mercoledì 31 agosto 2011

"Valore" di Erri De Luca


Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual’è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.

martedì 30 agosto 2011

da "Le memorie di Adriano" di Marguerite Yourcenar

La meditazione della morte non insegna a morire; non rende l’esodo più facile, ma non è questo quel ch’io cerco. Piccola figura imbronciata e volontaria, il tuo sacrificio non ha arricchito la mia vita, ma la mia morte. Il suo approssimarsi ristabilisce tra noi due una sorta d’intima complicità: i vivi che mi circondano, i servi devoti, importuni a volte, non sapranno mai sino a qual punto il mondo non c’interessa più. Penso con disgusto ai tetri simboli delle tombe egizie: l’arido scarabeo, la rigida mummia, la rana dei parti eterni. A dar retta ai sacerdoti, t’ho lasciato in quel luogo ove gli elementi d’un essere si lacerano come un abito logoro che si strappa, in quel sinistro crocevia tra ciò che esiste eternamente, ciò che fu, e ciò che sarà. Può darsi che in fin dei conti essi abbiano ragione, che la morte sia fatta della stessa materia fluttuante e informe della vita. Ma tutte le teorie sull’immortalità m’ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà d’un giudizio. D’altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d’Epicuro. Osservo la mia fine: questa serie di esperimenti compiuti su me stesso prosegue il lungo studio iniziato nella clinica di Satiro. Fino a ora, sono mutamenti esteriori, quanto quelli che il tempo e le intemperie fanno subire a un monumento di cui non alterano né la materia, né la plastica: a volte, attraverso le crepe, mi sembra di scorgere e toccare le fondamenta indistruttibili, il tufo eterno. Sono quel che ero: muoio senza mutarmi. A prima vista, l’adusto fanciullo dei giardini di Spagna, l’ufficiale ambizioso che rientra nella tenda scrollandosi dalle spalle i fiocchi di neve, sembrano tanto cancellati quanto lo sarò io dopo che sarò passato attraverso il rogo; ma essi son qui; io ne sono inseparabile. L’uomo che ha urlato sul petto d’un morto continua a gemere in un angolo di me stesso, a onta della calma più e meno che umana alla quale partecipo già; il viaggiatore racchiuso nel corpo del malato orami sedentario per sempre s’interessa alla morte perché essa rappresenta una partenza. Quella forza ch’io fui sembra capace ancora di animare parecchie altre vite, di sollevare dei mondi. Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori, frequenterei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi. Una constatazione simile è un argomento eccellente in favore dell’utilità della morte, ma nello stesso tempo m’ispira dubbi sulla totale efficacia di essa.

domenica 28 agosto 2011

Considerazioni libere (245): a proposito di carestie...

