltura è a livelli di sussistenza; il messaggio sottinteso è che i prestiti sarebbero arrivati solo a condizione che non vincesse Syriza. Il messaggio è stato chiaro e brutale ed è evidentemente arrivato a destinazione. Anche sui giornali italiani, i commentatori di "regime" - ossia quasi tutti - hanno presentato le elezioni greche come un referendum tra euro e dracma. E ieri sera - e oggi negli editoriali - hanno potuto dire trionfalmente che ha vinto l'euro.
Nessuno però ha raccontato cosa è successo davvero in questi due mesi nel panorama politico greco. Fino al 6 maggio scorso la scena politica greca era basata su due grandi partiti: Nuova democrazia e Pasok, uno di centrodestra e uno di centrosinistra, uno legato alla famiglia dei popolari europei e uno membro storico dell'Internazionale socialista. Questi due partiti hanno alternativamente governato il paese dalla fine della dittatura dei colonelli a oggi, rappresentando insieme i due terzi dell'elettorato greco. Il 6 maggio Nuova Democrazia e Pasok si sono fermati rispettivamente al 16,8% e al 13,2%, con l'inserimento al secondo posto di Syriza con il 16,8%, un partito che nel 2009 aveva avuto il 4,6%. C'è stata una grande frammentazione del voto, con il proliferare di molte liste minori che non hanno neppure superato la soglia di sbarramento e il bipolarismo greco è finito, tanto che è stato impossibile formare un governo, neppure di unità nazionale. Alle elezioni di ieri, il percorso di questo pendolo ideale si è completato e la scena politica si è di nuovo polarizzata: Nuova democrazia è salita al 29,6% (con quasi 650mila voti in più), Syriza  è arrivata al 26,8% (con 600mila voti in più) e il Pasok è rimasto al 12,2%, perdendo 70mila voti. La maggioranza dei greci si è concentrata sui due partiti maggiori, ma la novità è avvenuta nel campo della sinistra, perché Syriza, con un programma di sinistra radicale, ha preso il posto del Pasok, che invece ha accettato il neoliberismo. Anche se Syriza purtroppo non ha vinto, chi non dà questa notizia è in malafede, perché cerca di nascondere un risultato brillante della sinistra europea. Questa mattina per evitare di dare questa notizia un commentatore che pure stimo, come Corradino Mineo, ha detto che in Grecia era avvenuto qualcosa di epocale, come se in Italia il Cinquestelle fosse diventato il secondo partito. Syriza non c'entra niente con il grillismo, che si ostina a ripetere che le differenze tra sinistra e destra sono un retaggio del passato. Syriza è sinistra e si è presentata con un programma di sinistra.
In rete si trova, in greco, il programma di Syriza e credo meriti attenzione. Questa è la traduzione che dei punti principali ha fatto Filippomaria Pontani per il Post, in un lungo articolo che vi consiglio di leggere:

rigettare il memorandum e il "salvataggio" come fonti primarie dei mali della Grecia e brandire la catastrofe greca come un’"arma nucleare" (una pistola puntata) per indurre una svolta radicale nella politica europea;
cancellare le recenti decisioni iugulatorie sul salario minimo, il taglio degli stipendi e i licenziamenti di massa;
promuovere una moratoria internazionale del pagamento degli interessi sul debito, rimandandolo a tempi in cui l’economia sia in espansione, nel quadro di un’iniziativa globale volta a prevenire che il caso greco si replichi (come ineludibilmente si sta replicando) in altri Paesi assai più difficili da "salvare";
mantenere come primo obiettivo la riduzione della disoccupazione, e lottare contro il lavoro flessibile, la precarietà, il lavoro nero, i contratti individuali, la riduzione del salario minimo;
incentrare la politica greca sui beni comuni, sull’istruzione pubblica, sugli investimenti pubblici, sulla fine delle privatizzazioni di beni e servizi, su una più rigida separazione fra Stato e Chiesa;
istituire un vero registro dei beni immobili per poter effettuare importanti prelievi sui grandi patrimoni, e per avviare (tramite una serie di dettagliate revisioni normative e abolizioni di privilegi) una riforma fiscale destinata ad abbattere davvero l’evasione;
avviare un serio programma di assistenza ai poveri, ai senzatetto, ai migranti, e rilanciare in particolare la politica agricola, oggi in gravissima sofferenza finanziaria;
abolire le procedure "d’urgenza" (il cosiddetto fast track) che spesso consentono di avviare grandi opere deleterie per l’ambiente senza i dovuti controlli; prevedere dunque che ogni decisione politica sia il più possibile "partecipata";
imporre regolamenti anti-corruzione molto più rigidi e specifici, che nessun altro partito potrebbe sostenere (eliminazione dell’immunità per deputati e ministri; controlli da parte di agenzie indipendenti; rendiconto dettagliato del finanziamento pubblico);
democratizzare le forze dell’ordine e impedire loro di travalicare il mandato in occasione delle manifestazioni di piazza;
ritirare le forze armate dalle "guerre umanitarie", togliere il sostegno agli scudi antimissile della Nato, cessare la cooperazione militare privilegiata con Israele, avviare una politica di pace che miri a risolvere la questione macedone senza pregiudizi nazionalistici, e quella cipriota creando uno stato unitario bietnico;
avviare contatti e legami anche con paesi extra-europei (Russia, Cina, Sudamerica) in vista di possibili investimenti comuni.

