lunedì 30 gennaio 2012

Mohandas Karamchand Gandhi parla alla folla il 20 marzo 1930

Discorso di Gandhi all’inizio della marcia del sale, l’atto di estrarre acqua dal mare e trasformarla in sale, come forma di protesta contro la tassa sul sale imposta dall’amministrazione inglese in India.

Con tutta probabilità questo è l’ultimo discorso che vi rivolgo. E anche se il governo domattina mi permetterà di iniziare la marcia, questo sarà l’ultimo discorso che pronuncerò sulle sacre rive del Sabarmati. Forse queste saranno le ultime parole che pronuncerò in questa vita. 
Quello che avevo da dirvi ve l’ho detto già ieri. Oggi mi limiterò ad esporvi quello che dovrete fare dopo che i miei compagni ed io saremo arrestati.
Il programma della marcia fino a Jalapur deve essere portato a termine come stabilito. Il reclutamento dei volontari per la marcia deve essere limitato al territorio del Gujarat. Da quanto ho visto e sentito nelle due ultime settimane, sono propenso a credere che il numero dei seguaci della resistenza civile continuerà ad aumentare ininterrottamente.
Ma è necessario che non si manifesti neppure una parvenza di violenza anche dopo che noi saremo arrestati. Noi abbiamo fermamente deciso di far ricorso a tutte le nostre risorse per portare avanti una lotta esclusivamente non-violenta.
Nessuno deve consentire che l’ira lo faccia deviare da questa via. Questa è la mia speranza e la mia preghiera. Vorrei che queste mie parole raggiungessero ogni angolo del paese.
Se io e i miei compagni periremo nella lotta, avremo portato a termine il nostro compito. Toccherà allora alla Commissione di Lavoro del Congresso indicarvi la via da seguire, e starà a voi seguire la sua guida.
Questo è il vero significato della risoluzione della Commissione di Lavoro. Le redini del movimento rimarranno nelle mani di coloro tra i miei seguaci che hanno una fede incondizionata nella non-violenza. Naturalmente il Congresso sarà libero di scegliere la linea di condotta che più gli sembrerà opportuna. Finché non avrò raggiunto Jalapur, non dovrà essere fatto nulla che contravvenga all’autorità concessami dal Congresso.
Ma se sarò arrestato, il Congresso riacquisterà la somma autorità. Nessuno di coloro che professano il credo della non-violenza dovrà rimanere inattivo. Il mio accordo con il Congresso verrà meno non appena sarò arrestato. In una tale eventualità l’opera di reclutamento di volontari dovrà continuare senza alcuna interruzione.
La disobbedienza civile alle leggi sul sale dovrà essere iniziata dovunque ve ne sarà la possibilità. Tali leggi possono essere violate in tre modi. E’ una violazione delle leggi produrre sale dove vi è la possibilità di farlo. E’ una violazione delle leggi anche il possesso o la vendita di sale di contrabbando (che comprende anche il sale naturale e minerale). Incorrono nei rigori della legge anche i compratori di questo sale.
Asportare i depositi di sale naturale che si trovano sulle rive del mare costituisce un’altra violazione delle leggi, come pure la vendita del sale così ottenuto. In breve, per violare il monopolio sul sale, si può scegliere uno qualsiasi di questi modi.
Non dobbiamo tuttavia accontentarci soltanto di questo. Dovunque esistano dei Comitati del Congresso, dovunque non vi sia un esplicito divieto del Congresso, e dovunque gli abitanti del luogo abbiano sufficiente fiducia in se stessi, possono essere prese altre iniziative ritenute opportune. Pongo soltanto una condizione, e cioè che il nostro impegno ad attenerci alla verità e alla non-violenza come gli unici mezzi per il raggiungimento dello Swaraj venga rigorosamente rispettato.
Per il resto, ognuno ha piena libertà. Questo tuttavia non deve significare che ognuno è libero di prendere qualsiasi iniziativa sotto la propria responsabilità individuale. Dovunque vi siano dei dirigenti locali, i singoli individui devono attenersi ai loro ordini. Dove non vi sono dirigenti e soltanto poche persone hanno fede nel programma, queste faranno quello che possono, se hanno sufficiente fiducia in se stesse. Esse hanno il diritto, anzi il dovere, di agire in tal modo.
La storia del mondo è piena di esempi di uomini che si sono elevati al ruolo di capi grazie unicamente alla loro fiducia in se stessi, al loro coraggio e alla loro tenacia.
Anche noi, se aspiriamo veramente allo Swaraj e siamo impazienti di raggiungerlo, dobbiamo avere una simile fiducia in noi stessi. Le nostre file si ingrosseranno e i nostri cuori acquisteranno maggior forza nella stessa misura in cui aumenterà il numero dei nostri compagni fatti arrestare dal governo.
Che nessuno pensi che una volta arrestato me non vi sarà più nessuno a guidarvi. La vostra guida non sono io, ma il Pandit Jawaharlal. Egli possiede tutte le doti di una guida.
In realtà, tuttavia, coloro che hanno appreso la lezione del coraggio e dell’autocontrollo non hanno bisogno di nessuna guida. E se non possediamo queste virtù, neanche Jawaharlal sarà capace di farle nascere in noi.
Oltre alle cose dette possono esserne fatte molte altre. Si possono picchettare gli spacci di liquori e i negozi di tessuti stranieri. Se si possiede la forza necessaria, ci si può rifiutare di pagare le tasse. Gli avvocati possono sospendere di esercitare la loro professione. La gente può boicottare i tribunali astenendosi dal chiamare chiunque in giudizio per delle controversie private.
I dipendenti dello stato possono dimettersi dai loro posti. In mezzo alla disperazione che regna intorno a loro, alcune persone tremano al pensiero di perdere il loro impiego. Queste persone non sono pronte per lo Swaraj. Ma qual è la causa di questa disperazione? Nel paese il numero dei dipendenti dello stato non supera le poche centinaia di migliaia. Che ne è di quelli che non possono essere assunti? Cosa devono fare? Anche la libera India non sarà in grado di dar lavoro ad un gran numero di dipendenti dello stato. Un funzionario distrettuale nell’India indipendente non avrà a disposizione il numero di subordinati di cui oggi dispone. Dovrà fare da solo.
Come può un paese povero come l’India permettersi di fornire ad un funzionario distrettuale tanti impiegati diversi per ogni singolo compito, come l’ordinamento delle pratiche, i lavori di pulizia o lo sbrigo della corrispondenza? I milioni di indiani che soffrono la fame non possono assolutamente permettersi queste enormi spese. Dunque, se possedessero abbastanza sensibilità, i dipendenti dello stato abbandonerebbero i loro impieghi, fossero essi giudici o semplici uscieri.
Forse per un giudice può essere difficile abbandonare il suo posto, ma che difficoltà può esistere per un usciere? Questo può guadagnarsi dovunque di che vivere con un onesto lavoro manuale.
Questa è la soluzione più facile del problema della libertà: è necessario che tutti coloro che in un modo o nell’altro collaborano con il governo, pagando le tasse, detenendo delle cariche, mandando i loro figli alle scuole statali eccetera, rifiutino la loro collaborazione al governo completamente o quanto più è loro possibile. Si possono ideare anche altri metodi per non collaborare con il governo. Inoltre, vi sono delle donne che sono in grado di partecipare spalla a spalla con gli uomini a questa lotta.
Queste sono le mie volontà. E’ l’unico messaggio che desideravo lasciarvi prima di iniziare la marcia o di essere imprigionato.
Mi auguro che non vi sia alcuna interruzione e alcun abbandono della guerra che comincerà domani mattina, o anche prima, se sarò arrestato prima di allora. Attenderò con ansia la notizia che per ognuno dei miei compagni arrestati dieci nuovi volontari hanno preso il loro posto.
Io credo fermamente che in India vi siano uomini in grado di portare a termine l’opera che oggi io inizio. Ho fede nella giustezza della nostra causa e nella purezza dei nostri mezzi. E quando i mezzi sono puri, non può mancare la benedizione di Dio. E quando si uniscono questi tre elementi, la sconfitta è impossibile.
Un satyagrahi, sia esso libero o imprigionato, riesce sempre vittorioso. Egli viene vinto soltanto quando abbandona la verità e la non-violenza e cessa di dare ascolto alla voce interiore.
La causa della sconfitta di un satyagrahi, dunque, può risiedere soltanto nel satyagrahi stesso.
Dio benedica voi tutti e sgomberi la nostra via da ogni ostacolo nella lotta che inizierà domani. Sia questa la nostra preghiera.

domenica 29 gennaio 2012

Considerazioni libere (268): a proposito di speculazioni e speculatori...