Nella mia penultima "considerazione" - la nr. 243 - ho provato a ragionare di democrazia o meglio di quale sia il significato che dobbiamo dare a questa parola, dal momento che di democrazie al mondo ce ne sono tante e molto diverse le une dalle altre. Amartya Sen dice che "le democrazie caratterizzate da un sistema mediatico libero ed energico e da regolari elezioni multipartitiche si dimostrano di fatto efficienti nel prevenire il verificarsi delle carestie" (se volete leggere tutta la riflessione dell'intellettuale indiano, potete trovarla qui).
Voglio provare a raccontare quello che sta succedendo nel Corno d'Africa e in particolare in Somalia, proprio a partire dall'assunto di Sen. Distratti dalla crisi economica e dall'improvvisa accelerazione della guerra in Libia, non ci siamo accorti di quello che stava avvenendo nel cuore dell'Africa. Ma questa non è una novità: c'è sempre qualcosa di più urgente dell'Africa.
Come sempre, credo sia necessario partire dai numeri. Sono quasi 12 milioni le persone minacciate dalla siccità e dalla carestia nell'Africa occidentale: 4,6 milioni in Etiopia (il 6% dell'intera popolazione), 3,2 milioni in Kenya (il 10,2% della popolazione) e 3,7 milioni in Somalia (addirittura il 34,5% della popolazione). Ed è proprio in quest'ultimo paese che la situazione è più drammatica: negli ultimi 90 giorni sono morti 30mila bambini, mentre 810mila persone sono fuggite dal paese per andare nei campi profughi in Etiopia, Kenya e Gibuti - peraltro anch'essi colpiti dalla siccità, come ho detto prima. Lo scorso 20 luglio l'Onu ha dichiarato ufficialmente l'emergenza alimentare in due province della Somalia meridionale e poco dopo l'ha estesa ad altre tre. Le Nazioni Unite dichiarano formalmente che in un paese c'è una carestia quando viene verificato che in una certa area del mondo un bambino su tre è malnutrito e che ogni giorno un bambino su 2.500 muore per la fame. Le carestie vengono dichiarate con molta cautela: questa è la prima volta che accade nel nuovo secolo. In Somalia non accadeva dal 1992.
Ci sono prima di tutto cause climatiche. Questa primavera sono mancate le piogge e di conseguenza i raccolti. In genere, almeno fino al Duemila, questi gravi episodi di siccità colpivano la regione ogni dieci anni, ora invece si succedono ogni due anni. Il clima, il riscaldamento globale, l'inquinamento non bastano però a raccontare quello che sta avvenendo in Somalia, anzi sarebbe un alibi troppo comodo per quelle persone che sono le vere responsabili della carestia.
Prima di tutto bisogna sapere che la carestia non è arrivata all'improvviso. Già nell'ottobre dello scorso anno i governi e le istituzioni internazionali erano state avvertite di quello che sarebbe successo questa estate. Il sistema di preallarme della carestia che tiene sotto controllo sia gli andamenti climatici sia i prezzi dei generi alimentari e degli altri beni di consumo aveva detto chiaramente che quest'anno la situazione sarebbe stata drammatica. Questo sistema di preallarme è stato creato dagli Stati Uniti per prevenire fenomeni come la grande carestia del 1984-85, che colpì in particolare Etiopia e Sudan; il sistema è efficiente, ma purtroppo inefficace, dal momento che le sue previsioni rimangono sostanzialmente sulla carta.
Inoltre la Somalia meridionale, la regione maggiormente colpita dalla carestia, non è una regione arida, come parte del Kenya e dell'Etiopia, ma una delle zone più floride del Corno d'Africa. Il vero problema è che in Somalia manca un vero governo da oltre vent'anni, il paese è in mano di fatto ai cosiddetti "signori della guerra" e non c'è nessuna struttura amministrativa. La situazione è se possibile peggiorata da quando, nel 2009, nella Somalia meridionale il potere è passato di fatto alla milizia islamista Al Shabaab, legata ad Al Qaeda. Ad aggravare il quadro c'è la decisione degli Stati Uniti di sospendere l'invio degli aiuti nella regione controllata dai miliziani, per non dare un ulteriore sostegno a dei potenziali nemici.
Qui andrebbe aperta una riflessione profonda: ha senso che i governi occidentali continuino a tenere insieme aiuto allo sviluppo e sostegno politico? Per punire Al Shabaab si finiscono per punire tutti i somali, rischiando di favorire la stessa propaganda islamista contro l'Occidente. La sicurezza alimentare dovrebbe essere garantita comunque, anche in quei territori governati da nemici, quando questi, come nel caso somalo, non sono in grado di assicurare i servizi di base alle popolazioni dove sono insediati. Si rischia di fornire aiuti anche ad Al Shabaab, ma almeno si eviterebbero i morti per carestia. Su questo dovrebbe aprirsi un confronto, ma purtroppo siamo ancora troppo sordi ai drammi dell'Africa.

p.s. devo queste riflessioni all'articolo di Xan Rice pubblicato su The Guardian e tradotto nel nr. 912 di Internazionale.

sabato 27 agosto 2011

da "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni

Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell'arco a sbieco, nella piazza de' Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell'edifizio chiamato allora il collegio de' dottori, non dessero un'occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella statua non c'è più, per un caso singolare. Circa cento settant'anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d'anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l'avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!

venerdì 26 agosto 2011

Considerazioni libere (244): a proposito di proteste e di motivi per cui protestare...