Badate bene: non si parla di uscire dall'euro, e infatti Syriza, a differenza dei comunisti del Kke, ha sempre detto che la Grecia doveva rimanere nell'euro e nell'Unione; sono i governi europei che si sono inventati il referendum "dracma-euro" o meglio hanno minacciato la Grecia di farla uscire dall'Unione se avesse vinto la sinistra. Si tratta di un programma irrealizzabile? Forse ogni programma elettorale lo è. Si tratta di progetti velleitari che quelli di Syriza non avrebbero avuto la capacità di realizzare? Forse sì, forse l'inesperienza di governo dei candidati di questo partito è stato un elemento decisivo, che ha pesato nella scelta dei cittadini greci. La cosa significativa è che in un programma di governo coerente sono risuonate chiare parole d'odine di sinistra. Forse sarebbe stato meglio affidarsi a persone di cui non si conoscono le capacità piuttosto che a persone le cui capacità si conoscono fin troppo bene, visto che sono quelli che hanno truccato i conti per far entrare la Grecia nell'euro e che hanno portato il paese a questo stato. Io comunque non voglio discutere le scelte dei greci che rispetto, perché fatte in un momento difficilissimo e con un condizionamento internazionale fortissimo.
La questione rilevante è la scelta politica. C'è un'ideologia largamente dominante, che ha condizionato fortemente una parte della sinistra, in maniera drammatica in Grecia - vedi quello che è successo al Pasok - e in Italia, dove il Pd ha accettato supinamente tutte le ricette proposte da Monti, e c'è una proposta alternativa di sinistra, che in Grecia ha quasi vinto le elezioni. In Italia dire con chiarezza questa cosa è destabilizzante, visto che ci siamo ormai abituati ad avere un partito maggioritario di centrosinistra che ha rinunciato ad essere tale e alcuni piccoli partiti della cosiddetta sinistra radicale che sono avviluppati in estenuanti dibattiti ideologici o persi nei propri interessi di bottega, magari contrattando un qualche posto di governo con il partito più grande, ma senza minimamente condizionarne le politiche. Tra i commenti a "caldo" sulle elezioni greche, alcuni interessati più alle questioni italiane che a quelle greche, auspicavano un grande accordo tra tutti i partiti greci, sul modello "montiano", dimostrando ancora una volta di non aver capito nulla. I programmi di Syriza e di Nuova democrazia (e della "mosca cocchiera" Pasok) sono alternativi e quindi è giustamente impensabile un accordo; è in Italia dove non ci sono proposte alternative e quindi si possono fare accordi dove tutti i gatti finiscono per diventare "bigi".
Mi rendo conto che può sembrare un paradosso, ma nonostante il pessimismo per quello che succederà in Grecia, dove temo che la crisi peggiorerà e per quello che non riesce a succedere in Italia, dove l'unica alternativa possibile al "montismo" è ormai il populismo nazionalista "antieuropa" e "antitasse" sostenuto da il Giornale e Libero, quello che è successo in queste settimane in Grecia mi dà qualche incoraggiamento.

"La strada non c'è" di Ko Un


La strada non c'è.
Da qui in poi, speranza.
Mi manca il respiro,
da qui in poi, speranza.
Se la strada non c'è,
la costruisco mentre procedo.
Da qui in poi, storia.
Storia non come passato, ma come tutto ciò che è.

venerdì 15 giugno 2012

Storie (VII). "L'uomo che ha ucciso Socrate..."