Immagino abbiate visto anche voi lo spot che queste settimane pubblicizza l'aumento di capitale Unicredit: una ragazza si accorge che il tricolore non sventola come dovrebbe perché un lembo della bandiera è rimasto impigliato all'asta; non indugia, si toglie il berretto, si arrampica sul pennone e, tra la curiosità prima e poi l'approvazione dei passanti – rimasti comunque prudentemente giù – “libera” il tricolore. Il messaggio è chiaro: sottoscrivere l'aumento di capitale della più grande banca italiana è un gesto patriottico, moderna versione dell'antico – e assai più drammatico – “oro alla patria”. Non entro nel merito della decisione degli amministratori della banca di effettuare questa operazione, dettata dalla grave situazione finanziaria in cui si trova l'istituto di credito; faccio soltanto notare che questo aumento di capitale è accompagnato da una drastica riduzione del personale. Saranno infatti 5.200 le persone che perderanno il lavoro dalla fine del 2011 al 2015; evidentemente per le banche e le grandi aziende non vale quello che succede nel calcio, dove se la squadra va male si cambia l'allenatore per non cambiare i giocatori: qui si “cambiano” i lavoratori per non cambiare i vertici.
Ho fatto questa premessa perché Unicredit è una delle banche private che, attraverso le loro operazioni finanziarie, hanno contribuito a far aumentare la fame nel mondo, facendo crescere i prezzi delle commodities alimentari. I lettori più pazienti ricorderanno che ho già parlato di questo tema in una mia “considerazione” di qualche settimana fa – la nr. 264 che vi prego di rileggere – in cui ho descritto alcuni aspetti legati alle speculazioni finanziarie sui prodotti alimentari e all'acquisto di migliaia e migliaia di ettari di terra nei paesi del sud del mondo, quel fenomeno che viene chiamato land grabbing. Torno sul tema perché in questi giorni è stato pubblicato un rapporto intitolato Farming Money. How European banks and private finance profit from food speculation and land grabs, redatto da Friends of the Earth Europe, alla cui realizzazione ha partecipato anche l’italiana Campagna per la riforma della Banca mondiale.
Questo rapporto è importante perché fa nomi e cognomi delle banche e delle società europee impegnate in questi affari. Troppo spesso quando parliamo dei mercati o della crisi internazionale facciamo riferimento in maniera generica a fantomatici “speculatori”, come fossero entità invisibili e segrete, una sorta di Spectre con sede in qualche paradiso fiscale tropicale. Invece sappiamo benissimo chi sono questi “speculatori”: sono le “nostre” banche, quelle in cui abbiamo i conti correnti e che ci concedono i mutui, le compagnie di assicurazioni, i grandi gruppi finanziari. Per l'Italia il rapporto fa riferimento alle attività, oltre che di Unicredit, di Intesa-San Paolo e delle Generali, ossia il gotha della finanza italiana. Naturalmente non manca nessuno dei colossi europei del credito e delle assicurazioni: nel rapporto sono esaminate con scrupolo e dovizia di dati le attività di 29 grandi istituti di credito, tra cui Deutsche Bank, Barclays, Rbs, Allianz, Bnp Paribas, Axa, Hsbc, Credit Agricole; non manca proprio nessuno.
La speculazione finanziaria è la principale causa dell’innalzamento dei prezzi delle commodities alimentari negli ultimi anni: l'indice Fao sui prezzi del cibo è arrivato nel 2011 al massimo di 238, oltre 30 punti in più rispetto al massimo precedente, riscontrato nel 2008. Questi soggetti controllano ormai il 60% del mercato dei cereali, a fronte del 12% di 15 anni fa. Miliardi di euro e di dollari vengono investiti nei mercati delle materie prime, causando improvvise e ingiustificate impennate dei prezzi dei prodotti alimentari, con una ricaduta immediata sui prezzi al consumo; queste oscillazioni dei prezzi rendono sempre più difficile la vita dei coltivatori che non possono più calcolare con un qualche margine di certezza i prezzi dei loro prodotti. Il paradosso, in questi tempi in cui il mondo è dominato dall'ideologia ultraliberista, è che i prezzi delle materie prime non sono più regolati dalla legge della domanda e dell'offerta, che dovrebbe essere la regola aurea del mercato, ma dalle scelte di chi controlla i grandi fondi di investimento. Loro guadagnano con le speculazioni sui fondi, noi consumatori finali e soprattutto i coltivatori siamo quelli che ci rimettono, per non parlare delle conseguenze sull'ambiente e sull'ecosistema, che paghiamo tutti e che pagheranno ancora più caro le prossime generazioni. Il rapporto spiega che queste istituzioni, oltre a essere protagoniste delle speculazioni finanziarie, sono anche direttamente impegnate nell'acquisto di terre. Alcune di questi istituti hanno finanziato direttamente imprese agro-alimentari che hanno acquistato terre con aperte violazioni dei diritti umani delle persone che abitavano e coltivavano quei territori, ad esempio il fondo pensione tedesco Abp in Mozambico, Axa in India e Hsbc in Uganda. Anche Generali ha acquistato grandi quantità di terreni in Romania.
Il rapporto spiega che Unicredit, attraverso Pioneer Investments, colloca sul mercato un fondo hedge specializzato in commodities (Pioneer Funds – Commodities Alpha) con un patrimonio di oltre 600 milioni di euro. Il fondo investe per oltre il 50% in commodities agricole (per il 26,3% in granaglie, per il 17,9% in soft commodities agricole, per il 6,2% in bestiame e per il 3,5% in oli vegetali). Forse qualcuno lo dovrebbe spiegare alla ragazza che fa tanta fatica per raggiungere la cima del pennone.

