domenica 12 agosto 2012

Storie (VIII). "L'anniversario..."

X arrivò in città quando ormai era buio: il treno partito dalla capitale aveva impiegato otto ore per fare quel viaggio, invece delle sei previste. Quando il capotreno gli annunciò, con un mezzo inchino, che il treno stava per entrare in stazione, X ringraziò, pensando agli enfatici discorsi del ministro dei trasporti sull'efficienza delle ferrovie dopo la rivoluzione. Sul binario lo attendeva il comitato di benvenuto organizzato da B, che però non era venuto di persona ad accogliere X. Certo questo era un funzionario inviato dalla capitale, uno che in pochi anni era salito in alto nel partito, ma era troppo giovane per essere così potente da meritare che B andasse ad accoglierlo in stazione; B pensava che X era nato dopo la rivoluzione, che l'aveva letta soltanto nei libri, mentre lui l'aveva fatta davvero, seppur in quell'angolo sperduto del paese. X salutò uno per uno quelli che lo aspettavano da ore sulla banchina, annuì quando uno di loro lodò la puntualità delle ferrovie, prese un piccolo mazzo di fiori da una bambina assonnata, mentre il fotografo scattava le foto di rito. Non era prevista una cena ufficiale, X ne era contento, aveva voglia soltanto di dormire, dopo quel viaggio.
La mattina dopo si svegliò presto, si lavò e si vestì con cura. La sera prima, la facciata dell'albergo dove lo avevano portato gli era sembrata piuttosto cadente e appena entrò nella sua camera sentì un forte odore di vernice: evidentemente era stata tinteggiata il giorno prima. Quando uscì dalla stanza, vide davanti alla sua porta un agente della polizia politica che sonnecchiava; questi davanti a X scattò sull'attenti in maniera piuttosto goffa e lo accompagnò nella piccola sala dove era servita la colazione. Li precedeva l'odore della vernice fresca, capì che l'agente doveva seguire all'interno dell'albergo un percorso ben preciso e pensò che per tutto quel giorno avrebbe dovuto seguire un percorso definito in ogni suo spostamento in città, seguendo probabilmente l'odore di vernice. Controllò di avere nella tasca interna della giacca gli appunti dei due discorsi che avrebbe dovuto pronunciare quel giorno. Finita la colazione, vide avvicinarsi un nuovo comitato di accoglienza, erano circa il doppio rispetto alla sera precedente e quindi i saluti richiesero un tempo maggiore, anche perché i maggiorenti del partito erano più importanti e quindi le presentazioni richiedevano più tempo. Il fotografo, sempre quello della sera prima, continuava a scattare.
X fu caricato in un'automobile scura, lucidissima; notò le strade deserte dove sventolavano le bandiere del partito, mentre la guida gli indicava alcuni palazzi che risalivano ai tempi precedenti la rivoluzione e un brutto monumento dedicato ai caduti della guerra. Finalmente arrivarono nella piazza centrale, X capì di essere a meno di un isolato dall'albergo, ma certo all'autista era stato ordinato di fare un giro più lungo. Vide la folla, il grande palco dove sedevano già tutti i capi locali del partito, la grande bandiera che copriva la statua che lui era stato chiamato a inaugurare. Mentre scendeva dall'auto, X vide B che si avvicinava, lo conosceva già, lo aveva incontrato alcune volte nella capitale, in occasione delle riunioni semestrali del parlamento. Si scambiarono un bacio formale, secondo il protocollo.
B era un vecchio rivoluzionario, aveva poco meno di trent'anni durante i combattimenti di maggio, prima era stato in carcere e poi era stato protagonista di una rocambolesca evasione, insieme a molti altri compagni di lotta. Aveva il volto bonario, i modi spicci e gentili di un contadino, un'aria che trasmetteva una certa idea di timidezza, ma X vide anche una luce feroce nei suoi occhi e sapeva che in quei cinquant'anni aveva governato quella lontana provincia con grande durezza. A B non piacevano quelli della capitale, specialmente quei giovani professorini che non avevano conosciuto l'asprezza della battaglia, non voleva che mettessero il naso negli affari della sua provincia e così era stato, anche perché da lì non erano mai venuti problemi. In quell'occasione B aveva ceduto un po' alla vanità, aveva sempre celebrato la festa della rivoluzione senza chiamare nessuno dalla capitale, ma quell'anno si trattava del cinquantesimo anniversario e poi c'era da inaugurare la grande statua di A, l'eroe della rivoluzione in quella città, il combattente valoroso, che era morto proprio cinquant'anni prima, il giorno della vittoria, ucciso nel palazzo del governatore, lì sulla piazza - quel palazzo che sarebbe diventato la sede del nuovo potere rivoluzionario. A guidava il piccolo gruppo di ribelli che assaltarono il palazzo, insieme a B entrò nell'ufficio del governatore per prenderlo prigioniero, ma questi, in un atto di estrema fedeltà al regime che stava finendo, gli sparò un colpo di pistola, B a sua volta uccise il governatore e mostrò al popolo raccolto in piazza il corpo di A. In quel momento, la folla eccitata dalla vista del corpo di A si gettò all'assalto delle truppe del regime, che capitolarono in poche ore all'interno della loro caserma, sotto la pressione del popolo inferocito. B allora assunse il potere per conto del partito, prendendo il posto che sarebbe toccato ad A.