Teodoto era arrivato da Mileto già da un anno, ma continuava a perdersi per le vie di Atene. Il padre, uno dei più ricchi mercanti della città ionica - che non sapeva leggere, ma che conosceva a memoria l'Odissea - lo aveva mandato a studiare all'Accademia, la scuola più prestigiosa di tutto il mondo greco, che Platone aveva fondato solo pochi anni prima. A dire la verità Teodoto non era molto portato per la filosofia e per le scienze, avrebbe preferito mettersi subito a fare il mercante, voleva viaggiare, vedere posti nuovi, conoscere nuove genti, eppure studiava con impegno, perché non voleva mancare di rispetto al padre e sperava di poter tornare presto nella sua città. Non appena ne aveva la possibilità, quando Platone e i suoi discepoli più vecchi interrompevano per qualche ora le lezioni, amava camminare per la città, tanto più grande della sua. Camminare per le strade di Atene gli dava l'impressione di fare un viaggio intorno al mondo, attraverso le lingue dei mercanti, attraverso i racconti che si incrociavano tra la Pnice ed il Pireo.
Quel giorno, perdendosi come al solito, era arrivato fino al Ceramico, tra le botteghe dei vasai. Osservava i vasi, le anfore, i crateri, ammirava la perfezione dei disegni e delle pitture. Ogni laboratorio esponeva sulla strada una parte della propria mercanzia; si soffermò in particolare davanti a una di queste piccole botteghe. Come nelle altre c'era il vasaio impegnato al tornio, che modellava una piccola brocca. Una scena simile a quella di tutte le altre botteghe, eppure notò che quell'artigiano era molto più vecchio di tutti gli altri e soprattutto che non sembrava guardare quello che stava facendo, il suo sguardo era come perso in un punto in fondo alla stanza, dove ardeva il grande braciere. Sempre più incuriosito, Teodoto si avvicinò in silenzio alla porta della bottega.
"Entra pure, avvicinati.". Teodoto balbettò un ringraziamento e qualche parola di scusa. "Devi parlare un po' più forte, ragazzo. Non riesco a vedere il tuo viso.", "Non sono venuto a comprare, stavo solo guardando.", "Non fa nulla. Accomodati, siediti qui davanti. Mi fa piacere avere compagnia. Il mio garzone è in giro a fare delle consegne e credo che farà tardi. Stai guardando Fanorio, probabilmente il più vecchio vasaio di Atene, ormai. Mi dispiace non poter ricambiare. Sono del tutto cieco da dieci anni, vedo solo i miei vasi. Li vedo ancora con le mani e per fortuna posso lavorare.", "Posso chiederti quanti anni hai?", "Certo. Sono nato 86 anni fa, l'anno in cui gli ateniesi hanno votato per esiliare Temistocle.". "Incredibile, tu hai conosciuto davvero tutti i grandi uomini di questa città.", "E le grandi donne. In questi novant'anni in cui Atene è quasi sempre stata in guerra, con gli uomini sulle flotte e impegnati nelle campagne militari, ragazzo, chi credi che abbia tenuto insieme questa città? Durante la peste, se non ci fossero state le donne a curare noi uomini, a coltivare gli orti, a far acqua nei pozzi, a riparare le Grandi mura, Atene sarebbe caduta molto prima e forse sarebbe tornata un villaggio di coltivatori di olive e non la grande città che tu hai la fortuna di vedere. Prima o poi qualcuno dovrà riscrivere la storia, per raccontare che senza le donne questa città sarebbe stata molto diversa.", "Non ci avevo mai pensato.", "Perché i libri di storia, ragazzo, finora li hanno scritti gli uomini, ma confido che prima o poi questa cosa cambierà e ci sarà il nome di una donna dopo quelli di Erodoto e di Tucidide.". "Io sono di Mileto. Tu hai mai viaggiato?", "No, ho sempre voluto stare qui ad Atene, ho preferito andarmene soltanto quando c'è stato il governo dei Trenta. Avevo già avuto qualche problema con i Quattrocento e così decisi di trasferirmi da mia sorella, che aveva sposato un commerciante di Tebe. Ma non appena Crizia morì, tornai qui.". "Tu hai conosciuto Pericle?", "A essere sincero, non ho mai parlato con lui, l'ho ascoltato molte volte in assemblea, ho votato per lui molte volte, ma non ho mai parlato con lui. Pericle era un uomo distante, nonostante tutto è sempre rimasto un aristocratico. Invece ho parlato diverse volte con Aspasia. Lei veniva spesso qui nel Ceramico, come al Pireo e negli altri demi; voleva incontrare i sostenitori del partito di Pericle. Io allora organizzavo i vasai di questo demo. Ricordo gli incontri precedenti alla guerra del Peloponneso: passavamo notti intere a discutere con gli altri artigiani e Aspasia veniva qui spesso, voleva capire cosa pensava il popolo di Atene, anche perché eravamo noi che dovevamo votare e soprattutto che dovevamo combattere. Io ero contrario alla guerra contro Sparta, sono ancora convinto che sia stata un tragico errore; votai contro la decisione di inviare aiuti a Corcira quando quella città combatteva contro i corinzi, poi contro l'esclusione di Megara da tutti i mercati della Lega e infine contro l'assedio di Potidea. Bada bene, io non sono mai stato un sostenitore di Sparta e del suo regime, ma pensavo che l'avremmo sconfitta con la cultura e con l'arte: penso che il Partenone sia stata la nostra più grande vittoria nel conflitto ideale contro gli spartiati. Sono convinto che Aspasia fosse in buona fede, lei credeva davvero che Atene stesse combattendo una guerra di civiltà e che la sconfitta di Sparta avrebbe significato il consolidarsi della democrazia in tutte le città greche. Io credevo allora - e lo credo tuttora - che la democrazia avrebbe vinto con la forza dell'esempio e che sarebbe stata tanto più forte quanto più avesse difeso il valore della pace. Per me stavamo semplicemente combattendo una guerra commerciale e tutti i capi del partito, compreso Pericle, avevano troppi interessi personali da difendere: la guerra serviva a rendere più ricchi i loro affari e così alla fine mi allontanai dal partito. Continuavo a partecipare alle assemblee, naturalmente dopo che la guerra scoppiò feci sempre il mio dovere di cittadino, anche se quella guerra non era la mia guerra. Non fui richiamato perché già allora ero cieco da un occhio; una malattia mi ha portato via da bambino l'uso dell'occhio sinistro e la vecchiaia mi ha tolto anche il destro, come vedi. Ho pagato regolarmente le tasse e quando la città mi ha chiesto delle forniture non ho ne approffittato, come hanno fatto in tanti, purtroppo.". "E dopo Pericle hai sostenuto qualche altro politico?", "No. Io credevo davvero che la democrazia avrebbe portato un maggior benessere per tutti, io ci credevo quando Pericle ripeteva che Atene sarebbe stata un modello per tutta la Grecia. Io sono stato uno dei pochi che è intervenuto in assemblea per dire che la decisione di attaccare l'isola di Melo era umanamente inammissibile, era un oltraggio alla nostra storia e alla nostra cultura, ma ormai lo spirito della guerra aveva minato l'animo di questa città, come un verme che svuota all'interno un frutto, che al di fuori sembra ancora commestibile. Dopo che è arrivata la notizia che tutti gli uomini di quella piccola isola erano stati uccisi dal nostro esercito e che le donne e i bambini erano stati fatti schiavi, tutti senza nessuna pietà, ho smesso di partecipare alle assemblee, per me fare politica non ha avuto più senso.".
Fanorio si interruppe di colpo, mentre continuava a modellare il vaso che girava sul piccolo tornio. Teodoto allora gli chiese: "Tu hai conosciuto anche Sofocle?", "Un uomo simpatico, uno che amava fare gli scherzi. Sì, Sofocle era uno che ci credeva davvero, pensava che il mondo lo potessimo veramente cambiare. Ha speso tante energie, io non ero sempre d'accordo con lui, era un po' conservatore, non pensava che il fine della democrazia fosse anche redistribuire le ricchezze, come pensavo io, ma ci teneva alla democrazia, con sincerità. E poi era così bravo a scrivere. Scrivi tragedie anche tu, ragazzo? O sei un poeta?", "Sto studiando filosofia. Con Platone.", "Se ne parla molto in città. Non so, ho sempre considerato la filosofia un po' fumosa. Senza offesa, ragazzo, non mi riferisco certo a te. Ho conosciuto Anassagora, a volte veniva con Aspasia alle nostre riunioni. Un uomo distratto. Io non capivo molto delle sue idee, ma mi sembrò un grave errore costringerlo all'esilio.Voi filosofi dovete avere la libertà di studiare, senza costrizioni.", "Io non sono ancora un filosofo.", "Sei curioso, ragazzo, e credo che questo sia un buon inizio. Mi piaceva ascoltare le lezioni di Protagora e di Gorgia, mi divertivano i loro ragionamenti.", "Platone ci insegna a diffidare dei sofisti.", "L'ho sentito dire. Ma io non ho mai amato quelli che dicono che il bianco è bianco e il nero è nero; forse a causa dei miei difetti di vista ho sempre notato di più le sfumature di grigio.".
Teodoto approfittò di un momento di silenzio, per cambiare discorso, non voleva iniziare una discussione filosofica e soprattutto non voleva mancare di rispetto a quel vecchio vasaio: "Quindi hai conosciuto anche Socrate?", "Socrate lo conoscevano un po' tutti ad Atene, era sempre in giro per la città a parlare con chiunque avesse del tempo da dedicargli. Io però l'ho conosciuto bene. Eravamo praticamente coetanei, siamo nati a pochi mesi di distanza e Socrate era un artigiano, come me, anche se lui, scultore figlio di scultore, tendeva a considerarsi un po' superiore a noi vasai. Ho discusso con lui molte volte. Ci siamo sempre scontrati sull'idea di democrazia. Per me ogni uomo ha il diritto di partecipare alla vita della sua città, perché possiede in qualche grado il senso politico, e ogni voto è uguale in assemblea, il mio come il tuo, anche se io sono povero e tu sei ricco, anche se io non ho studiato e tu sei un famoso filosofo, anche se io sono un bastardo senza genitori e tu il rampollo di una famiglia che discende da Clistene, anche se tu sei un uomo e io sono una donna - ma su questo punto non ho mai trovato l'approvazione dei miei concittadini, neppure dei democratici più radicali. Per Socrate invece il governo della città doveva essere il compito esclusivo delle persone intelligenti, di quelli che avevano studiato. L'unica cosa che apprezzavo - e su cui eravamo d'accordo - è che lui non faceva distinzioni tra donne e uomini e pensava che anche le donne potessero assumere le cariche più alte dello stato. Socrate non riusciva proprio ad accettare che tutti i voti avessero lo stesso peso. Ha messo in testa strane idee a tanti giovani delle buone famiglie ateniesi, Alcibiade, l'uomo che amava la guerra, che per la sua ambizione ci gettò nella catastrofe siciliana, era un suo allievo, Crizia, l'oligarca che fece il colpo di stato dei Trenta e che si alleò con i spartani, era un suo allievo, tanti nemici della democrazia sono stati suoi allievi.". Fanorio fece una lunga pausa. Teodoto rimaneva in silenzio, poi il vecchio ricominciò: "Io fui uno dei giurati al processo: fui sorteggiato. Non fu facile decidere: Socrate si difese con un bellissimo discorso. Ebbi l'impressione che per tutto il tempo della sua arringa guardasse solo me, anche se eravamo in cinquecento a dover decidere della sua vita. Forse mi guardava perché mi conosceva bene e perché eravamo i due più vecchi quel giorno. Meleto per accusarlo fece un discorso ridicolo: non aveva senso tirare fuori il tema dell'empietà. Al tribunale non doveva importare nulla che egli credesse o no negli dei. Neppure io ci credo, non ci credeva Pericle e in fondo neppure Sofocle ci credeva. Quello era un processo politico e tale sarebbe dovuto rimanere: Meleto sbagliò a dargli altri significati. La questione era semplice. Meleto avrebbe dovuto chiedere ai giurati: Socrate ha indebolito la nostra democrazia? Su questo non c'erano dubbi, Socrate non amava la democrazia, sosteneva il governo dei migliori: questo lo avrebbero potuto testimoniare centina di ateniesi che avevano parlato con lui. Io ero convinto che lo avremmo condannato all'esilio: sarebbe stata la pena adeguata per le sue colpe, ma poi Socrate ci tese una trappola e non solo chiese di essere assolto, ma pretendeva di ricevere un premio per la sua attività pedagogica. Fu lui a spingere il tribunale verso la pena di morte. Io rimasi in dubbio fino all'ultimo, poi votai a favore della condanna. Speravo che alla fine i suoi ricchi amici lo avrebbero salvato: lui sarebbe andato in esilio e noi avremmo vinto. Ma Socrate tenne duro, fu, come al solito, più intelligente dei suoi amici che lo spingevano alla fuga. Con la sua morte gettò in faccia ad Atene la superiorità morale degli uomini come lui, capaci perfino di morire per la loro città. Lui pensava che nessun marinaio o nessun contadino illetterato sarebbe stato capace di farlo e così pensò di aver dimostrato la forza dell'aristocrazia sulla democrazia. Si sbagliava, perché io ho conosciuto tanti uomini, tutti normali, che sono partiti per la guerra e che non sono tornati: non erano eroi, ma credevano in Atene e nella sua democrazia e per questo sono morti.". Il vecchio si interruppe di nuovo, anche le mani si erano fermate, la brocca era ormai finita. "Sì, quella volta mi sono sbagliato, non dovevo votare a favore della condanna, non dovevo fare il suo gioco. Quella morte è stata una sconfitta per la democrazia ateniese e temo che così sarà ricordata in futuro, se si troverà qualcuno che racconterà a suo modo questa storia. Ricordo che mi guardò, mentre deponevo il mio voto, sapeva che stavo votando contro di lui, non avrei potuto fare altro, sono sempre stato fedele alle mie idee. Ho sempre pensato che Socrate avrebbe apprezzato l'ironia di questa storia: alla fine è stato l'unico uomo che io abbia mai deciso di uccidere.".