"Il Campionato del Mondo del '42" di Osvaldo Soriano

Il mondiale del 1942 non figura in nessun libro di storia. Si giocò nella Patagonia argentina senza sponsor né giornalisti, e nella finale accaddero cose strane, come il fatto che si giocò un giorno e una notte senza riposo, che le porte e il pallone sparirono e che il temerario figlio di Butch Cassidy tolse all'Italia tutti i suoi titoli.
Mio zio Casimiro, che non aveva mai visto da vicino un pallone da calcio, nella finale fece il guardalinee e alcuni anni dopo scrisse delle memorie fantastiche, piene di errori storici e di follie ormai irrimediabili in mancanza di testimoni più credibili.
La guerra in Europa aveva interrotto i mondiali. Gli ultimi due, nel 1934 e nel 1938, li aveva vinti l'Italia e gli operai piemontesi ed emiliani che costruivano la diga di Barda del Medio in Argentina e le strade di Villarica in Cile, si sentivano campioni per sempre. Tra gli operai che lavoravano c'erano anche mapuches noti per le loro arti illusionistiche e per le loro magie, e soprattutto europei scappati dalla guerra. Spagnoli che monopolizzavano i negozi di alimentari, altri italiani di Genova, della Calabria e della Sicilia, e polacchi, francesi, qualche inglese che prolungava le strade ferrate di Sua Maestà, pochi guaranìes del Paraguay, argentini che avanzavano verso la lontana Terra del Fuoco. Tutti si trovavano lì perché il telegrafo non c'era ancora arrivato e si sentivano al sicuro dal mondo tremendo in cui erano nati.
Verso aprile, quando il caldo diminuì e il vento del deserto si placò, arrivarono gli elettrotecnici del Terzo Reich che installavano la prima linea telefonica dal Pacifico all’Atlantico. Portavano con loro un'estremità del cavo che inaugurava l'era delle comunicazioni e il primo pallone con valvola automatica, che dicevano di aver inventato ad Amburgo. Dopo averlo mostrato nel recinto del cantiere per suscitare l'ammirazione di tutti, lanciarono una sfida, nel caso ci fosse qualcuno disposto a giocare contro di loro una partita internazionale. Un ingegnere, che si chiamava Celedonio Sosa e veniva da Balvanera, accettò la sfida a nome della nazione argentina e mise insieme una squadra di vagabondi e ubriaconi che tornavano delusi dalle depressioni della cordillera delle Ande, dov'erano andati a cercare l'oro.
Il suo coraggio si rivelò catastrofico per gli argentini, che persero 6 a 1 con un pessimo arbitraggio di William Brett Cassidy, che diceva di essere figlio naturale del cowboy Butch Cassidy, il quale prima di finire crivellato di spari in Bolivia era vissuto molti anni nelle fattorie della Patagonia insieme a Sundance Kid e a Edna, amante di tutt'e due.
Quando si accorsero della diversità di paesi e razze rappresentati in quell'angolo della Terra, i tedeschi lanciarono l'idea di un campionato mondiale che avrebbe dovuto immortalare con la prima telefonata il loro passaggio portatore di civiltà in quei confini del pianeta. Il primo problema per gli organizzatori fu che gli italiani antifascisti si rifiutavano di mettere in palio la loro condizione di campioni perché ciò avrebbe comportato il riconoscimento dei titoli vinti dai professionisti del regime di Mussolini.
Alcuni irresponsabili, conquistati dalla curiosità di giocare con un pallone perfettamente rotondo e senza i lacci, si lasciavano schiacciare dai tedeschi al calar del sole mentre la linea telefonica avanzava nella cordillera verso il cantiere della diga: una squadra di negozianti spagnoli e di intellettuali francesi fu travolta 7 a 0 e una di preti polacchi e di sbandati guaranìes perdette 5 a 0 in un campo improvvisato sulla sponda del fiume Limay.
Nessuno ricordava bene le regole del gioco, né quanto tempo si dovesse giocare, né le dimensioni del terreno, cosicché le sole cose proibite erano toccare il pallone con le mani e colpire alla testa i giocatori caduti. Chiunque avesse avuto abbastanza discernimento per giudicare queste due infrazioni, poteva essere l'arbitro, e così mio zio e il figlio di Butch Cassidy divennero famosi e rispettabili finché arrivò il telefono.
Ci fu un momento in cui la posizione di principio degli italiani si fece insostenibile. Come potevano continuare a proclamarsi campioni di una Coppa che non riconoscevano, mentre i tedeschi infliggevano una goleada a tutti quelli che si trovavano di fronte? Potevano continuare a sopportare gli sfottò e le battute degli ospiti che li accusavano di non giocare per paura dell'umiliazione?
A maggio, all'inizio delle prime pioggerelle, il caposquadra calabrese Giorgio Casciolo si accorse che con la sabbia bagnata il pallone cominciava a rimbalzare in tutte le direzioni e che gli inviati del Fùhrer, i quali ormai provavano in segreto il telefono ed esageravano con la birra, non riuscivano più a controllarlo alla perfezione. In un'altra partita contro i guaranìes, dopo due ore di gioco senza interruzione, il risultato fu solo di 5 a 2. In un'altra, gli inglesi che mettevano giù i binari della ferrovia, perdevano per 5 a 4 quando i tedeschi, scesa la sera, sostennero che bisognava metter via il pallone per evitare che si perdesse tra le erbacce. Al fine mese i pescatori del Limay, quasi tutti cileni, perdettero 4 a 2 perché William Brett Cassidy aveva concesso due rigori a favore dei tedeschi per dei falli di mano commessi molto lontano dalla porta.
In una notte di baldoria nel postribolo di Zapala, mentre un ingegnere di Baden Baden cercava di sintonizzarsi con una radio sulle notizie dal fronte russo, un anarchico genovese che si chiamava Mancini e a cui avevano rubato i pantaloni cominciò a inneggiare al proletariato di Barda del Medio e a urlare che né i tedeschi né i russi erano invincibili. Lì non c'erano russi che potessero sentirsi chiamati in causa, ma l'ingegnere tedesco sobbalzò, tese il braccio e accettò la sfida. Il caposquadra Casciolo, in una stanza vicina, sentì la discussione e temette che la Coppa del 1938 cominciasse ad allontanarsi per sempre dall'Italia.
All'alba, mentre rientravano a Barda del Medio su una Ford, gli italiani decisero di giocarsi il titolo e di difenderlo con tutto l'onore che fosse possibile a quell'epoca e in quel posto. Solo cinque o sei di loro avevano giocato qualche volta a pallone, ma uno, l'anarchico Mancini, aveva passato l'infanzia in un collegio di preti dove gli avevano insegnato a correre con una palla legata ai piedi.
Il giorno dopo la notizia girò per tutte le impalcature della gigantesca opera: i campioni del mondo accettavano di mettere in palio la Coppa. I mapuches non sapevano di che cosa si trattasse, ma credevano che la Coppa possedesse i segreti dei bianchi che li avevano decimati nelle guerre di conquista. Agli inglesi non andava giù che i loro nemici tedeschi potessero conquistarsi la gloria di quel torneo fugace. Gli argentini aspettavano che il governo li portasse via da quell'inferno di caldo e di sabbia e intanto mettevano a punto un sistema difensivo per impedire un'altra goleada tedesca. I guaranìes avevano fatto la guerra per il petrolio con la Bolivia ed erano abituati al deserto, anche se non avevano più di tre o quattro uomini che conoscessero un pallone. Formarono delle squadre anche i preti e gli operai polacchi, gli intellettuali francesi e i negozianti spagnoli. I francesi non erano abbastanza per arrivare a undici e chiesero l'autorizzazione di aggiungere tre pescatori cileni.
I tedeschi insistettero perché tutto si svolgesse secondo le regole che credevano di ricordare: bisognava sorteggiare tre gruppi e si doveva giocare nei posti dov'era arrivato il telefono per chiamare Berlino e dare la notizia. William Brett Cassidy insistette perché gli arbitri fossero autorizzati a portare un revolver per far rispettare la loro autorità. Poiché molti giocatori entravano in campo ubriachi e a volte armati di coltello, l'idea venne approvata.
Furono liberati a colpi di machete tre spiazzi lunghi cento metri e le porte, siccome nessuno ricordava le misure, le fecero di dieci metri per due di altezza. Non c'erano reti per trattenere il pallone, ma Cassidy e mio zio Casimiro, che avrebbero arbitrato, si mostrarono pronti a misurare a colpo d'occhio se il pallone sarebbe passato dentro o fuori il rettangolo.
Il sorteggio delle sedi e delle partite fu fatto con il sistema della pagliuzza più corta. L'inaugurazione, a Barda del Medio, toccò all'Italia campione e all'agguerrita squadra dei guaranìes del Paraguay. Sull'altra sponda del fiume, a Villa Centenario, giocarono tedeschi, francesi e argentini, e sulla strada di terra, vicino al postribolo, si affrontarono spagnoli, inglesi e gli indios mapuches.
In tutte le partite ci furono incidenti all'arma bianca e i lavori della diga dovettero essere sospesi a causa dei gravi rigurgiti di nazionalismo provocati dal campionato. Nell'inaugurazione, l'Italia vinse 4 a 1 sui guaranìes. Negli altri campi risultarono vincitori i tedeschi sui francesi, mentre i mapuches tolsero di mezzo inglesi e spagnoli con cinque o sei gol di distacco.
I primi due feriti furono guaranìes che non accettarono le decisioni di Cassidy. L'arbitro dovette distribuire colpi di calcio di pistola per far eseguire un rigore a favore dell'Italia. Sull'altra sponda del fiume mio zio Casimiro, nella seconda partita del girone, dovette sparare contro un attaccante mapuche che si era infilato il pallone sotto la camicia e aveva cominciato a correre come un pazzo verso la porta inglese. I mapuches ebbero due o tre infortunati, ma vinsero il girone perché gli inglesi si ostinarono in un fair play degno dei campi di Cambridge.
La bandiera del Terzo Reich sventolò più alta delle altre per tutto il campionato sui cantieri della diga, ma durante la notte qualcuno le sparava fucilate. William Brett Cassidy permise che i tedeschi eliminassero l'Argentina grazie all'espulsione dei suoi due migliori difensori. È vero che il portiere, uno di Còrdoba, si difendeva a sassate quando i tedeschi si avvicinavano alla porta, ma quella era una tecnica adottata da tutti i difensori quando si sentivano in pericolo. Prima di ogni partita i tifosi accumulavano pile di calcinacci dietro a ciascuna porta e alla fine degli scontri, evacuati i feriti, si raccoglievano i sassi che restavano sul campo.
Le memorie scritte da mio zio risultano lacunose e forse confondono gli eventi. Raccontano che vi furono tre finalisti: Germania, Italia e i mapuches senza patria. Nella semifinale si verificarono alcune irregolarità che Cassidy non fu in grado di controllare. I tedeschi si presentarono con degli elmi per proteggersi la testa e alcuni avevano degli spilli pressoché invisibili da usare nelle mischie. Gli italiani bruciarono uno stemma fascista, intonarono Verdi ed entrarono in campo nascondendo manciate di peperoncino da tirare negli occhi degli avversari.
Cassidy volle dare risalto all'evento e tirò a sorte per scegliere il campo con un dollaro d'oro, ma appena la moneta cadde a terra qualcuno la rubò e così si verificò il primo scompiglio. Il capitano tedesco accusò un cuoco italiano che di sera leggeva Lenin chiuso in un gabinetto del cantiere di essere ladro e comunista. Il cuoco fu espulso dal campo per ribellione e letture contagiose. Prima di dare inizio alla partita, Cassidy tenne un discorso piuttosto duro sul pericolo di mescolare il calcio alla politica e poi si ritirò a osservare la partita su un monticello di sabbia, accanto al campo. Poiché non aveva il fischietto e le cose si annunciavano difficili, scendeva dalla collinetta con il revolver in pugno solo per dividere i giocatori che si prendevano a botte. Cassidy sparava in aria e sebbene alcuni spettatori nascosti tra l'erba gli rispondessero con salve di fucile, la testimonianza di mio zio assicura che affrontò le tre ore di gioco con un coraggio degno della memoria del padre.
Cassidy fece durare la partita così a lungo perché gli italiani resistevano con coraggio e con molta polvere di peperoncino all'attacco tedesco. Nei contropiede l'anarchico Mancini sgusciava come un'anguilla tra i difensori troppo avanzati. Ci furono momenti in cui l'Italia, che giocava con un uomo in meno, si trovò in vantaggio per 2 a 1 e per 3 a 2, ma al calar del sole qualcuno restituì a Cassidy il suo dollaro d'oro dentro a una tabacchiera in cui c'erano almeno altre venti monete. Allora il figlio di Butch Cassidy decise di scendere in campo e di mettere le cose a posto. Su un corner, Mancini saltò per prendere il pallone di testa, ma un difensore tedesco lo punse nel collo con una spilla e quando l'italiano andò a protestare Cassidy gli appoggiò il revolver contro la testa e lo espulse senza tanti complimenti. Poi, quando scoprì che gli italiani usavano peperoncino per tenere lontani gli attaccanti rivali, fermò il gioco e diede tre rigori a favore dei tedeschi.
Il caposquadra Casciolo, furibondo di fronte a tale parzialità, andò a mettersi tra il portiere e l'uomo che avrebbe tirato i rigori, ma Cassidy ricaricò il revolver e lo ferì a un piede. Un ingegnere prussiano s'infilò gli occhiali per tirare i rigori (Cassidy aveva contato solo nove passi di distanza) e segnò due gol. Subito dopo il figlio di Butch Cassidy decretò la fine dell'incontro e così l'Italia perdette la Coppa che aveva vinto nel 1934 e nel 1938.
I tedeschi andarono a festeggiare al postribolo e non immaginavano neppure da lontano che i mapuches scesi dalle Ande potessero batterli nella finale, come successe tre giorni dopo, in una domenica grigia che la storia non ricorda. Quel giorno il telefono cominciò a funzionare e alle tre del pomeriggio Berlino rispose alla prima chiamata dalla Patagonia. Da tutta la regione andarono al campo per vedere la partita e il telefono nero nuovo fiammante portato dai tedeschi. Un reggimento di stanza alla frontiera con il Cile mandò i soldati migliori per suonare gli inni nazionali e mantenere l'ordine, ma i mapuches non avevano un paese e tantomeno una musica scritta, perciò eseguirono una danza che invocava l'aiuto dei loro dèi.
Mio zio, che fece il guardalinee, annota nelle sue memorie che poco dopo l'inizio della partita sulle colline apparvero delle donne a seno nudo che ballavano e subito cominciò a piovere e a grandinare. Tra il temporale e la grandine Cassidy pensò di sospendere l'incontro, ma i tedeschi avevano già annunciato la vittoria per telefono e si rifiutarono di rinviare l'evento. Ben presto il campo si trasformò in un pantano e i giocatori si infangarono fino a diventare irriconoscibili. Poi, senza che nessuno se ne accorgesse, le porte scomparvero e sebbene si giocasse senza sosta fino all'ora di cena non si sapeva più dove infilare i gol.
A mezzanotte, mentre la pioggia s'intensificava, Cassidy fermò il gioco e si consultò con mio zio per decidere sul da farsi. I tedeschi dissero di aver visto delle donne che si portavano via i pali e subito l'arbitro assegnò sei rigori per punire i mapuches. Nessuno però riuscì a trovare le porte in cui tirarli. Una squadra dell'esercito andò a cercarle, ma non se ne seppe più niente. Il gioco dovette proseguire nel buio più totale perché Berlino esigeva il risultato, ma non c'era più nemmeno il pallone e con il far del giorno tutti correvano dietro a un’illusione che saltava di qua e di là, a seconda di come volevano gli uni o gli altri.
Mentre il sole si levava, il telefono suonò nel deserto e tutti quanti si fermarono ad ascoltare. L'ingegnere capo chiese a Cassidy di sospendere il gioco per qualche istante, ma fu inutile: i mapuches continuavano a correre, a saltare e a gettarsi in terra come se ancora ci fosse un pallone. I tedeschi, curiosi o preoccupati, sicuramente esausti, andarono a rispondere e sentirono la voce del loro Fùhrer che iniziava un discorso in qualche luogo della patria lontana. Allora più nessuno si mosse e il sussurrio disturbato del telefono corse per tutto il terreno in quel primo mondiale dell'era delle comunicazioni.
In quel momento di quiete una delle porte apparve all'improvviso sull'alto di una collina. Tutti potevano vederla, e le donne ripresero la loro danza senza musica. Una di loro, la più grassa e colorata a festa, andò incontro al pallone che cadeva da molto in alto, da chissà dove, e con un tocco lieve di testa lo lasciò adagiare davanti ai pali, affinché un ballerino scalzo che rideva a crepapelle lo mettesse in gol di destro. William Brett Cassidy annullò il tiro sparando, ma, nelle sue memorie allucinate, mio zio considera valido quel gol. Peccato che abbia dimenticato di riferire altri particolari e il nome di quell'allegro goleador dei mapuches.

