sabato 18 febbraio 2012

da "I ventitre giorni della città di Alba" di Beppe Fenoglio

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell'anno 1944.
Ai primi d'ottobre, il presidio repubblicano, sentendosi mancare il fiato per la stretta che gli davano i partigiani dalle colline (non dormivano da settimane, tutte le notti quelli scendevano a far bordello con le armi, erano esauriti gli stessi borghesi che pure non lasciavano più il letto), il presidio fece dire dai preti ai partigiani che sgomberava, solo che i partigiani gli garantissero l'incolumità dell'esodo. I partigiani garantirono e la mattina del 10 ottobre il presidio sgomberò.
I repubblicani passarono il fiume Tanaro con armi e bagagli, guardando indietro se i partigiani subentranti non li seguivano un po' troppo dappresso, e qualcuno senza parere faceva corsettine avanti ai camerati, per modo che, se da dietro si sparava un colpo a tradimento, non fosse subito la sua schiena ad incassarlo. Quando poi furono sull'altra sponda e su questa di loro non rimase che polvere ricadente, allora si fermarono e voltarono tutti, e in direzione della libera città di Alba urlarono: - Venduti, bastardi e traditori, ritorneremo e v'impiccheremo tutti! - Poi dalla città furono visti correre a cerchio verso un sol punto: era la truppa che si accalcava a consolare i suoi ufficiali che piangevano e mugolavano che si sentivano morire dalla vergogna. E quando gli parve che fossero consolati abbastanza tornarono a rivolgersi alla città e a gridare: - Venduti, bastardi...! - eccetera, ma stavolta un po' più sostanziosamente, perché non erano tutti improperi quelli che mandavano, c'erano anche mortaiate che riuscirono a dare in seguito un bel profitto ai conciatetti della città.
I partigiani si cacciarono in porte e portoni, i borghesi ruzzolarono in cantina, un paio di squadre corse agli argini da dove apri un fuoco di mitraglia che ammazzò una vacca al pascolo sull'altra riva e fece aria ai repubblicani che però marciaron via di miglior passo.
Allora qualcuno s'attaccò alla fune del campanone della cattedrale, altri alle corde delle campane dell'altre otto chiese di Alba e sembrò che sulla città piovesse scheggioni di bronzo. La gente, ferma o che camminasse, teneva la testa rientrata nelle spalle e aveva la faccia degli ubriachi o quella di chi s'aspetta il solletico in qualche parte. Così la gente, pressata contro i muri di via Maestra, vide passare i partigiani delle Langhe. Non che non n'avesse visti mai, al tempo che in Alba era di guarnigione il II Reggimento Cacciatori degli Appennini e che questi tornavano dall'aver rastrellato una porzione di Langa, ce n'era sempre da vedere uno o due con le mani legate col fildiferro e il muso macellato, ma erano solo uno o due, mentre ora c'erano tutti (come credere che ce ne fossero altri ancora?) e nella loro miglior forma.
Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n'era per cento carnevali. Fece un'impressione senza pari quel partigiano semplice che passò rivestito dell'uniforme di gala di colonnello d'artiglieria cogli alamari neri e le bande gialle e intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri col grosso gancio. Sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite. Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: - Ahi, povera Italia! - perché queste ragazze avevano delle facce e un'andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l'occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s'erano scaraventate in città.

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