martedì 8 maggio 2012

da "L'amore degli insorti" di Stefano Tassinari

Sono concetti diversi, lo so, e comportamenti talvolta opposti, ma a tenerli insieme c'è la stessa radice, lo stesso bisogno di sovvertire quell'ordine stabilito che, in egual misura, ci ha stretto le manette ai polsi e anche ai semplici pensieri. Io lo posso dire soltanto a queste pareti, ma se fossi libero di farlo lo farei, senza il timore di venire fulminato dagli sguardi, e circondato dal disprezzo di chi continua a credere che siamo stati noi a rovinare tutto. E che cosa significa, poi, "rovinare tutto"? Secondo loro avremmo dovuto partecipare a un grande gioco di simulazione, scrivendo "viale Lenin" al posto di "corso Traiano", e dopo tutti contenti a contare le fiches che abbiamo guadagnato? Oppure scendere in piazza, come facevamo, a gridare: «Dieci, cento, mille Vietnam!», e poi tornare a casa, la sera, a guardare la televisione? O riempire le strade di bandiere rosse con l'effigie del Che, studiare a fondo il suo libro La guerra di guerriglia, mandare soldi ai combattenti di mezzo mondo, cantare a squarciagola: «E allora lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà» o, meglio ancora, «Stato e padrone, fate attenzione, nasce il partito dell'insurrezione… Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo, non più parole ma pioggia di piombo», e alla fine organizzare un cineforum con i film sul Terzo mondo, promuovere un dibattito sulla resistenza del popolo Saharawi o fare uno sciopero della fame contro il genocidio degli abitanti di Timor Est? Certo, c'è chi si è accontentato di questo, senza capire quanta distanza ci fosse tra quelle parole apprese o cantate e una pratica che non ha mai dato fastidio a nessuno. Io no, io non ce l'ho fatta a convivere con l'ipocrisia, a far risuonare le strade con un boato di sillabe ritmate e rimate, a gareggiare da un capo all'altro di un corteo a chi lanciava lo slogan più trucido, a gridare con l'espressione dura: «Per i compagni uccisi non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto!» o «Contro lo Stato della violenza, ora e sempre resistenza», e poi a dormire sonni tranquilli nel mio letto, immaginando gli scogli a picco delle mie prossime vacanze. Io no, io non ce l'ho fatta ad aspettare tempi migliori, a limare documenti fino al mattino per poi affermare soddisfatto: «Abbiamo spostato a sinistra l'asse del partito», a spendere le mie giornate per reclutare un militante in più mentre, intorno a noi, i piccoli fuochi diventavano incendi.
Allora ero convinto che non ci fossero alternative alla strada su cui mi stavo incamminando. Adesso so che qualcosa di diverso si poteva fare, a patto di sentirsi davvero dalla stessa parte. Tra me e Alba, per esempio, qual è la differenza? Che io ho preso le armi e lei no, ma io non ero più indignato di quanto non lo fosse lei. Dalla stessa matrice sono usciti due fogli diversi. È possibile? Sì, se tra un passaggio di colore e l'altro qualunque cosa, anche il più classico dei granelli di polvere, finisce dentro gli ingranaggi. Lei mi andava bene comunque, perché la sua passione non era inferiore alla mia. Ma tutti gli altri, tutti quelli che si sono riparati in una nicchia, spacciando la mancanza di coraggio per l'intelligente intuizione di rosicchiare il sistema dall'interno?
Basta, non ho voglia di fare altri commenti. Mi rode solo di essere il bersaglio immobile di una macchinazione, costretto a tacere e a vergognarmi un po’ ogni qual volta mi tocca di sciorinare le mie generalità fittizie, ripetendo a memoria: «Calvesi Paolo Emilio, nato a Roma il, residente a Bologna in, professione architetto, sposato, due figli, cittadino benestante in regola col fisco e con le leggi». Fino a prova contraria.
[...]
Nella visione li vedo muoversi a schiera, circondare interi edifici, sfasciare a colpi di piccone le porte di casa di persone ignare, mettersi in tasca tutto quello che trovano, a partire dai soldi, minacciare chiunque protesti e poi tornare in strada, sudati e orgogliosi, a urlare ai quattro venti che "la legge lo consente". E vero, la legge consentiva loro queste e altre nefandezze, come sequestrare i "sospetti" per tre giorni senza avvisare le famiglie e gli avvocati, blindare per anni la gente in una cella senza processarla, confinare su un'isola gli indesiderabili, riempire di microfoni migliaia di vite e puntare un mitra in faccia a chiunque avesse l'aria di non starci. Anche per questo ho preso in mano un’arma, solo che oggi nessuno si ricorda delle cause, ma solo degli effetti, in primo luogo i morti, sempre e soltanto i loro. E di quelli non ho pietà, se non di alcuni, uccisi per caso o per calcoli sbagliati. La gran parte era responsabile di qualcosa: di aver utilizzato le proprie conoscenze per fottere gli operai, di essere stati i promotori di centinaia di arresti illegali, di aver diretto partiti corrotti, organizzato le stragi di stato, preso ordini dagli americani, promosso e finanziato gruppi golpisti e coperto i traffici della mafia. Per non parlare dei cosiddetti pesci piccoli, che magari se la sono cavata a buon mercato, con un po' di spavento o qualche buco nelle gambe: speculatori immobiliari, caporali, pennivendoli, mandanti di stupri politici contro le operaie sindacalizzate, tutta gente che, in quell'Italia, non avrebbe mai fatto un solo giorno di galera. Gente di rispetto, amici degli amici, carrieristi massoni, riciclatori di denaro sporco... Tutti tranquilli, finché non siamo arrivati noi a farli vivere con la paura, a farli girare con la scorta, a farli passare, di colpo, dal ruolo di potenti e intoccabili a quello di deboli e vulnerabili. E se in mezzo a loro c'è finita qualche brava persona mi dispiace, ma in guerra è così, da sempre, e le guerre non le abbiamo inventate noi, casomai ce le hanno fatte subire.
Mi torna tutto su, di nuovo, e ogni volta che mi accade è come se il diaframma mi si bloccasse all'altezza del cuore, stringendo d'assedio il mio respiro e le mie emozioni. Capita ancor di più quando con la memoria sale anche la domanda che non riesco a tollerare, quell'imbarazzante "a cos'è servito?" dalla risposta scontata. A niente, hanno detto in tanti, voltando il viso dall'altra parte. A far marcire in galera migliaia di compagni, ha aggiunto qualcuno. A rafforzare il loro potere, ha chiosato qualcun altro, mentre per l'uomo della strada, le istituzioni, le televisioni, il sentire comune, il sentito dire, il politicamente corretto, i nuovi angeli della non violenza, i giudicanti e anche certi giudicati è stato tutto un generare lutti, seminare tempeste, aizzare odio, creare fratture insanabili e trascinare il paese nella barbarie, come se treni, stazioni e aerei saltati in aria fossero stati esempi di convivenza civile...

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