sabato 28 gennaio 2012

"Apologo sull'onestà nel paese dei corrotti" di Italo Calvino

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza ( così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche ( e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

venerdì 27 gennaio 2012

"Vorrei andare sola" di Alena Synkovà


Alena Synkovà scrisse questa poesia quando era una bambina, nel campo di concentramento di Terezin; aveva 16 anni quando fu liberata; solo un centinaio di bambini sopravvissero al lager

Vorrei andare sola
dove c'è un'altra gente migliore
in qualche posto sconosciuto
dove nessuno più uccide.
Ma forse ci andremo in tanti
verso questo sogno,
in mille forse
e perché non subito?

giovedì 26 gennaio 2012

Considerazioni libere (267): a proposito di ricerche e censure...

Facciamo insieme un piccolo esperimento. Provate a cercare con Google un'immagine legata alla parola Tienanmen; le prime icone che compaiono sul vostro schermo sono la riproduzione di quella foto celebre che tutti abbiamo in mente: il ragazzo che fronteggia una colonna di carri armati nel giugno del 1989 sulla grande piazza della capitale cinese. Provate a fare la stessa ricerca con Baidu - è semplice, basta cliccare www.baidu.com e non farsi spaventare dai caratteri cinesi; è intuitivo capire dove è la sezione "immagini", visto che la home è organizzata in maniera molto simile a quella di Google - qui trovate una splendida miscellanea di foto della piazza e dei palazzi che la circondano, tante immagini di persone in vacanza e delle grandi manifestazioni promosse dal regime, ma nessuna riproduzione della foto dello studente che ebbe il coraggio di sfidare il potere del partito comunista. Questa prova la può fare ognuno di noi, anche se non conosce il cinese; chi invece conosce quella splendida e antica lingua può dirvi che attraverso Baidu è impossibile avere una qualche informazione di quello che è successo a Pechino più di vent'anni fa, un avvenimento che è entrato nella storia, oltre che nell'immaginario, del secolo scorso. Se fate la stessa ricerca su Baidu scrivendo Tienanmen con i caratteri cinesi, verrà fuori questa scritta: "In base alle leggi, ai regolamenti e alle politiche pertinenti, alcuni risultati di questa ricerca non sono mostrati"; naturalmente nulla sulle proteste degli studenti è ritenuto "pertinente" dalle autorità.
Google ha in tutto il mondo 425 milioni di utenti, ma Baidu ne ha già 400 e sono destinati a salire in maniera molto veloce - si prevede infatti che saranno almeno 750 milioni tra cinque anni. Google oltre ad essere il più importante motore di ricerca del mondo - anzi proprio per questo motivo - ha degli incassi che arrivano quasi a sette miliardi di dollari all'anno. Baidu, anch'essa quotata al Nasdaq, ha per ora incassi molto inferiori - circa mezzo miliardo di dollari all'anno - ma le previsioni sono rosee: a luglio dell'anno scorso la società ha annunciato un aumento del 95% dei profitti trimestrali, e questo ha fatto sì che nel 2011 le sue azioni siano cresciute del 65%, dopo essere più che raddoppiate nel 2010. Baidu non è un'azienda di stato - anzi è registrata alle isole Cayman - ma per lavorare e prosperare in Cina si è piegata all'ideologia del regime, divenendone un docile strumento.
Per tornare al nostro esempio, un giovane cinese che possiede un computer e ha l'accesso alla rete - e si trova quindi in una posizione di ipotetica parità con un suo coetaneo statunitense o europeo - non sa, a meno che la vicenda abbia coinvolto qualcuno della sua famiglia - ma in un paese di un miliardo e 300 milioni di abitanti la possibilità è piuttosto remota - cosa sia successo nel giugno del 1989 nel suo paese, non sa chi sia Liu Xiaobo né che abbia vinto il Nobel per la pace nel 2010 e così via. Quel giovane cinese sa tutto quello che gli è permesso di sapere dopo che la censura del regime ha deciso quello che è opportuno che egli sappia. Il governo cinese ha capito che la rete può essere molto pericolosa e infatti sono 50mila gli esperti di informatica che ogni giorno sorvegliano la rete. In realtà coloro che effettuano questa forma di controllo sono molti di più, perché ogni provider deve controllare quello che compare in rete prima ancora dell'intervento della polizia. E il controllo è tanto più meticoloso sugli scambi di messaggi all'interno del paese che sulle informazioni che vengono dall'estero: ogni regime teme e controlla i propri cittadini sempre più che i nemici all'esterno. Baidu non dà informazioni su quante siano le persone incaricate di svolgere questo controllo preventivo. Esiste però un sistema di selezione automatico che indirizza ogni messaggio in tre grandi gruppi: verde per i messaggi che non contengono nulla di "disarmonico", rosso per quelli che devono essere censurati, giallo per quelli in cui c'è un'ambiguità, che richiede l'intervento umano.
In questi mesi sono state condotte molte analisi sul ruolo che la rete e i social network hanno avuto nelle "primavere arabe" e nei movimenti di protesta, da Madrid a New York, da Santiago a Tel Aviv. Molti commentatori, spesso quelli che hanno meno dimestichezza con le nuove tecnologie, hanno esaltato il ruolo della rete, tanto da coniare espressioni come "le prime rivoluzioni informatiche". Personalmente penso che in molti casi questo ruolo sia stato enfatizzato; come ho scritto in una "considerazione" di circa un anno fa - la nr. 205 - "la voce della rivolta non è passata, o è passata solo in minima parte, sulla rete, la rivolta si è diffusa tra le persone, con il dialogo, il confronto, il passaparola". Allo stesso modo la forza delle persone riunite a Zuccotti park stava proprio nella parola, nel confronto diretto e continuo, nel guardarsi negli occhi, mentre le mani si alzavano per votare.
Si può essere ottimisti o pessimisti su quello che succederà in Cina, anche grazie alla rete. Sapete che io in genere tendo alla seconda opzione. Sulla voglia di libertà faccio volentieri un'eccezione, perché questo desiderio ha una forza incalcolabile che viene aumentata in maniera esponenziale dalla rete. E in questo caso il numero è un potente alleato della voglia di libertà: ogni giorno, ventiquattr'ore su ventiquattro, centinaia di migliaia di cinesi, più o meno giovani, sono davanti ai loro computer, chattano, si scambiano mail, fanno ricerche. In Cina ci sono 200 milioni di blogger che ogni giorno scrivono miliardi di parole. Controllare questa massa enorme di informazioni è impossibile anche per un regime potente come quello cinese e qualcosa è destinato fatalmente a sfuggire dalle maglie della censura. Così come qualche censore prima o poi comincerà a leggere quello che è proibito agli altri leggere e certe idee sono virus che quando cominciano a circolare sono inarrestabili. Nonostante questo ottimismo è però molto preoccupante pensare che forza di condizionamento ha questo strumento a cui noi diamo tanta importanza e a cui affidiamo le nostre riflessioni, i nostri pensieri, anche la nostra voglia di protesta, se non di ribellione, e - quando ci riusciamo - di proposta. Così come Baidu controlla quello che i cinesi possono o non possono sapere, cosa ci assicura che Google sia davvero così libero e democratico? Lo strumento ha caratteristiche analoghe e in linea teorica può essere usato allo stesso modo, se qualcuno decide che qualcosa non deve essere conosciuto basterebbe cancellarlo da Google per farlo finire nel dimenticatoio. Sinceramente non mi sento tanto più tranquillo di un cinese.