martedì 12 giugno 2012

"Bevendo uzho..." di Vassilis Vassilikòs


Bevendo uzho "Sans Rival"
mi sono ricordato
d'antiche campagne,
di frasi smozzicate
fatte d'oliva e di pasturmá
e di un pezzo di formaggio di Kíthnos.
L'odore del pianterreno
e la chiave della latrina
sempre in mano al proprietario.
E Strátos e Procópios e Kóstas
e Vághias di Kozháni
che nella capitale voleva
diventare regista.
I miei amici che non possono più bere
e gli altri che adesso bevono senza di me.

E mi sono ricordato di tutto questo
come di una poesia di Kavafis in traduzione
quando non hai l'originale, quando,
non potendo reggere oltre
all'incendio della memoria,
versi nel tuo bicchiere molta acqua, metti del ghiaccio
e bevi allora un liquido
biancastro carico di nostalgia e dolcezza.

giovedì 7 giugno 2012

"Anima" di Stefano Benni


Anima
ti sembran tempi per parlar dell’anima?
Non ci sono più diavoli,
che la richiedono
preferiscono i titoli
è fuori moda l’anima.

Anima
se ti duole l’anima
non servono antibiotici
i medici si arrendono
non ci sono meccanici
non si ripara l’anima.

E ci sono paesi
di poche anime
e ci sono città
di milioni di anime
ma non si vedono
si vede solo il traffico
e le file ai semafori
è solitaria l’anima.
Anima
io l’ho vista una volta la mia anima
mi era uscita di bocca
come il fumo di un sigaro
mi ha chiesto se ero
stanco di vivere
ho detto: sì
ma vorrei insistere
e con un gemito
tornò al posto solito
è paziente l’anima.

Anima
ci sono belle anime
in corpi ridicoli
e fotomodelle
con anime orribili
e fanghiglia d’anima
dentro molti politici
è nascosta l’anima.

E ci sono villaggi
di poche anime
e ci sono paesi
di milioni di anime
e quando muoiono
e in cielo salgono
è un grande spettacolo
un ingorgo cosmico
e i giornali commentano
centomila vittime
ma erano anime inutili
di lontani popoli
mesopotamici
e si piange un attimo
poi ci si lava l’anima
e si dimentica.