Sono state settimane decisamente intense, non è nemmeno stato necessario dedicare articoli e servizi a uno dei consueti “delitti dell’estate”, con cui gli organi di informazione riuscivano di solito a passare la stagione calda. Gran parte dell’attenzione si è concentrata – inevitabilmente e giustamente - sulla crisi economica e sulle soluzioni che i governi e le istituzioni internazionali hanno provato a mettere in campo per attutirne gli effetti.
C’è qualcosa d’altro su cui - almeno per me - varrebbe la pena soffermarsi. Il 14 luglio scorso alcuni studenti e giovani lavoratori, molte ragazze, si sono accampati con le loro tende nel boulevard Rothschild, una delle vie principali e più eleganti di Tel Aviv, per protestare contro l’aumento del costo delle case. In pochissimo tempo la protesta si è diffusa in altre città del paese, tra cui Gerusalemme e Beer Sheva: le piazze principali di queste città si sono trasformate in piccoli accampamenti con centinaia di tende, manifesti di protesta e persone che suonavano chitarre e che si riunivano per discutere fino a tarda notte. Purtroppo tra le parole d’ordine della protesta, che ben presto ha travalicato lo scopo iniziale legato ai prezzi degli alloggi, non c’è stato nessun riferimento a quei giovani cittadini israeliani che, essendo di nazionalità araba, godono oggettivamente di meno diritti. Comunque queste manifestazioni, che hanno dimostrato un’adesione e una tenuta nel tempo assolutamente imprevedibili, hanno riportato Isreale al centro del dibattito politico, ricollegando idealmente le piazze delle città israeliane a quelle delle altre città del Medio Oriente, tutte animate da giovani che non accettano più uno stato di cose che mette a rischio il loro futuro.
Il 7 agosto, nel quartiere londinese di Tottenham, dopo la morte di un tassista, ucciso in circostanze non ancora chiarite dopo essere stato fermato dalla polizia, sono scoppiati durissimi scontri, con incendi e saccheggi, che sono durati per giorni e si sono diffusi in varie zone di Londra e in molte altre città inglesi. I politici della Gran Bretagna sono rimasti sorpresi dalla forza della rivolta, mentre la polizia - già decapitata a seguito dello scandalo delle intercettazioni del gruppo Murdoch - è stata accusata di non aver saputo fronteggiare i giovani arrabbiati, lasciando anzi “sfogare” i partecipanti ai saccheggi senza intervenire. Cercare le ragioni della violenza non significa certo giustificarla, come recita un sillogismo caro a certa stampa moderata. Forse non è un caso che i tumulti siano cominciati a Tottenham, dove la chiusura di diversi centri sociali giovanili ha lasciato senza luoghi di aggregazione e attività sociali molti giovani disoccupati del quartiere. Gli scontri delle periferie inglesi dimostrano che una politica - indipendentemente dal colore del governo che la porta avanti - che non ritenga come sua centrale responsabilità l’attenuazione delle differenze di ricchezza e di classe, la creazione di opportunità per i più deboli e di posti di lavoro e occasioni di occupazione, che tagli indiscriminatamente le spese sociali, è una politica che si dispone a ignorare un problema enorme, o a pensare di affrontarlo solo con periodiche repressioni, buone soltanto a tranquillizzare i “bravi cittadini”.
A Salonicco i giovani che protestano sono stati sgomberati da piazza Syntagma alla fine di luglio, ma la Torre Bianca, il simbolo della città, l’antica fortificazione del XV secolo utilizzata come posto di guardia dei Giannizzeri e come prigione per i condannati a morte, è ancora circondata dalle tende dei manifestanti e coperta di striscioni con le scritte “in vendita” e “non in vendita”, in attesa che il prossimo 10 settembre il premier Papandreou inauguri la fiera internazionale della città, con un discorso in cui rilancerà la politica dei tagli e dei sacrifici. In Spagna gli indignados, gli iniziatori della