p.s. del 27 gennaio: cambiano alcune regole di Twitter; ecco un interessante articolo del Post.

martedì 24 gennaio 2012

"Caro compagno proletario" di Edoardo Sanguineti


per ricordare il compagno Guido Rossa, ucciso il 24 gennaio 1979 dalla Brigate rosse

caro compagno proletario,
lo so che il Quarto Stato si è perduto, strada
(facendo, quasi,
la sua coscienza di classe, da un po' di tempo in qua (anche se non per sempre,
(spero
bene) – e il Terzo Stato no, perché il borghese è il borghese, con mente
(fortemente
consapevole, ancora: e il capitalismo è il capitalismo: (è il sovrano – il supremo):
(e non ci sta una grande voglia di comunismo, così, adesso, in giro,
(per forza):
ma qui
- qui c'è da votare, per incominciare, contro le libertà di lorsignori: contro le
(nostre
servitù e catene:
c'è da risollevarle, tutti insieme, cadute in questo fango,
nuovamente, certe antiche bandiere: (e risvegliarci, intanto, al nostro sogno):

"Due cartoline dal mio paese" di Leonardo Sciascia


Il paese del sale, il mio paese
che frana - sale e nebbia -
dall'altipiano a una valle di crete;
così povero che basta un venditore
d'abiti smessi - ridono appesi alle corde
i colori delle vesti femminili -
a far festa, o la tenda bianca
del venditore di torrone.
Il sale sulla piaga, queste pietre
bianche che s'ammucchiano
lungo i binari - il viaggiatore
alza gli occhi dal giornale, chiede
il nome del paese - e poi in lunghi convogli e
scendono alle navi di Porto Empedocle;
il sale della terra - "e se il sale
diventa insipido
come gli si renderà il sapore?"
(E se diventa morte,
pianto di donne nere nelle strade,
fame negli occhi dei bambini?).

martedì 17 gennaio 2012

da "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters



George Gray
Molte volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita.
Poiché l'amore mi si offrì ed io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta
ed io ebbi paura;
l'ambizione mi chiamò,
ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è tortura
dell'inquietudine e del vano desidero;
è una barca che anela al mare eppure lo teme.

lunedì 16 gennaio 2012

"Martinica" di Rosa Luxemburg

articolo del 15 maggio 1902, apparso su "Leipziger Volkszeitung"; l’8 maggio del 1902, sull’isola della Martinica vi fu l’eruzione del vulcano Mont Pelée, che distrusse la città di St. Pierre, uccidendo quasi tutti gli abitanti

Montagne di rovine fumanti, cumuli di corpi straziati, un mare di fuoco sprigionante vapori e fumante tutt’intorno, fango e ceneri – questo è tutto ciò che rimane della piccola fiorente città appollaiata sul fianco roccioso del vulcano come una rondine che sbatte le ali. Per qualche tempo si era udito il gigante irato rimbombare e infuriare contro questa umana presunzione, la cieca sicumera dello gnomo a due gambe. 
Magnanimo anche nella sua collera, un vero gigante, egli aveva messo sull’avviso le creature sconsiderate che strisciavano ai suoi piedi.. Egli aveva sbuffato, eruttando le sue nuvole infuocate, nel suo petto s’agitava un magma ribollente, esplosioni come raffiche di fucile e rombi di cannone.
Ma i signori della terra, quelli che decidono del destino degli uomini, sono rimasti irremovibilmente fiduciosi – nella propria saggezza.
Il giorno 7 la commissione inviata dal governo annunciò alla allarmata popolazione di St. Pierre che tutto era in ordine, in cielo e sulla terra. Tutto è in ordine, non v’è motivo di allarme! così avevano detto anche alla vigilia del giuramento della Pallacorda inebriati dalle danze nelle sale di Luigi XVI, mentre nel cratere del vulcano rivoluzionario la lava infuocata si stava raccogliendo per la terrificante esplosione. Tutto è in ordine, pace e quiete dovunque! – l’avevano detto a Vienna e a Berlino alla vigilia dell’eruzione del marzo di 50 anni fa! Il vecchio titano della Martinica, da tempo sofferente, non prestò attenzione alcuna ai rapporti dell’onorevole commissione: dopo che la popolazione era stata rassicurata dal governatore il 7, nelle prime ore dell’8 esplose e seppellì in pochi minuti il governatore, la commissione, la gente, le case, le strade e le imbarcazioni sotto le infuocate esalazioni del suo cuore sdegnato.
L’opera è stata radicale. Quarantamila vite umane sono state falciate, un pugno di profughi tremanti è stato salvato – il vecchio gigante può brontolare e ansimare in pace, esso ha mostrato la sua potenza, ha vendicato in modo terribile lo sprezzo del suo primordiale potere.
E ora fra le rovine dell’annichilita città della Martinica un nuovo ospite arriva, sconosciuto, mai visto prima: l’essere umano. Non signori e servi, non neri e bianchi, non ricchi e poveri, non piantatori e schiavi salariati – l’essere umano è apparso sulla minuscola isola sconquassata, esseri umani che sentono solo il dolore e vedono solo il disastro, che vogliono solo aiutare e soccorrere. Il vecchio Mont Pelée ha operato il miracolo! Dimenticati i giorni di Fascioda, dimenticato il conflitto per Cuba, dimenticata la Revanche – i francesi e gli inglesi, lo zar e il Senato di Washington, Germania e Olanda donano denaro, mandano telegrammi, tendono una mano soccorrevole. Una fratellanza di popoli contro la natura carica d’odio, una resurrezione di umanità fra le rovine della civiltà umana. Caro è stato il prezzo per recuperare la propria umanità, ma il tuonante Monte Pelee ha una voce capace di farsi intendere.
La Francia ha pianto i 40 mila cadaveri sulla minuscola isola e il mondo intero è sollecito ad asciugare le lacrime della Madre Repubblica. Ma cosa avvenne quando, centinaia di anni fa, la Francia versò sangue a fiumi per le Piccole e le Grandi Antille? Nel mare al largo della costa orientale dell’Africa si stende un’isola vulcanica, il Madagascar: 50 anni fa vedemmo la sconsolata Repubblica, che oggi piange i suoi figli perduti, piegare l’indomito popolo indigeno sotto il suo giogo con le catene e la spada. Nessun vulcano lì aperse il suo cratere: le bocche dei cannoni francesi vomitarono morte e annientamento; il fuoco dell’artiglieria francese spazzò via migliaia di fiorenti vite umane dalla faccia della terra finché un popolo libero fu schiacciato al suolo, finché la bruna regina del “selvaggi” fu strappata via come un trofeo per la “Città dei Lumi."
Al largo delle coste dell’Asia, lambite dalle onde dell’oceano, giacciono le ridenti Filippine. Sei anni fa là vedemmo i benefattori Yankee, vedemmo il Senato di Washington al lavoro. Non montagne che sputano fuoco – qui i fucili americani spazzarono via vite umane a mucchi; il Senato del cartello dello zucchero che oggi invia in Martinica dollari d’oro, migliaia e migliaia, per recuperare vite dalle rovine, inviò cannoni su cannoni, navi da guerra su navi da guerra, milioni e milioni di dollari a Cuba per seminare morte e devastazione.
Ieri, oggi – ben lontano, nel sud dell’Africa, dove solo un paio d’anni fa un piccolo popolo tranquillo viveva del proprio lavoro e in pace, abbiamo visto come gli inglesi hanno portato devastazione, quegli stessi inglesi che alla Martinica restituiscono la madre ai figli e i figli ai genitori: li abbiamo visti calpestare corpi umani, con i brutali scarponi da soldati sui cadaveri dei bambini, sguazzare in laghi di sangue, morte e disperazione tutto intorno a loro.
Ah, e i Russi, il filantropico soccorritore, il lacrimante Zar di tutte le Russie – una vecchia conoscenza! Ti abbiamo visto sui bastioni di Praga,dove il caldo sangue polacco scorreva a fiumi e colorava di rosso il cielo coi suoi vapori. Ma quelli erano vecchi tempi. No, ora , solo qualche settimana fa, vi abbiamo visti, i caritatevoli russi sulle loro polverose strade, nei distrutti villaggi russi, fronteggiare la stracciata, selvaggiamente agitata, rumoreggiante moltitudine; e spari a raffica, e mugiki che cadevano rantolando sul terreno, il rosso sangue contadino si mescolava con la polvere delle strade. Essi dovevano morire, essi dovevano cadere perché i loro corpi erano piegati dalla fame, perché gridavano per avere pane, per il pane!
E abbiamo visto anche te, oh Madre Repubblica, tu che versi lacrime. Era il 23 marzo dell’anno 1871: uno splendido sole di primavera risplendeva su Parigi; stipati nelle strade, nei cortili delle prigioni, stavano migliaia di pallidi esseri umani in vesti da lavoro, corpo contro corpo e testa a testa; mitragliatrici ficcarono nelle feritoie delle mura le loro canne assetate di sangue. Non fu un vulcano ad eruttare, né una corrente di lava a riversarsi in basso. I tuoi cannoni, Madre Repubblica, vennero puntati sulla moltitudine assiepata, urla di dolore squarciarono l’aria – più di 20 mila corpi coprirono il pavé di Parigi!
E tutti voi – francesi e inglesi, russi e tedeschi, italiani e americani – vi abbiamo visti tutti insieme una buona volta in fraterno accordo, uniti in una grande lega delle nazioni, aiutarvi e cooperare l’un con l’altro: era in Cina. Anche là avete dimenticato ogni lite fra di voi, anche là avete stretto una pace dei popoli – per ammazzare e incendiare tutti insieme. Ah! Come caddero fila dopo fila gli uomini coi codini, sotto i colpi dei vostri proiettili, come un campo di spighe mature sferzate dalla grandine! Ah! come si gettarono nell’acqua le donne urlanti il proprio dolore, tra le fredde braccia della morte, per sfuggire alla tortura dei vostri ardenti abbracci!
E ora si sono tutti recati alla Martinica, di nuovo un sol cuore e una sola anima; essi aiutano, soccorrono, asciugano le lacrime e maledicono il vulcano che ha portato sciagura. Mont Pelée, bonario gigante, tu puoi ridere; puoi guardar giù con disgusto a questi benefattori assassini, a questi lacrimanti animali predatori, a queste belve in vesti di samaritano. Ma un giorno verrà che un altro vulcano alzerà la sua voce tuonante, un vulcano che si sta agitando e ribollendo, anche se non ve ne curate, e spazzerà via dalla faccia della terra tutta la cultura bacchettona imbrattata di sangue. E solo sulle sue rovine le nazioni si ritroveranno insieme in una umanità vera, che conoscerà un solo mortale nemico – la cieca, morta natura.