"Via a senso unico" di Lucija Stupica


Il rumore del furgone della posta,
come se si recasse a fare compere,
tento di raggiungerlo scendendo le scale,
invece della posta solo la buca vuota delle lettere,
a scrivere ormai sono in pochi, forse lo sanno
i due vecchi dell’angolo che in un mattino assolato han messo
le loro sedie pieghevoli sul marciapiede,
loro sanno, per giornate intere osservano la via
e chiacchierano, tacciono, scrutano, di nuovo parlano,
loro due sanno, mentre il mondo vertiginosamente si lascia andare
lungo la via, che il loro domicilio rimane sempre lo stesso,
mentre portano il bucato in lavanderia,
si lavano i capelli e preparano da mangiare
e di nuovo ognuno sulla propria sedia di plastica,
forse oggi con la mano più tremante di ieri
– ed io bramo di carità,
raccolgo degli insignificanti sassolini –
"Credo di essermi inventata la prima fase."
dice Virginia W.; il primo passo è il più difficile,
sempre qualcosa lo frena, giù per le scale
o nella prima lettera, nel passo verso l’amore, l’invecchiare, la fine,
forse proprio per questo, perché il viaggio è lungo,
come si viaggia a lungo con la poesia,
una volta che ti ha sfiorato lievemente,
come avviene con un contatto che è eterno,
i due vecchi sanno, mentre
i cartelli stradali nella propria lingua
parlano di loro: È una via a senso unico,
indietro non si può, solo proseguire, proseguire...

martedì 5 giugno 2012

"Voglio una vita a forma di spina" di Boris Vian


Voglio una vita a forma di spina
Su un piatto azzurro
Voglio una vita a forma di cosa
Sul fondo di un coso solitario
Voglio una vita a forma di sabbia fra le mani
A forma di pane verde o di brocca
A forma di molle ciabatta
A forma di «dirindindina»
Di spazzacamino o di lillà
Di terra piena di sassi
Di barbiere selvaggio o di piumino folle
Voglio una vita a forma di te
Ed io l'ho, ma non mi basta ancora
Non sono mai contento.

sabato 2 giugno 2012

dal Verbale della seduta dell'Assemblea Costituente di lunedì 24 marzo 1947



Ruini
Debbo far notare come anche qui aleggia nell'Aula su tutti noi un'ispirazione comune, un'esigenza da tutti sentita di condannare la guerra e di tendere ad una organizzazione internazionale.
Questo è il punto comune. Le altre diventano piuttosto questioni di formulazione tecnica. Ho discusso amichevolmente con l'onorevole Zagari, alla ricerca non di un compromesso, ma di un'espressione migliore e più completa. Speravo di esservi riuscito; ma se è difficile mettersi d'accordo, per esprimere un sentimento comune, a 75 membri della Commissione, immaginate come è più difficile mettere d'accordo 550 persone. È quasi impossibile improvvisare definizioni tecniche precise, ed esatte, in un dibattito che pur rivela tanta competenza e tanto appassionamento.
Dirò le ragioni per cui la Commissione stamani ha ritenuto di accogliere alcuni degli emendamenti presentati e di fonderli nel suo testo; che era in origine: «L'Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente... ». Risuonava qui come un grido di rivolta e di condanna del modo in cui si era intesa la guerra nel fosco periodo dal quale siamo usciti: come guerra sciagurata di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Ecco il sentimento che ci ha animati. Ma è giusta l'osservazione fatta anche dall'onorevole Nitti che però sembra esagerato e grottesco parlare, nelle nostre condizioni, di guerra di conquista. È meglio trovare un'altra espressione.
Si tratta anzitutto di scegliere fra alcuni verbi: rinunzia, ripudia, condanna, che si affacciano nei vari emendamenti. La Commissione, ha ritenuto che, mentre «condanna» ha un valore etico più che politico-giuridico, e «rinunzia» presuppone, in certo modo, la rinunzia ad un bene, ad un diritto, il diritto della guerra (che vogliamo appunto contestare), la parola «ripudia», se può apparire per alcuni richiami non pienamente felice, ha un significato intermedio, ha un accento energico ed implica così la condanna come la rinuncia alla guerra.
Dopo i verbi, veniamo ai sostantivi. Si è, in alcuni emendamenti, negata la guerra, come strumento di politica nazionale e di risoluzione delle controversie internazionali. Sono formule corrette, a cui ricorrono documenti ed atti internazionali, come il patto Kellogg, che, ahimè, dovrebbe essere ancora in vigore! Non ci dobbiamo comunque dimenticare che la Costituzione si rivolge direttamente al popolo: e deve essere capita. Parlare di «politica nazionale» non avrebbe un senso chiaro e determinato. Da accettare invece, perché definitiva, la negazione della guerra « come risoluzione delle controversie internazionali». Potrebbe bastare; ma si è posto uno scrupolo: se non sia opportuno richiamare anche quel termine di negazione della guerra «come strumento di offesa alla libertà altrui» che ha una ragion d'essere, una accentuazione speciale che può restare a sé di fronte agli altri mezzi di risoluzione delle controversie internazionali. Ecco perché la Commissione propone: «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali».
[...]

Presidente Terracini
Pongo in votazione l'articolo 4, che diventerà l'articolo 6 della Costituzione, nel suo complesso:
«L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento internazionale, che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni».

(È approvato - Vivi applausi).

"La mia terra ferita" di Roberto Roversi

C´è una crepa nel cuore dell´Italia. Una crepa nella terra che abbiamo dimenticato e una crepa nella storia che spesso ci pesa ricordare. Sono abbastanza vecchio da aver vissuto il terremoto del 1929: l´Emilia doveva essere infrangibile e invece dormimmo all'aperto per giorni, qualcuno nelle poche macchine che c'erano, tanti nelle tende, e poi fummo ‘sfollati´ a San Marino di Bentivoglio, un piccolo paese in campagna, vicino a Bologna. Costruimmo casette in legno – ricordo ancora l'odore di colla – per provare a difenderci e ricominciare.
Anche allora nessuno ricordava le scosse della storia, quando nei secoli passati persino la Torre degli Asinelli era stata danneggiata. L' Emilia pensa spesso di essere indenne: viene colpita, soffre e dimentica.
Quel che sta succedendo adesso purtroppo riguarda tutti: abbiamo cementificato i fiumi, trapanato campi e colline. Dalla terra abbiamo risucchiato l´anima rispettabile, senza pietà. E quando arriva un terremoto, la catastrofe ci ricorda la forza imprevedibile e ci trascina nello sgomento.
Conosco bene quelle zone, la Bassa tra Modena e Ferrara, ricordo i campi e l'agricoltura. Poi è arrivato lo sfruttamento, qui come altrove. Ci sono posti con nomi bellissimi, Concordia, Mirandola, San Felice. Sono paesi della pianura, zone che circondano Bologna, paesi a un pugno dalle nostre finestre. Che hanno tremato con loro.
Ma oggi non credo che serva poesia né demagogia, perché la nostra terra l'abbiamo abbandonata. Servirebbe speranza, quella sì. Ma per la speranza occorre una passione che può nascere solo da una visione più grande che non schiaccia i deboli, gli umili, gli indifesi.
Parliamo spesso del senso di comunità che qui, in queste zone, è forte e saldo. Eppure credo, senza essere apocalittico, che anche quello possa andare smarrito. Nelle disgrazie ritroviamo la reciproca pietà: vengono fuori sentimenti austeri, di collaborazione. Ma sono sentimenti. Quello che serve è una visione, larga, del futuro. Che riconosca il passato e quel che è successo. Che ce lo faccia leggere, finalmente, e che lo voglia cambiare.
Come fecero gli illuministi dopo il terremoto di Lisbona: lo racconta Kant, lo spiega Voltaire. Un progetto per una città nuova. E – senza più bisogno di citare i grandi filosofi – come successe in Friuli. Quella ricostruzione è stata una vera ricostruzione: non c'è esempio uguale.
Oggi viviamo in un tempo arretrato, anche qui, in Emilia. E abbiamo sotto gli occhi le transenne che ancora imprigionano L'Aquila. Serve una tensione operativa, qualcosa che non sia solo percepito come elemosina di Stato ma diventi volontà di Governo per dare un segnale vero.
Per questo vorrei sfuggire alla retorica della comunità ferita che si rialza: può essere pericolosa perché ogni individuo deve contare su se stesso sapendo di poter contare sullo Stato. Su un'idea di progresso, di futuro. Abbiamo massacrato la terra, l'abbiamo manovrata e vilipesa, abbiamo deviato le acque e consumato natura: anche qui. Impietosamente. E ci siamo dimenticati della crepa, delle tante crepe che si possono aprire.
L´unica vera “vittoria” sulla tragedia del terremoto sarebbe quella che riconsegnasse alla gente la convinzione culturale, morale e istituzionale del mondo in cui si vuole vivere, lasciando da parte utopie liberistiche, falsamente democratiche. Dobbiamo ritrovare il coraggio di difenderci dal vortice della mortificazione del presente, “alzando da terra il sole”.