protesta in Europa, non hanno ancora ripiegato e anzi hanno rilanciato con forza i loro slogan, in occasione della visita di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della gioventù: la forza della loro protesta ha comunque segnato la politica del paese iberico e sarà interessante vedere quale sarà l’effetto nelle prossime imminenti elezioni legislative. In Cile da settimane ci sono manifestazioni degli studenti universitari che protestano perché gli atenei del paese sono i più costosi dell'intero continente, subito dopo quelli statunitensi; protestano contro un'istruzione superiore sempre più classista, contro chi si arrichisce con l'istruzione privata e chiedono che la costituzione, ancora in gran parte figlia della dittatura, preveda un'educazione pubblica, gratuita e di qualità. Il governo di destra è intervenuto con violenza per bloccare le manifestazioni, ma ai giovani si sono uniti i sindacati, compresi i minatori delle miniere di rame, e sono stati proclamati due giorni di sciopero generale che hanno bloccato il paese.
Vedremo che impatto avrà in Italia lo sciopero generale del prossimo 6 settembre, proclamato con coraggio dalla Cgil, nonostante i tanti appelli a mantenere l’unità del paese in un momento così delicato: è come chiedere alle pecore di stare uniti con i lupi. Vedremo se questo sciopero riuscirà a catalizzare le energie delle giovani e dei giovani che non ne possono più, speriamo che queste energie si incanalino in maniera positiva e pacifica, come è avvenuto in Spagna, in Israele, in Cile; il rischio che prevalgano pulsioni violente e ribelli, come è avvenuto in Gran Bretagna, o che ci siano scontri condizionati e organizzati dalla criminalità organizzata - una specificità tutta italiana - è purtroppo sempre presente e dovremo fare attenzione a non permettere che nelle manifestazioni ci siano degenerazioni di questo tipo.
Verrebbe voglia di citare l’incipit dell’opera di Marx ed Engels: “uno spettro si aggira per l'Europa”, aggiornandolo per includere il nord Africa e il Medio Oriente. E allo stesso modo, come nel ‘48 “tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro”, comprese le armate degli organi di informazione. Purtroppo, come ho già avuto modo di scrivere altre volte, questa voglia di cambiare le cose, questo desiderio di un altro futuro non trova una sponda nella politica di sinistra né nell’elaborazione di intellettuali e di uomini di cultura. Non solo in Italia - dove pure questo fenomeno è ancora più evidente - siamo prigionieri di un riformismo debole, che accetta supinamente le regole del mercato, senza avere il coraggio di metterle in discussione, che subisce regole che altri hanno imposto e che sono riusciti a far diventare assolute. Abbiamo bisogno di altro, di riforme vere - per un paradosso tutto italiano, riforme è diventato un termine di destra - che abbiano la forza di cambiare in profondità certi rapporti sociali.
Provo a fare un semplice esempio, legato alla stretta attualità italiana. Capisco che un governo di destra e profondamente classista come quello che abbiamo in Italia voglia tagliare le tasse ai più ricchi, compensando le mancate entrate con l’aumento dell’Iva: è la destra che fa il suo mestiere, tutelando i più ricchi della società. Non capisco perché a sinistra non si avvii una discussione seria sulla ridistribuzione delle ricchezze, che non significa togliere ai ricchi i loro beni, ma vuol dire semplicemente che chi ha di più deve pagare di più. Un’imposta diretta progressiva non può essere messa sullo stesso piano di un’imposta indiretta a carattere universale: per una persona di sinistra questo scambio dovrebbe essere uno scandalo, per alcuni dirigenti politici di sinistra questa è un’ipotesi di lavoro, che si giudica in base all’efficacia. Abbiamo bisogno di scandalizzarci per le cose che non vanno, abbiamo voglia di arrabbiarci perché vadano diversamente.