domenica 15 gennaio 2012

"Ecologia" di Carlo Fruttero

Non sottovalutarmi, zanzara,
se limacciosamente nell'impiglio
d'ironica ubiquità
che trama il tuo ronzìo m'hai veduto
annaspare e m'hai sentito dietro
il tuo volo
di marionetta
bruciare applausi tardivi.
Al mio sangue dolce di mutuato
giurassiche cellule ancora
fanno capo
e al mio braccio glabro conferiscono
invincibilità
le drogherie orgogliose
della specie sapiente:
quando cadrai
irreperibile salma
nel raggio vaporoso
di morte io
avrò lo stesso sorriso di colui
che, intorno felci,
impugnava il coltello di pietra.

sabato 14 gennaio 2012

da "Attraverso lo specchio" di Lewis Carroll

- Sai fare l'addizione? - chiese la Regina Bianca. - Quanto fa uno e uno e uno e uno e uno e uno e uno e uno e uno e uno?
- Non so, - disse Alice, - ho perduto il conto.
- Non sa fare l'addizione! - interruppe la Regina Rossa. - Sai fare la sottrazione? Togli nove da otto.
- Nove da otto, sapete, non si può, - rispose subito Alice, - ma...
- Non sa fare la sottrazione, - disse la Regina Bianca. - Sai fare la divisione? Dividi un pane con un coltello... Che hai?
- Io credo... - cominciò Alice.
Ma la Regina rispose per lei:
- Pane e burro, naturalmente. Prova a fare un'altra sottrazione. Togli un osso da un cane. Che rimane?
Alice, pensandovi un po', rispose:
- L'osso non rimarrebbe se io lo prendessi... e il cane non rimarrebbe; mi morderebbe... e certo non rimarrei neanche io.
- Allora credi che non rimarrebbe nulla? - disse la Regina Rossa.
- Credo che la risposta sia questa.
- Male, come al solito, - disse la Regina Rossa, - rimarrebbe la bile del cane.
- Ma io non vedo come...
- Ebbene, guarda, - gridò la Regina Rossa, - il cane avrebbe della bile, non è vero?
- Forse, - rispose cauta Alice.
- Allora, se il cane se n'andasse, la bile gli rimarrebbe! - esclamò la Regina con un accento trionfale.
Alice non potè fare a meno dal pensare: «Quante sciocchezze stiamo dicendo!»
- Essa non sa fare le quattro operazioni, - dissero insieme le due Regine con grande energia.
- E voi sapete le quattro operazioni? - disse Alice, volgendosi improvvisamente alla Regina Bianca, perchè non le piaceva di far così brutta figura.
La Regina chiuse gli occhi anelante:
- Posso fare l'addizione, - disse, - se mi dai tempo... ma non faccio sottrazioni in nessuna circostanza.
- Tu leggi l'abbicì, naturalmente, - disse la Regina Rossa.
- Sì, che lo leggo.
Anch'io, - mormorò la Regina Bianca. - Noi spesso lo diciamo insieme, cara. E ti dirò un segreto... so leggere le parole di una sola lettera. Che te ne pare? Però, non ti scoraggiare. Col tempo ci arriverai anche tu!
Qui cominciò di nuovo la Regina Rossa:
- Hai imparato le nozioni utili? - essa disse. - Come si fa il pane?
- Questo lo so! - disse subito Alice. - Si prende del fior di fa...
Dove cogli il fiore? - chiese la Regina Bianca. - In un giardino o nelle siepi?
- Ma non si coglie affatto. Si fa la pasta...
- Pasta reale o pasta sfoglia? - disse la Regina Bianca. - Quante cose dimentichi!
- Rinfrescale la testa col ventaglio, - interruppe ansiosamente la Regina Rossa. - Col pensare tanto, le verrà la febbre.
Così si misero a farle vento con mazzi di foglie, finchè essa dovè pregare che cessassero, chè le scompigliavano i capelli.
- Ora si sente bene, - disse la Regina Rossa. - Conosci le lingue? Come si dice in francese «Fiddle-de-di?»
- Fiddle-de-di, non è una parola inglese, - disse Alice con gravità.
- Chi mai ha detto che era inglese?
E Alice questa volta credè di vedere una via di scampo.
- Se mi direte di che lingua è «Fiddle-de-di» io vi dirò come si dice in francese! - ella esclamò trionfante.
Ma la Regina Rossa assunse un aspetto solenne, e disse:
- Le Regine non scendono mai a patti!
«Ma le Regine non dovrebbero mai fare domande», - disse fra sè Alice.
- Non ci far litigare, - disse la Regina Bianca con accento d'ansia. - Qual'è la causa del lampo?
- La causa del lampo, - disse risolutamente Alice, perchè era quasi certa di questo, - È il tuono... no, no! - si corresse in fretta... - volevo dire viceversa...
- È troppo tardi per correggersi, - disse la Regina Rossa...: - quando hai detto una cosa, e così, e ne devi subire le conseguenze.
- Questo mi rammenta... - disse la Regina Bianca, abbassando gli occhi e intrecciandosi e sciogliendosi irrequietamente le dita... abbiamo avuto una tale tempesta martedì scorso. Voglio dire un martedì della scorsa serie.
Alice si mostrò confusa.
- Nel nostro paese, - notò, - c'è solo un giorno alla volta.
La Regina Rossa soggiunse:
- È un modo veramente miserabile di far le cose. Qui invece, per la maggior parte, abbiamo giorni e notti a due e tre alla volta, e a volte nell'inverno ne abbiamo tanti come per cinque notti di fila... per il caldo.
- Cinque notti sono più calde di una notte, allora? - s'avventurò a chiedere Alice.
- Cinque volte più calde, naturalmente.
- Ma per la stessa ragione dovrebbero essere cinque volte più fredde...
- Appunto così, - gridò la Regina Rossa. Cinque volte più calde e cinque volte più fredde... appunto come io sono cinque volte più ricca di te e cinque volte più capace.
Alice sospirò, scoraggiata.
- È come un indovinello senza soluzione, essa pensava.

Storie (IV). "Il fucile di legno..."

Riccardo ha costruito il primo giocattolo di legno per Alberto, quando suo figlio stava per compiere sei anni. Gli era sembrato il modo migliorare per festeggiare il suo compleanno e insieme l'ingresso in prima elementare - il compleanno di Alberto cade proprio il 10 settembre, il giorno in cui quell'anno iniziava la scuola - un modo per stare ancora più vicino a suo figlio. Dopo l'incidente per Riccardo era impossibile correre o fare sport - camminava zoppicando in maniera evidente - e quindi non riusciva più a giocare a pallone o ad andare in bicicletta con Alberto come faceva prima e come avrebbe voluto continuare a fare; era una cosa che gli mancava molto. Pensò che costruirgli da solo, con le proprie mani, un giocattolo, e proprio il regalo per il suo compleanno e per di più in un'occasione così speciale, avrebbe in qualche modo compensato questa impossibilità di fare altre cose con lui. Pensò che sarebbe stato bello dedicare un po' del proprio tempo per realizzare qualcosa per lui, soltanto per lui.
Mettere in atto questo progetto si rivelò meno semplice del previsto. Riccardo era negato per i lavori manuali: assemblare due comodini acquistati all'Ikea si era rivelato un compito decisamente arduo, ne rideva spesso con sua moglie. Acquistò un paio di libri, due manuali di quelli che promettono di renderti un provetto artigiano non appena arrivati all'ultima pagina, ma non ne lesse neppure metà; non aveva la pazienza di leggere per intero le istruzioni quando acquistavano un elettrodomestico - un'altra cosa che Barbara sottolineava spesso, sorridendo - figurarsi un manuale. Provò a cercare delle informazioni in rete e alla fine andò in uno di quei grandi magazzini per il fai-da-te che ci sono intorno alla città e acquistò tutto quello che gli sembrava necessario. Avevano un vecchio garage, rimasto vuoto, lì stabilì il suo laboratorio segreto dove solo lui poteva entrare, sistemò il tavolo da lavoro, tutti gli attrezzi, una scorta di legno, si comprò anche un grembiule; il giorno in cui cominciò a tagliare il suo primo pezzo di legno il garage sembrava proprio il laboratorio di un falegname.
La cosa più difficile fu decidere cosa fare. L'idea di costruire un gioco di legno gli era venuta all'improvviso e di quella fu immediatamente convinto: il legno è un materiale caldo, profumato, antico, adatto per costruire un gioco. Fu molto più problematico decidere quale giocattolo fare: bisognava cominciare con qualcosa di semplice, di realizzabile in tempi certi, il compleanno non poteva certo essere rimandato. Tra le foto su Google aveva visto quella di un piccolo fucile di legno; ricordò che anche lui ne aveva avuto uno, con cui si divertiva a sparare un elastico, tenuto teso da una molletta da bucato. Lui e Barbara avevano deciso che non gli avrebbero comprato armi giocattolo, le consideravano giochi diseducativi e questo era il più grosso ostacolo al suo progetto. Non sapeva decidersi: da una parte la possibilità di riuscire a costruire qualcosa, dall'altra la rinuncia a un principio a cui entrambi tenevano molto. La prima opzione ebbe la meglio, pensò che in fondo lui da piccolo giocava spesso con i soldatini eppure era diventato pacifista convinto; anzi i suoi preferiti erano i soldati dell'Unione, le giubbe blu, eppure era cresciuto parteggiando per gli indiani. Poteva pur costruire per suo figlio un piccolo fucile di legno, poi gli avrebbe insegnato a leggere l'Iliade e lì Alberto avrebbe imparato cosa è la guerra e a tenere per i vinti.
La costruzione del fucile si rivelò, come previsto, complicata; di fatto ne fece due, perché il primo si rovinò nella delicata fase della limatura; non voleva che Alberto si facesse male con una scheggia e così finì per limare troppo. Comunque alla fine il piccolo fucile era pronto, con la sua molletta, con il suo elastico verde; faceva quel buon odore di legno che gli ricordava l'infanzia. Fu un piccolo successo.
Riccardo pensò immediatamente a cosa costruire per il successivo Natale e si mise a progettare una piccola fattoria. Nei mesi successivi la costruzione dei giocattoli continuò con sempre maggior intensità; ormai stava diventando sempre più bravo, riusciva a realizzare giocattoli sempre più elaborati, sempre più grandi, sempre più elaborati.