dal Verbale della seduta dell'Assemblea Costituente di sabato 22 marzo 1947

Presidente Terracini
Cominciamo intanto l'esame dell'articolo 1:
«L'Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».
A questo articolo sono stati presentati vari emendamenti, dei quali credo necessario fare una breve analisi per vedere se in realtà, si tratti di veri emendamenti o non piuttosto di formulazioni che riprendono, sia pure con diverse parole, gli stessi concetti degli articoli redatti e presentati dalla Commissione, sicché non possono essere considerati veri emendamenti.
[...]

Segue l'emendamento degli onorevoli Fanfani, Grassi, Moro, Tosato, Bulloni, Ponti, Clerici, di cui do lettura:
«L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
L'onorevole Fanfani ha facoltà di svolgerlo.

Fanfani
L'articolo 1 del progetto è stato sottoposto a parecchie critiche, rivelate, del resto, dai vari emendamenti finora proposti. Sul primo comma i colleghi hanno rilevato l'ambiguità, nel momento storico attuale, della parola «democratica», donde i tentativi fatti per conto dei liberali dall'onorevole Crispo, per conto del fronte liberale dell'Uomo Qualunque dagli onorevoli Coppa e Rodinò, per conto dei vari partiti di sinistra dagli onorevoli Basso, Gullo e Togliatti, di accrescere la qualifica «democratica» o in senso parlamentare con qualche aggiunta specificata o, diciamo così, in senso lato laburista, con la qualifica di Repubblica democratica dei lavoratori.
[...]
In conclusione, i colleghi che hanno presentato gli emendamenti e anche gli altri colleghi che in circostanze diverse hanno toccato la materia di questo articolo del progetto, sostengono che l'articolo 1 non è omogeneo, non è proprio, non è sufficientemente sintetico. Tale sarebbe potuto divenire ove il primo comma avesse esaurito in una breve definizione della Repubblica l'enunciato di tutti i caratteri acquisiti dallo Stato dopo le rivoluzioni susseguitesi dal 1789 in poi, aggiungendo anche quei caratteri che nelle più recenti rivoluzioni e nelle aspirazioni attuali dei popoli una Repubblica veramente democratica deve acquistare.
In più si chiedeva e si chiede che la sintetica definizione della Repubblica, contenuta nelle proposte per il primo comma, fosse seguita immediatamente dalla precisazione del detentore della sovranità.
Per raggiungere la perfezione occorrerebbe trovare una formula capace di immettere la sostanza del secondo comma già nel primo comma del primo articolo del progetto.
Queste considerazioni hanno spinto il collega Tosato e me ad una duplice operazione: contrarre i primi due comma in un unico comma e avvicinare, rendendo omogeneo tutto l'articolo, la materia del primo a quella dell'attuale terzo comma.
Così è nato il nostro testo, accettato anche da altri colleghi di gruppi differenti dal nostro, testo, che dice: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
In questa formulazione l'espressione democratica vuole indicare i caratteri tradizionali, i fondamenti di libertà e di eguaglianza, senza dei quali non v'è democrazia. Ma in questa stessa espressione la dizione «fondata sul lavoro» vuol indicare il nuovo carattere che lo Stato italiano, quale noi lo abbiamo immaginato, dovrebbe assumere.
Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d'ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune. L'espressione «fondata sul lavoro» segna quindi l'impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione, come si può facilmente provare rifacendosi anche all'attuale formulazione della materia degli articoli 6 e 7 e più ancora degli articoli 30-44, cioè di quegli articoli che costituiscono il Titolo terzo della parte prima del nostro progetto.
Ottenuta quindi una sintetica definizione della Repubblica fondata sulla libertà e sulla giustizia, si apre la strada al concetto della sovranità, concetto svolto nel secondo comma: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». La sostanza del progetto è salva, si è sostituito alla forma «emana» la forma «appartiene», forma sufficiente ad indicare ad un tempo la fonte, il fondamento e il delegante della sovranità, cioè il popolo.
Nella seconda parte dell'emendamento al comma, si afferma che il popolo esercita la sovranità nella forma e nei limiti della Costituzione, sembrando superfluo aggiungere, come nel progetto, «e delle leggi», dal momento che il riferimento alla Costituzione lascia bene intendere in qual modo l'ulteriore manifestazione di sovranità potrebbe prodursi nel nostro ordinamento costituzionale.
Non sarebbe completa l'espressione dell'emendamento sostitutivo, ove non si avvertisse che la contrazione da noi operata del secondo comma dell'articolo primo del progetto nella semplice espressione «fondata sul lavoro», poteva lasciare scontenti quanti avevano votato - ed io sono tra quelli - nella Commissione dei Settantacinque anche la dizione del progetto circa la partecipazione dei lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale dello Stato.
Uno Stato si definisce nei suoi caratteri costitutivi e nella sua missione storica. La definizione della nostra Repubblica avviene nel primo comma dell'articolo primo, e se nello stesso articolo fosse compiuto un tentativo di definizione della missione storica della Repubblica, questa definizione in due o tre parole riuscirebbe monca e per ragioni di spazio e di collocazione forse si troverebbe fuori posto e perderebbe forza. Occorre quindi che la definizione della missione storica della nostra Repubblica abbia uno sviluppo adeguato e non si concluda sommariamente in poche parole dell'articolo primo. È per questo motivo che abbiamo pensato di far seguire a quell'articolo primo, così come è da noi suggerito, la materia contenuta negli articoli 6 e 7 del progetto, trasportandola, con opportuni emendamenti rafforzativi e sveltitori, negli articoli due e tre.
In questa maniera riteniamo di poter rafforzare l'indicazione della novità e della missione storica della nostra Repubblica, quale risulta evidentissimamente dal dettato attuale, e ci sembra, ancora più, da quello da noi proposto, degli articoli 6 e 7.
Non leggo questi testi, perché a suo tempo saranno letti e commentati. Basti per il momento averli ricordati, a chiarimento della mia asserzione che, nel complesso, il nuovo testo non indebolirà, ma rafforzerà, l'affermazione sociale e solidaristica dell'attuale articolo 1.
Coll'articolo da noi proposto conserviamo la novità della Repubblica fondata sul lavoro, evitando una dizione, come quella proposta dall'onorevole Basso, la quale, per precedenti storici, per formulazioni teoriche, che non si possono sopprimere, può apparire, a parte della popolazione italiana, classistica e, perciò, può allontanare qualche consenso, che certamente non è superfluo, alla nostra Repubblica, in mezzo alle popolazioni italiane.
E per questo, pur sapendo quale sacrificio possa costare ai nostri colleghi dei partiti, che si ispirano alle definizioni e precisazioni marxiste, possiamo ad essi domandare se, in questa alternativa o di ottenere una immediata precisazione dottrinaria del loro pensiero o rinunziare ad essa ed acquisire nuovi consensi alla forma di questa Repubblica democratica fondata sul lavoro, che noi vogliamo realizzare, non ritengano di rimandare, come essi dicono, ad altra epoca un'ulteriore precisazione in questa materia.
Per questo raccomandiamo l'approvazione del nostro emendamento, rinviando ulteriori precisazioni in sede di dichiarazioni di voto, allorché saranno presentati emendamenti concorrenti a questo.
(Applausi al centro).
[...]

