sabato 30 luglio 2011

da "Le vespe ci insegnano la società liquida" di Zygmunt Bauman

Fin da quando il concetto di “insetti sociali” (che comprende api, termiti, formiche e vespe) è stato coniato ed è entrato nell’uso, gli zoologi più esperti, così come il pubblico profano, hanno nutrito la ferma e quasi indiscussa convinzione che la “socievolezza” degli stessi fosse limitata ai membri della colonia di appartenenza. Quest’ultima rappresenta il luogo in cui tali insetti sono venuti al mondo e al quale fanno ritorno ogni giorno della loro vita, portandovi il bottino delle loro scorribande in cerca di cibo per condividerlo con il resto della popolazione autoctona dell’alveare. La possibilità che qualche ape o vespa operaia potesse “migrare”, varcando i confini tra una colonia e l’altra e abbandonando l’alveare di nascita per unirsi ad un altro alveare - quello di elezione - era considerata (ammesso che fosse contemplata) come un’idea incongrua. Vigeva invece l’assioma che i membri “autoctoni”, nati all’interno della colonia e dunque “legittimi”, avrebbero prontamente scacciato il cane sciolto, eliminandolo se questi non si fosse allontanato.

[…] Ciò che passa per “logico”, tuttavia, al pari di quello che viene ritenuto “ovvio”, tende a cambiare col tempo. Si trasforma assieme alla condizione umana e alle sfide che pone. Contrariamente a tutto quello che si sapeva (o meglio si credeva di sapere) da secoli, l’équipe londinese ha scoperto a Panama che una cospicua maggioranza di “vespe operaie”, il 56 per cento, cambiano alveare nel corso della loro vita; e non semplicemente migrando in altre colonie in qualità di visitatori temporanei, mal accetti, discriminati ed emarginati, a volte energicamente perseguitati, e sempre visti con sospetto e ostilità, bensì come membri “legittimi” e a pieno titolo (si sarebbe tentati di dire “autorizzati”) della “comunità” adottiva che, al pari delle operaie “autoctone”, si procurano cibo, nutrono e accudiscono la nidiata locale. L’inevitabile conclusione è che gli alveari oggetto della ricerca sono di norma “popolazioni miste”, al cui interno le vespe native e quelle immigrate vivono e lavorano guancia a guancia e spalla a spalla, divenendo, almeno per gli osservatori umani, indistinguibili le une dalle altre se non con l’ausilio di identificatori elettronici.

Le notizie giunte da Panama rivelano innanzitutto uno straordinario ribaltamento di prospettiva: quelle convinzioni che fino a non molto tempo fa sembravano riflettere lo “stato di natura” si sono dimostrate, in retrospettiva, nient’altro che una proiezione sugli insetti di preoccupazioni e prassi fin troppo umane (prassi che oggi, tuttavia, perdono importanza e sbiadiscono nel passato) degli studiosi. È bastato che i ricercatori, di una generazione un poco più giovane della precedente, portassero nella foresta panamense la loro - e nostra - esperienza dei nuovi stili di vita, acquisita e assorbita nell’ormai cosmopolita Londra, patria “multiculturalizzata” di diaspore intrecciate, per “scoprire”, com’era doveroso, che la fluidità dell’appartenenza e l’eterno mescolarsi delle popolazioni sono la norma anche tra gli insetti sociali: una norma apparentemente attuata in modo “naturale”, senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di legge introdotti frettolosamente, corti supreme e centri di permanenza temporanea per richiedenti asilo.

In questo caso, come in molti altri, la natura prasseomorfica della percezione umana li ha spinti a scoprire “là fuori nel mondo” quello che hanno appreso a fare e fanno “qui a casa”, e ciò che nella testa o nel subconscio di tutti noi rappresenta l’immagine di “come stanno veramente le cose”. La differenza tra le “mappe cognitive” presenti nel bagaglio mentale degli entomologi di vecchia generazione e quelle acquisite o adottate dai ricercatori più giovani riflette il passaggio, nella storia degli Stati moderni, dalla fase del nation-building alla fase “multiculturale”; più in generale, il passaggio dalla modernità “solida”, incline a trincerare e fortificare il principio della sovranità territoriale, esclusiva e indivisibile, e a circondare i territori sovrani con frontiere impermeabili, alla modernità “liquida”, con le sue linee di confine sfocate e altamente permeabili, l’inarrestabile (anche se biasimata, sofferta e respinta) svalorizzazione delle distanze spaziali e della capacità difensiva del territorio, e un intenso traffico umano attraverso qualsiasi tipo di frontiera. E, sul piano della prassi quotidiana degli esseri umani, dalle pressioni assimilative e dalle aspettative di un’imminente uniformità, alla prospettiva di convivere permanentemente con la varietà e la diversità.

La popolazione di quasi ogni paese, ormai, è una somma di diaspore. E quella di quasi ogni città di una certa dimensione è oggi un aggregato di enclaves etniche, religiose e di stili di vita in cui la linea divisoria tra insider e outsider è al centro di accese controversie, mentre il diritto a tracciare tale linea, a mantenerla intatta e a renderla inattaccabile rappresenta la principale posta in palio nelle scaramucce per l’autorità e nelle battaglie per il riconoscimento che ne derivano. La maggior parte degli Stati ha ormai superato e si è lasciata alle spalle la fase del nation-building, per cui non è più interessata ad “assimilare” gli stranieri in arrivo (ovvero costringerli a disfarsi e privarsi delle loro identità distinte e a “dissolversi” nella massa uniforme dei “nativi”), e dunque gli scenari della vita contemporanea e il filo che costituisce la trama del vissuto rimarranno probabilmente proteiformi, variegati e caleidoscopici per molto tempo a venire. Per quel che può contare, e per quanto ne sappiamo, potrebbero anche continuare a cambiare in eterno.