I colleghi appresero con tristezza che Riccardo era morto, per la rottura di un aneurisma; era andato in pensione da quasi quattro anni, ma non mancava settimana che non facesse un salto in ufficio, anche solo per un saluto e non mancava mai alle iniziative promosse dal circolo ricreativo. Certo a volte era più malinconico del solito, ma chiunque avesse perso la moglie e il figlio di cinque anni in un incidente così drammatico sarebbe impazzito. Quando i parenti andarono a sistemare le sue cose, trovarono nel suo garage decine e decine di giocattoli di legno.



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venerdì 13 gennaio 2012

"Noi siamo già l'oblio che saremo" di Jorge Luis Borges (forse)

Noi siamo già l'oblio che saremo.
La polvere essenziale che ci ignora,
e che fu il rosso Adamo, e che è adesso
tutti gli uomini, e che non vedremo.

Noi siamo già nella tomba tra le due date
del principio e della fine, la bara,
l'oscena corruzione e il sudario,
i riti della morte e i lamenti.

Non sono l'insensato che si afferra
al magico suono del suo nome;
penso con speranza a quell'uomo

che non saprà che fui sulla terra.
Sotto l'indifferente azzurro del cielo
questa meditazione è un sollievo.



il 25 agosto 1987 Héctor Abad Gomez, medico, intellettuale, attivista del movimento per i diritti civili, viene ucciso a Medellin dagli squadroni della morte; nella sua tasca il figlio trova un elenco di uomini che rischiano di essere uccisi - tra cui naturalmente c'è quello del medico "scomodo" - e questo sonetto firmato JLB; l'attribuzione a Borges è però molto controversa...

mercoledì 11 gennaio 2012

"Non di questo presente ora bisogna" di Giovanni Raboni


Non di questo presente ora bisogna
vivere - ma in esso sì: non c'è modo,
pare, d'averne un altro, non c'è chiodo
che scacci questo chiodo. Nè a chi sogna

va meglio, che le più volte si infogna
a figuararlo, e fa più groppi al nodo
se cerca di disfarlo (sta nel todo
che si crede nel nada, sempre) o agogna,

ma con che lama? troncarlo. La mente
infortunata non ha altra fortuna,
dunque, che nel pensiero? Certo a niente

più la mia si consola che se in una
deposizione o un offertorio gente
dispersa solennemente s'aduna.

sabato 7 gennaio 2012

"Sempre" di Mark Strand


Sempre così avanti nel giorno
con gli abiti sgualciti, seduti
a un tavolo illuminato da una lampadina,
i maestri dell’oblio lavoravano sodo.
Inclinarono il capo da un lato, chiudendo gli occhi.
Allora una casa scomparve, e un uomo in giardino
con tutta una fila di fiori.
I maestri dell’oblio aggrottarono la fronte.
Quindi la Florida svanì e San Francisco
dove rimorchiatori e chiatte lasciano
piccole cicatrici lucenti sulla baia.
Uno dei maestri dell’oblio accese un fiammifero.
Sparirono allora le cetre imperlate di luci
inarcate sopra i fiumi di New York.
Un altro si riempì il bicchiere
e fu la fine per le folle di sera
sotto l’accendersi di lampioni giallo zolfo.
E poi svanì la Bulgaria, e poi il Giappone.
“Avrà mai fine?” chiese uno di loro.
“Opera estremamente ardua, perseguire il fato
dell’universo scibile” affermò un altro.
“Fino all’ultima pietra”, disse un terzo
“e solo il gelido zero della perfezione
lasciato all’immaginazione”. E sparirono
allora il Nord e il Sud America,
e altrettanto sparì la luna.
Uno dei maestri dell’oblio tossì,
un altro sbadigliò, un altro guardò fuori dalla finestra:
niente erba, niente alberi…
La vampa della promessa ovunque.

venerdì 6 gennaio 2012

Considerazioni libere (266): a proposito di una previsione avverata...

Il fatto che le truppe degli Stati Uniti si siano sostanzialmente ritirate dall'Iraq – anche se rimane il contingente di 200 uomini destinato a garantire la sicurezza dell'ambasciata a Baghdad – non deve farci dimenticare che in quel paese si continua a morire: sono oltre 70 le persone uccise in questi ultimi giorni, ossia da poco prima di Natale, quando si è completato il ritiro delle truppe americane. Visto il bilancio di questi nove anni di guerra è chiaro cosa ha spinto Obama ad accelerare il ritiro, in vista delle prossime elezioni presidenziali: 800 miliardi di dollari spesi, più di un milione di donne e uomini impegnati nella missione, 4.500 soldati statunitensi morti. Visto che facciamo un bilancio, ci sarebbe anche da ricordare il numero dei civili iracheni rimasti uccisi nel conflitto, un numero che probabilmente non conosceremo mai; sono 115mila, secondo le stime ufficiali americane, ma molto probabilmente sono molto più numerose. Forse ricordate che alcuni anni fa, nel giugno del 2006, la rivista britannica The Lancet stimò in 600mila le vittime civili del conflitto fino a quel mese. Ma cosa succederà adesso in Iraq?
Nonostante una certa indispensabile – e anche comprensibile – retorica statunitense e al di là del fatto che per due volte, dopo la fine della dittatura, gli iracheni sono stati chiamati alle urne, il sistema politico iracheno assomiglia, più che a una democrazia, a una dittatura di partiti di ispirazione religiosa, che si spartiscono il potere su base settaria ed etnica. Inoltre questo potere viene amministrato attraverso un calibrato sistema di clientele e di corruzione; l’Iraq figura al 175° posto, su 182 paesi nella classifica della corruzione stilata da Transparency International.
L'Iraq rimane un vaso ci coccio – e anche il più fragile – tra vasi di ferro, soprattutto Turchia e Iran. Per ora sono in vantaggio gli iraniani, grazie soprattutto alla miope decisione americana di favorire a tutti i costi gli sciiti, a danno dei sunniti, che sostenevano Saddam. Il regime iraniano ha forti legami con gran parte dell'establishment sciita, a partire dal premier iracheno Nouri al-Maliki, ha finanziato direttamente diversi movimenti religiosi e politici, tra cui quello di Moqtada al-Sadr, leader del gruppo paramilitare, noto come “esercito del Mahdi”, molto attivo in quest'ultima fase, inoltre fa pressioni sul clero iracheno affinché venga nominato a capo del Consiglio religioso sciita l’ayatollah conservatore Hashemi Shahroudi. Ai turchi invece rimane l'appoggio dei curdi del nord del paese. Poi c'è l'Arabia Saudita che potrebbe decidere di scendere in campo per difendere la maggioranza sunnita. E' chiaro che la situazione rimane estremamente complessa e l'Iraq potrebbe diventare, già nei prossimi mesi, il campo di battaglia, anche per interposta persona, tra queste tre potenze regionali, con in mezzo – sempre più in pericolo – il popolo iracheno che vive in uno stato di guerra ormai da decenni.
Quando però parliamo dell'Iraq non possiamo dimenticare un elemento essenziale, senza il quale è impossibile capire cosa succederà in quel paese: le riserve irachene di petrolio ammontano a 143 miliardi di barili, ossia il 12% delle riserve mondiali: Nel 2010, pur in una situazione ancora politicamente complessa, l'Iraq ha prodotto 2,7 milioni di barili, provenienti dai 28 grandi giacimenti che si trovano nel nord e nel sud del paese, le zone a influenza curda e sciita. Le grandi compagnie occidentali, cinesi e russe si sono già spartite questi giacimenti e stanno sfruttando a piene mani il petrolio iracheno, mentre il popolo di quel paese non ne ricava alcun vantaggio. Per saperne di più su questo tema vi consiglio di leggere il dossier Il saccheggio dell’Iraq. Un guerra per le risorse, preparato da Un ponte per... e pubblicato sul sito Osservatorio Iraq.
Questo è il dramma dell'Iraq: un territorio potenzialmente ricchissimo, la culla della civiltà – ricordate la Mesopotamia in cui nacque la scrittura? – un popolo schiacciato tra gli interessi delle grandi multinazionali, le strategie politiche delle cancellerie, la corruzione di leader senza scrupoli. Per questo abbiamo detto che la guerra in Iraq era un errore, purtroppo tutte le previsioni si sono rivelate esatte.