Togliatti
Qui si tratta di scegliere tra due formule: «Repubblica democratica fondata sul lavoro» oppure: «Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro».
Queste due formule vengono presentate dopo che è stata respinta la formula da noi presentata, alla quale avevano aderito alcuni Gruppi e che diceva: «Repubblica democratica di lavoratori».
Di fronte all'alternativa che adesso si presenta, devo dichiarare, a nome del Gruppo al quale appartengo, che noi preferiamo la formula proposta dall'onorevole Fanfani: «Repubblica democratica fondata sul lavoro».
Il motivo mi sembra evidente: prima di tutto la formula del collega Fanfani è quella che più si avvicina a quella che noi avevamo presentato. Per questo semplice motivo, noi avremmo il dovere di votarla.
Per la sostanza, la formula «Repubblica fondata sul lavoro», si riferisce a un fatto di ordine sociale, e quindi è la più profonda; mentre la formula che viene presentata dall'onorevole La Malfa ed altri colleghi, trasferendo la questione sul campo strettamente giuridico e introducendo anche una terminologia poco chiara e poco popolare sui «diritti di libertà» e «di lavoro», ci sembra sia da respingere. Da ultimo, essa se mai non è appropriata a questa parte della Costituzione, ma appartiene alla seconda parte, alla parte successiva.
Per questi motivi, il nostro Gruppo voterà contro la formula dell'onorevole La Malfa e in favore della formula dell'onorevole Fanfani. (Commenti).
[...]

Presidente Terracini
Pongo in votazione il primo comma dell'emendamento Fanfani, Grassi, Moro e altri:
«L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
(È approvato).
[...]

Pongo ai voti la seconda proposizione del comma secondo, nel testo proposto dall'onorevole Fanfani:
«che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
(È approvata).
Si intendono così assorbiti il terzo comma dell'emendamento Condorelli, il quarto comma dell'emendamento Cortese e la seconda proposizione dell'emendamento Amendola, Laconi ed altri.
Pongo ai voti, nel suo complesso, il primo articolo della Costituzione della Repubblica italiana, nel seguente testo definitivo:
«L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
(È approvato).

(Tutta l'Assemblea e il pubblico delle tribune si levano in piedi - Vivissimi, prolungati, generali applausi - Grida di: Viva la Repubblica!).

venerdì 1 giugno 2012

Considerazioni libere (285): a proposito di terremoti, di domande e di feste...

