giovedì 24 maggio 2012

da "Le Metamorfosi" (II, vv. 833-875) di Ovidio

 Max Beckmann, The rape of Europe, 1933

Questo dice, e già i giovenchi cacciati giù dal monte si dirigono,
come ordinato, alla spiaggia, dove la figlia di quel re potente,
accompagnata dalle fanciulle di Tiro, è solita giocare.
Maestà e amore non vanno molto d'accordo,
non possono convivere: lasciato lo scettro solenne,
il padre e signore degli dei, quello che ha la destra armata
di fulmini a tre punte, lui che con un cenno fa tremare il mondo,
assume l'aspetto di un toro e mescolato alle giovenche
muggisce, aggirandosi aitante sull'erba tenera.
Il suo colore è come quello della neve non calcata
da passo pesante o sciolta dalle piogge dell'Austro;
gonfio di muscoli è il suo collo, dalle spalle pende la giogaia;
piccole le corna, ma tali che potresti ritenerle
fatte a mano, e più trasparenti d'una gemma pura.
Niente di minaccioso in volto, niente di spietato nello sguardo:
un'aria mansueta. La figlia di Agenore lo guarda
meravigliata, bello com'è e senza intenti bellicosi.
Prima però, malgrado le appaia così mite, esita a toccarlo;
ma poi gli si accosta e a quel candido muso porge dei fiori.
Gode l'innamorato e, in attesa del piacere sognato,
le bacia le mani: a stento ormai, a stento rimanda il resto;
intanto si sfrena gioioso saltando sull'erba verde
o stendendo il fianco color di neve sulla rena bionda;
e allontanata a poco a poco da lei la paura, le offre il petto
perché l'accarezzi con la sua mano ingenua, o le corna perché
le inghirlandi ancora di fiori. E la figlia del re
s'adagia persino sul suo dorso, senza sapere su chi si siede.
Allora il dio dalla terra asciutta della riva, senza parere,
comincia a imprimere le sue mentite orme nelle prime onde,
poi procede oltre e in mezzo alle acque del mare si porta via
la sua preda. Lei terrorizzata si volge a guardare la riva
ormai lontana: la destra stringe un corno, la sinistra s'afferra
alla groppa; palpitando al vento si gonfiano le vesti.

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