I discorsi di B e di X si svolsero secondo i canoni della retorica della rivoluzione. La folla applaudiva ogni volta che veniva citato il nome di A. L'esercito era schierato sotto il palco. Infine la banda intonò l'inno del partito e venne scoperta la brutta statua dell'antico capo rivoluzionario. La giornata proseguì con il pranzo ufficiale offerto da B all'ospite e ai maggiorenti del partito: anche in questa occasione il saluto di B e il discorso di ringraziamento di X non uscirono da quanto previsto in queste occasioni protocollari. X citò le capacità di B, ma senza quelle lodi che questi avrebbe sperato di ascoltare. I capi del partito colsero l'amarezza di B e capirono che ormai quelli della capitale avevano deciso che al prossimo congresso B non sarebbe stato ricandidato e sarebbe quindi cominciata la sua lenta discesa nella gerarchia del partito. Terminato il pranzo, gli agenti della polizia politica riaccompagnarono X all'albergo; il solito agente lo condusse attraverso i corridoi verniciati da poco e finalmente X si ritrovò da solo nella propria stanza. Sapeva che B vi aveva messo dei microfoni: una cosa piuttosto sciocca visto che era solo e non c'era neppure un telefono. Il treno sarebbe ripartito tra poco meno di due ore. X preparò le sue poche cose da sistemare in valigia, insieme al regalo che gli era stato fatto da B a nome della città. Notò che la sua valigia era stata mossa, non ci fece molto caso: immaginò che un qualche poliziotto di fiducia di B fosse stato incaricato di controllare il suo bagaglio. Si stupì di trovare tra la sua biancheria un biglietto, scritto a mano, con grafia un po' incerta, con un inconsueto inchiostro violetto. Lo lesse rapidamente, lo mise nella tasca interna della giacca e uscì.
Alla stazione lo aspettava il solito comitato, X cercò di guardarsi intorno, come cercando qualcuno. Posò per le ultime foto del solito fotografo e infine salì sul treno che all'indomani lo avrebbe portato di nuovo nella capitale. Chiusa la porta del suo scompartimento, tirò fuori un libro dalla sua valigia e riprese il biglietto. Era raccontata una storia di cinquant'anni prima.
Poco prima dell'attacco finale dei ribelli, quello che sarebbe stato chiamato nei libri di storia come i combattimenti di maggio, A, che non credeva nella vittoria o che forse aveva capito con troppa lungimiranza cosa sarebbero diventati i rivoluzionari una volta preso il potere, decise di tradire i suoi compagni di lotta; incontrò segretamente il governatore e gli disse dove si nascondeva ciascuno dei ribelli. La notte successiva la polizia del regime arrestò A, B e tutti i responsabili della rivolta. Il governatore però aveva capito che quel regime era destinato a soccombere e decise di incontrare B. I due uomini fecero un patto: il governatore spiegò a B che A li aveva traditi e si offrì di rendere possibile la loro evasione; in cambio, una volta preso il potere, B doveva garantire che non ci sarebbero state vendette contro la sua giovane figlia. A quel punto ci fu la grande evasione, quella ricordata nei libri di storia locale, A non si oppose, non voleva far capire che aveva tradito la fiducia dei suoi compagni e della rivoluzione. Poi i ribelli, incalzati dalle notizie che arrivavano dalla capitale dove i capi avevano deciso di forzare la mano e di prendere finalmente il potere, decisero di conquistare il palazzo del governatore, per poi attaccare l'esercito nella caserma. A tentò il tutto per tutto, fece sapere al governatore che quel giorno avrebbero superato i controlli delle guardie del palazzo e sarebbe scoppiata la rivoluzione; se all'interno del palazzo avesse schierato una guarnigione ben armata, la rivolta poteva ancora essere fermata. A e B, correndo davanti agli altri, entrarono nell'ufficio del governatore, quando A vide che non c'erano soldati e il governatore era lì solo, capì di essere finito. B chiuse la porta e disse ad A che la decisione adesso spettava soltanto a lui: A, senza dir nulla, si sparò un colpo di pistola. Invece il governatore chiese a B che fosse lui a ucciderlo, ricordandogli il patto che avevano siglato qualche notte prima. B mantenne la parola e la figlia del governatore visse in città, senza subire alcuna ritorsione, abitando in un piccolo villino della periferia. Dopo cinquant'anni le era sembrato giusto raccontare quella storia, anche se a una sola persona, sapendo che nessun altro avrebbe mai saputo la verità.
X rilesse per l'ultima volta il biglietto. Accese un fiammifero e lo bruciò nel piccolo portacenere dello scompartimento, mentre il treno procedeva lento nella pianura.

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