martedì 23 agosto 2011

da "Passato e presente" di Antonio Gramsci

Le grandi idee e le formule vaghe. Le idee sono grandi in quanto sono attuabili, cioè in quanto rendono chiaro un rapporto reale che è immanente nella situazione e lo rendono chiaro, in quanto mostrano concretamente il processo di atti attraverso cui una volontà collettiva organizzata porta alla luce quel rapporto (lo crea) o portatolo alla luce, lo distrugge, sostituendolo. I grandi progettisti parolai sono tali appunto perché della "grande idea" lanciata non sanno vedere i vincoli con la realtà concreta, non sanno stabilire il processo reale di attuazione. Lo statista di classe intuisce simultaneamente l'idea e il processo reale di attuazione: compila il progetto e insieme il "regolamento" per l'esecuzione. Il progettista parolaio procede "provando e riprovando"; della sua attività si dice che "fare e disfare è tutto un lavorare". Cosa vuol dire in "idea" che al progetto deve essere connesso un regolamento? Che il progetto deve essere capito da ogni elemento attivo, in modo che egli vede quale deve essere il suo còmpito nella sua realizzazione e attuazione; che esso, suggerendo un atto, ne fa prevedere le conseguenze positive e negative, di adesione e di reazione, e contiene in sé le risposte a queste adesioni o reazioni, offre cioè un terreno di organizzazione. E' questo un aspetto dell'unità di teoria e di pratica. Corollario: ogni grande uomo politico non può non essere anche un grande amministratore, ogni grande stratega un grande tattico, ogni grande dottrinario un grande organizzatore. Questo anzi può essere un criterio di valutazione: si giudica il teorico, il facitor di piani, dalle sue qualità di amministratore, e amministrare significa prevedere gli atti e le operazioni fino a quelle "molecolari" (e le piú complesse, si capisce) necessarie per realizzare il piano. Naturalmente, è giusto anche il contrario: da un atto necessario si deve saper risalire al principio corrispondente. Criticamente questo processo è di somma importanza. Si giudica da ciò che si fa, non da quel che si dice. Costituzioni statali > leggi > regolamenti: sono i regolamenti e anzi la loro applicazione (fatta in virtú di circolari) che indicano la reale struttura politica e giuridica di un paese e di uno Stato.

giovedì 18 agosto 2011

"Il pianto dei tamburi" di Mario Benedetti


Ascolta il pianto
dei tamburi sulle mani
la commozione del mare adirato
il risveglio della luna dimezzata
l’inganno di un gioco di parole
morde le righe del mio quaderno
che fuggono senza senso
come l’altra metà della luna
timida e silente
quando gridano i tamburi.

lunedì 15 agosto 2011

"Versi" di Titos Patrikios


Nessun verso può rovesciare i regimi.
Avevo scritto anni prima
e ancor oggi me lo rinfacciano.
Ma i versi assolvono alla loro funzione
mostrano i regimi, dicono il loro nome
anche quando cercano di abbellirsi
di rinnovare un poco la vetrina
di cambiare denominazione e insegna.
I versi, anzi, qualche volta sorprendono
i leader in posizioni inattese
sicuri che nessuno li veda
con le mutande ingiallite e aperte
prima d’indossare le brache o i pantaloni
con gambe ossute e pantofole stracciate
prima d’infilarsi le scarpe o gli stivali,
la pancia debordante prima di tirarla in dentro
per abbottonarsi la giacca militare civile
con la dentiera lasciata nel bicchiere
prima di riprovare lo storico discorso,
con la pappagorgia e le guance pendule
prima di alzare il mento volitivo
prima ad guardare, perennemente giovani, al futuro.
I versi non rovesciano i regimi
ma certamente vivono più a lungo
di tutti i loro manifesti.

domenica 14 agosto 2011

"Gli scomparsi" di Hans Magnus Enzenberger


gli scomparsi
non li ha inghiottiti la terra. era l’aria?
come le arene del mare innumerevoli;

non in arena
però conversi ma in nulla. a schiere
dimenticati. spesso e di mano in mano,
come i minuti. più fitti di noi
ma senza ricordo. non registrati,
non decifrabili nella polvere ma scomparsi
i loro nomi, i cucchiai, le suole.
noi non li compiangiamo. non può nessuno
rammentarsi di loro: sono nati,
fuggiti, morti? dissolti
no. è senza lacune
il mondo ma lo tiene insieme solo
quel che non l’abita più,
coloro che sono scomparsi.

essi sono dovunque.
senza gli assenti, nulla ci sarebbe.
senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo.
senza gli incommensurabili,

nulla di commensurabile.
senza i dimenticati, nulla di certo.
gli scomparsi sono giusti.
così anche noi in un’eco.