martedì 3 gennaio 2012

"Inventario" di Georges Perec

475 veicoli a due ruote, di cui
197 motorini
128 motociclette
97 biciclette
35 scooter
18 biciclette a motore
16 tricicli e motocarrozzette
***
3287 veicoli a quattro ruote, di cui
1435 vetture private
574 camioncini
380 taxi
407 camion
210 autobus
33 pullman e torpedoni
18 veicoli della polizia
17 ambulanze
12 scuole-guida
1 carro funebre
***
407 camion, di cui, in particolare
33 camion di colore blu
30 camion da trasloco
29 camion per il trasporto di bevande
11 camion-frigoriferi
11 camion delle poste
10 camion di colore verde
9 camion di frutta e verdura
8 camion per il trasporto di carne
8 carro-attrezzi
8 autocisterne
7 camion con cassone
6 camion con rimorchio
6 camion per il trasporto di denaro
4 camion del latte
***
574 camioncini, di cui, tra l’altro
55 camioncini di colore blu
45 camioncini delle poste
26 camioncini di colore bianco
***
580 taxi, di cui, più particolarmente
15 blu
10 bianchi
9 verdi
9 rossi
5 gialli
1 arancione
***
210 autobus, di cui
46 con la pubblicità “Sono arrivati i cocchi”
47 con la pubblicità di Veronique Sanson
56 della linea 63
42 della linea 96
38 della linea 86
37 della linea 70
32 della linea 87
2 della linea 20
2 della linea 48
1 servizio speciale trasporto bambini
***
1435 vetture private, di cui, almeno
79 Volkswagen
28 due-cavalli
22 DS
19 Renault 4L, R4 o R5
19 Méhari
12 Mercedes
7 Peugeot
5 vecchie Citroën
4 Ami 6
4 Morris Cooper
4 Land Rover o affini
3 Fiat 500
1 Ford Mustang
1 Jaguar
1 Matra
1 Rolls-Royce
1 Simca
1 Volvo
***
79 Volkswagen, di cui, più precisamente
15 bianche di cui 2 decappottabili
10 gialle
8 rosse
8 blu
5 nere di cui 1 decappottabile
4 grigie metallizzate
1 dorata
1 viola
***
78 due-cavalli, di cui, tra l’altro
18 verde mela
11 rosse
8 arancione
7 gialle
6 blu
3 grigie
2 verdi
2 bianche
***
1172 vetture di varie marche, tra le quali
75 vetture grigie
63 vetture bianche
57 vetture blu
55 vetture bianche
44 vetture gialle
12 vetture arancione
6 vetture grigio metallizzato
7 vetture sportive
***
36 cani, di cui 2 barboncini e 1 bulldog
26 uccelli
***
Diverse centinaia, se non diverse migliaia, di passanti dei due sessi, tra i quali, in ordine sparso
Undici bebè portati a passeggio nelle carrozzine
Un macellaio
Cinque uomini calvi
Un prete con una lunga barba
Una signora che mangia del cioccolato
Diciotto uomini col berretto
Sette uomini col basco
Un uomo con la bombetta
Due uomini con dei cappelli tirolesi
Un piccolo fattorino per i telegrammi
Un turista con una macchina fotografica a tracolla
Diciannove fumatori, di cui tre amanti della pipa, due amanti di sigari, uno di sigaretti
Quattro ragazze con delle incerate gialle
Ventitre casalinghe che vanno al mercato con i carrelli della spesa
Un uomo con delle rose
Un militare di leva
Un uomo che mi indica
Tre postini
Cinquantasette persone che attraversano la strada correndo
Tre coppie che passeggiano con un cane
Quarantatre persone con dei pacchi
Una signora con due baguette sotto il braccio
Un uomo con un cappello di pelo
Una bambina che mi fa la linguaccia
Due uomini con la cravatta a farfalla
Duecentoventisette persone con l’ombrello
Una signora con una scatola di dolci
Una bambina che si mette le dita nel naso
Due donne con degli abiti felpati
Un uomo con un lungo grembiule da cameriere
Tre ragazze con il poncho
Un uomo che guarda se gli hanno rigato la portiera della macchina
Un uomo che saluta qualcuno di molto lontano
Un giapponese in un pullman
Una ragazzina che si protegge dalla pioggia tenendo un giornale sulla testa
Un uomo con un violoncello
Una donna che porta a spasso due cani
Due uomini che spingono dei carrelli
Settantaquattro persone in impermeabile
Una donna che sbadiglia nella sua macchina
Una coppia che si bacia
Due ragazze con gli zaini
Due persone che mangiano dei panini per strada
Una ragazzina che ride da sola
Tre addetti alle fogne
Cinque uomini con ventiquattr’ore
Una coppia che passeggia con una mappa di Parigi
Una signora con un bastone da passeggio bianco
Un uomo che sospira
Un uomo che si sfrega le mani
Una signora con un cappello verde
Una signora con un cappello bianco
Cinque netturbini
Un uomo con dei lunghi favoriti che porta a spasso il suo cane
Sette lavavetri di cui uno dall’aria poco allegra
Una donna con un libro rilegato sottobraccio
Una giovane donna che mi scatta una foto
Uno scolaro che porta il suo zainetto in spalla
Sei signore che spingono dei passeggini
Due uomini che fanno cadere la cenere delle sigarette attraverso la portiera della loro macchina
Un uomo che cammina con delle stampelle
Una ragazza che ha comprato uno yogurt
Tre uomini molto grassi
Un cieco che un altro uomo aiuta ad attraversare la strada
Due operai vestiti di bianco
Quattro ufficiali verosimilmente stranieri
Un uomo che si pulisce i denti
Un uomo che si mangia le unghie
Una ragazza che pedala per mettere in moto il suo motorino
Una giovane donna con gli occhiali alzati sulla fronte
Una signora che zoppica leggermente
Un uomo che mangia una mezza baguette
Quindici persone che hanno appena comprato il giornale della sera
Un uomo con tutto l’armamentario del fotografo
Quattro signore che camminano aiutandosi con un bastone da passeggio
Ventotto fattorini di cui diciassette che consegnano giornali
Un uomo che ha l’aria di soffrire per la pioggia

domenica 1 gennaio 2012

da "Le città invisibili" di Italo Calvino

Procopia
Ogni anno nei miei viaggi faccio sosta a Procopia e prendo alloggio nella stessa stanza della stessa locanda. Fin dalla prima volta mi sono soffermato a contemplare il paesaggio che si vede spostando la tendina della finestra: un fosso, un ponte, un muretto, un albero di sorbo, un campo di pannocchie, un roveto con le more, un pollaio, un dosso di collina giallo, una nuvola bianca, un pezzo di cielo azzurro a forma di trapezio. Sono sicuro che la prima volta non si vedeva nessuno; è stato solo l'anno dopo che, a un movimento tra le foglie, ho potuto distinguere una faccia tonda e piatta che rosicchiava una pannocchia. Dopo un anno erano in tre sul muretto, e al mio ritorno ce ne vidi sei, seduti in fila, con le mani sui ginocchi e qualche sorba in un piatto. Ogni anno, appena entrato nella stanza, alzavo la tendina e contavo alcune facce in piú: sedici, compresi quelli giù nel fosso; ventinove,di cui otto appollaiati sul sorbo; quarantasette senza contare quelli nel pollaio. Si somigliano, sembrano gentili, hanno lentiggini sulle guance, sorridono, qualcuno con la bocca sporca di more. Presto vidi tutto il ponte pieno di tipi dalla faccia tonda, accoccolati perché non avevano piú posto per muoversi; sgranocchiavano le pannocchie, poi rodevano i torsoli. Cosí, un anno dopo l'altro ho visto sparire il fosso, l'albero, il roveto, nascosti da siepi di sorrisi tranquilli, tra le guance tonde che si muovono masticando foglie. Non si ha idea, in uno spazio ristretto come quel campicello di granturco, quanta gente ci può stare, specie se messi seduti con le braccia intorno ai ginocchi, fermi. Devono essercene molti di piú di quanto sembra: il dosso della collina l'ho visto coprirsi d'una folla sempre piú fitta; ma da quando quelli sul ponte hanno preso l'abitudine di stare a cavalcioni l'uno sulle spalle dell'altro non riesco piú a spingere lo sguardo tanto in là. Quest'anno, infine, a alzare la tendina, la finestra inquadra solo una distesa di facce: da un angolo all'altro, a tutti i livelli e a tutte le distanze, si vedono questi visi tondi, fermi, piatti piatti, con un accenno di sorriso, e in mezzo molte mani, che si tengono alle spalle di quelli che stanno davanti. Anche il cielo è sparito. Tanto vale che mi allontani dalla finestra. Non che i movimenti mi siano facili. Nella mia stanza siamo alloggiati in ventisei: per spostare i piedi devo disturbare quelli che stanno accoccolati sul pavimento, mi faccio largo tra i ginocchi di quelli seduti sul cassettone e i gomiti di quelli che si dànno il turno per appoggiarsi al letto: tutte persone gentili, per fortuna.