Qualche riflessione sul terremoto e su come il nostro paese ha reagito a questa calamità.
Il primo elemento è la capacità di mobilitazione che ancora una volta hanno saputo mostrare gli italiani. Leggo che il sindaco di Mirandola ieri sera ha chiesto di sospendere l'invio al suo territorio di generi alimentari e di prodotti farmaceutici, perché i volontari del suo Comune non sono più in grado di gestire tutti gli aiuti arrivati, che finirebbero per essere inutilizzati; aveva fatto un appello solo poche ore prima, a cui è stato risposto in modo generoso e con queste conseguenze. Vedo nella rete che si moltiplicano i gruppi di acquisto per aiutare i caseifici che hanno subito danni e rischiano di perdere anni di lavoro. Leggo le disponibilità di strutture e singole famiglie a ospitare le persone che non hanno più una casa. Questa capacità di mobiltarsi e questa voglia di solidarietà - tanto più meritoria in un periodo di dura crisi come quello che stiamo vivendo - ormai non dovrebbero più sorprenderci, perché sono ricorrenti nella storia italiana, eppure credo sia giusto sottolinearli perché noi italiani siamo bravi a rappresentare i nostri difetti, basti pensare ai grandi film della commedia all'italiana. Molte volte lo meritiamo ed è giusto fare le critiche, ma è altrettanto giusto notare i meriti, almeno le poche volte che ci sono.
Il secondo elemento è la mobilitazione che è partita dalla rete per chiedere di sospendere la parata militare e i festeggiamenti del 2 giugno. Su questo tema voglio soffermarmi un po'. Sinceramente, fin dalle prime ore in cui è cominciata a crescere questa campagna attraverso il web, questo tema sull'opportunità o meno di svolgere la parata non mi è sembrata la questione più importante di cui parlare dopo questo terremoto. L'indignazione che molti hanno speso, con toni più o meno accorati, con accenti più o meno polemici, sarebbe stata più utilmente indirizzata contro coloro che sono i veri responsabili delle troppe morti causate da questo terremoto. L'ho scritto a caldo su Twitter: un terremoto - o addirittura due terremoti nello stesso posto, come è avvenuto in questi giorni - sono una fatalità, ma le morti hanno dei responsabili che sarebbe giusto cercare e punire. Perché alcuni - e solo alcuni - capannoni industriali costruiti dieci anni fa si sono letteralmente sbriciolati a causa del sisma? Chi ha guadagnato grazie ai risparmi per quel lavoro mal fatto, le imprese di costruzione o gli imprenditori che hanno acquistato quei capannoni? C'è una responsabilità di qualche altro "soggetto", ad esempio le imprese mafiose sempre più presenti nel nostro territorio e che assicurano alle imprese servizi a costi molto bassi? Chi non ha controllato come venivano realizzate quelle strutture e magari chi ha chiuso uno o due occhi nel nome della crescita e della produttività di quel territorio? Chi ha permesso che in alcuni di quei capannoni dopo il primo terremoto si tornasse a lavorare, senza aver fatto tutte le verifiche che sarebbero state necessarie? Quando giustamente denunciamo che da molti anni l'ideologia dominante e vincente è l'ultraliberismo più sfrenato, il capitalismo rapace, non dobbiamo pensare solo ai maghi della finanza che da Wall street maneggiano in pochi secondi milioni di dollari e di euro, ma anche a quei piccoli imprenditori e a quei politici che, magari convinti di fare il bene delle loro imprese e dei loro concittadini, misurano la crescita di un territorio solo attraverso i dati del pil. Poi con la stessa foga avremmo dovuto indignarci contro tutti quelli che non hanno tutelato il nostro patrimonio culturale diffuso. In tanti ci siamo arrabbiati per la scellerata decisione del prefetto di Roma e della "ducetta" Polverini di aprire una discarica a meno di un chilometro da Villa Adriana, ma è facile indignarsi e dimettersi - o più prudentemente minacciare di dimettersi - per un capolavoro del genere, unico al mondo, molto più difficile farlo per il castello di Finale o per la chiesa di Buonacompra, simili a tanti altri castelli o a tante altre chiese che si trovano in Italia, da nord a sud, nelle città e nelle campagne. Io credo - e spero che questa tesi non suoni troppo paradossale - che per il nostro paese siano più importanti queste chiese, questi palazzi, questi piccoli capolavori che le quattro o cinque eccellenze per cui siamo conosciuti in tutto il mondo; la nostra ricchezza, la nostra storia, la nostra memoria, sta in questa presenza diffusa. Allora proviamo a indignarci per i lavori di restauro non fatti, per le incurie sistematiche, per l'incapacità di utilizzare e valorizzare queste risorse. Anche qui l'ideologia dominante è quella mirabilmente sintetizzata da un ministro del precedente governo che disse che con la cultura non si mangia; Tremonti disse con la consueta superbia e senza ipocrisia quello che pensa - e ha pensato - la grandissima parte della classe dirigente italiana in questi sessant'anni di vita repubblicana. Come vedete i motivi per arrabbiarsi per quello che è successo a causa del terremoto, ma per colpa degli uomini, sono molti e pongono domande a cui sarebbe necessario cominciare a dare delle risposte, se volessimo essere un paese degno di questo nome.
Al di là di quello che penso io, in questi giorni l'attenzione si è tutta spostata sulla parata e, a questo punto, è necessario parlarne. Anche su questo ho già detto: credo che il presidente Napolitano abbia commesso un errore grave a non ascoltare una voce diffusa nel paese. Io ho avuto stima per Napolitano, per la sua storia politica, per la sua cultura, per la capacità con cui è intervenuto, da presidente, su alcune questioni centrali nella nostra storia, ad esempio la strage di piazza Fontana e gli anni della strategia della tensione. La mia stima è rimasta anche quando ho dissentito profondamente dalle sue scelte politiche; Napolitano ha fatto in questi ultimi mesi politica attiva, promuovendo una nuova maggioranza di larghe intese e scegliendo un governo che ne interpretasse lo spirito. Ha preso decisioni che non ho condiviso e non condivido assolutamente - come ho scritto più volte - ma è rimasto il "mio" presidente. Questa volta però non riesco a seguirlo, non c'è più neppure la stima. La questione non c'entra nulla con il tema delle spese e dei possibili risparmi: perfino se fosse costato di più annullare tutto, sarebbe stata la scelta migliore. La soluzione per salvaguardare il senso dello stato e il sapersi riconoscere negli uomini e nei simboli della nazione unita, come ci chiede Napolitano in questo 2 giugno, sarebbe stata quella di organizzare una piccola - o sobria, come ormai si dice adesso - manifestazione a Ferrara o a Modena oppure a L'Aquila, se proprio si temeva di intralciare il lavoro dei soccorritori, andando nella zona dell'epicentro. Napolitano forse ricorderà che il Pci nell'agosto del 1980 decise di spostare la Festa nazionale dell'Unità già in cantiere in un'altra città proprio a Bologna, perché c'era stata la strage della stazione; fu una festa sobria, un eufemismo per dire che fu una festa triste in una città profondamente ferita, ma fu un segnale importante di vicinanza. E' doveroso avere rispetto per lo stato e per le istituzioni, lo pretende la Costituzione e ce ne hanno dato l'esempio le generazioni che ci hanno preceduto, ma il rispetto bisogna anche conquistarselo e meritarselo. Le istituzioni di questo paese non ci sono più abituate e questa scelta di Napolitano ne è l'ennesima conferma. Non potete chiederci di avere rispetto per lo stato se è lo stato che non rispetta noi, come è evidente non solo da questa sciocchezza della parata - su cui avremmo perfino potuto passare sopra - ma soprattutto dal fatto che L'Aquila e tanti paesi abruzzesi si trovano dopo tre anni nelle stesse condizioni in cui si sono risvegliati dopo quella tragica notte o dalle mancate risposte alle domande che ho posto prima. Saremmo contenti, anche noi disfattisti, antipatrioti, militanti anti-sistema, mezzi anarchici - come ci hanno definito in questi giorni i "bravi cittadini" che vogliono la parata (compreso il Pd ovviamente, che ha perso un'altra, l'ennesima occasione) - di poter festeggiare questa disastrata repubblica. E la festeggeremo, a modo nostro: non la lasceremo festeggiare solo a voi, con i vostri discorsi e con la vostra sobria parata.