"Debito" di Titos Patrikios




Tra tutta questa morte che è venuta e viene,
guerre, esecuzioni, processi, morte e ancora morte
malattie, fame, fatalità fatali,
amici e nemici assassinati da sicari,
stroncature sistematiche e necrologi pronti,
la vita che vivo è quasi un dono.
Un dono della sorte, se non un furto della vita altrui,
perché la pallottola a cui scampai non andò a vuoto
ma colpí l'altro corpo che si trovò al mio posto.
Cosí, come un dono immeritato, mi fu data la vita,
e tutto il tempo che mi resta
è come se mi fosse stato regalato dai morti
per narrare la loro storia.

giovedì 28 luglio 2011

Considerazioni libere (243): a proposito della definizione di democrazia...

Voi che leggete con una certa assiduità - e con notevole indulgenza - queste "considerazioni", sapete quanto io valuti positivamente quello che sta avvenendo in Africa settentrionale e in Medio oriente. Sono passati poco più di otto mesi dal 15 dicembre, quando Mohamed Bouazizi si è dato fuoco a Sidi Bouzid, accendendo quella rivolta che ha coinvolto milioni di giovani in tutta la regione. Otto mesi sono un periodo troppo breve per tracciare un bilancio, anche in un'epoca come la nostra dove ci illudiamo, complice la potenza dei mezzi di comunicazione, che tutto possa avvenire e risolversi in pochi giorni. La storia ha tempi più lunghi e non si sottomette alla cronaca, alla nostra volontà di procedere senza memoria.
In alcuni paesi, come la Siria, la rivolta è ancora in atto e rischia di venire soffocata dalla brutalità del regime della famiglia Assad, nell'indifferenza dell'opinione pubblica internazionale che si occupa sempre meno di quello che sta avvenendo nelle coste meridionale e orientale del Mediterraneo. In Egitto qualche commentatore parla già di controrivoluzione, una sorta di Termidoro in salsa araba, dal momento che i militari soffocano ogni spinta progressista. In Algeria e in Marocco la situazione pare normalizzata, a vantaggio del vecchio establishment. In Arabia Saudita non è stata neppure scalfita la teocrazia della dinastia Saud, uno dei regimi più antidemocratici del mondo. Evidentemente gli elementi negativi sono molti, ma, nonostante tutto, qualcosa è cambiato. I giovani che protestano nelle piazze delle città mediorientali sono diventati uno degli attori politici della regione e non si può più far finta che non ci siano: questo è già un risultato importante.
Io credo che, anche alla luce di quello che sta avvenendo nel mondo, di fronte a questi milioni di persone che si ribellano in nome della democrazia, non sia superfluo da parte nostra - che viviamo in paesi che hanno una più o meno lunga tradizione democratica - ragionare, anche un po' astrattamente, sul concetto di democrazia. Anche perché le democrazie non sono affatto tutte uguali.
Cosa distingue una democrazia da una dittatura? Qualcuno potrebbe rispondere che il regolare svolgimento di elezioni è un indicatore per fare questa distinzione, ma francamente non mi pare sufficiente: sono molti i dittatori "eletti". La presenza di una costituzione è un altro indice importante, ma - anche in questo caso è piuttosto evidente - ci sono splendide costituzioni che rimangono scritte sulla carta. Il riconoscimento degli altri paesi è un argomento ancora più fallace: la Russia viene perfino invitata al vertice G8, nonostante sia notoriamente un regime autocratico. Gli interessi economici prevalgono molto spesso su ogni altra considerazione di carattere politico o ideologico, basti pensare a come le democrazie occidentali si rapportano alla Cina.
Ci sono grandi differenze tra le democrazie. E ci sono grandi differenze nell'idea che ciascuno di noi si fa della democrazia in cui vive. Per molti cittadini che vivono in regimi democratici la democrazia è il semplice esercizio del voto, che si esercita ogni quattro o cinque anni, delegando del tutto, in questo periodo tra un'elezione e l'altra, la gestione della cosa pubblica alle persone che più o meno consapevolmente, più o meno convintamente, hanno votato. Per altri la democrazia si esercita non soltanto con il proprio voto, ma con un controllo continuo sull'attività degli eletti e in forme di vera e propria partecipazione alle scelte. Su questo punto specifico tornerò dopo, commentando alcune riflessioni di Umberto Eco.
Di fatto molte democrazie sono molto più simili all'oligarchia descritta da Megabizo nel cosiddetto logos tripolitikos erodoteo - uno dei testi fondamentali della teoria politica dell'antichità - che alla forma di governo che "ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi alla legge", descritta da Otane. Senza arrivare alle degenerazioni della "casta" italiana, la politica è sempre più il campo specialistico di una categoria di persone professionalmente preparate allo scopo. In questi anni, nelle democrazie, anche di lunga tradizione, assistiamo a una vera e propria tendenza dinastica. Come noto, negli Stati Uniti Bush jr. è succeduto al padre e, se non fosse spuntata la stella di Obama, probabilmente Hillary Clinton sarebbe diventata presidente dopo il marito: sarebbe potuto succedere che per quasi trent'anni due sole famiglie si fossero alternate al governo degli Stati Uniti, la più importante democrazia del mondo. L'attuale primo ministro greco, socialista, è figlio di un ex primo ministro e lo stesso il suo predecessore del partito conservatore. L'attuale presidente dell'Argentina è la moglie, ora vedova, del precedente presidente; e gli esempi potrebbero continuare. In Italia, dove solitamente la storia si trasforma in farsa, assistiamo all'irresistibile ascesa politica del figlio di Bossi.
Proviamo a definire "democrazie elettorali" questi regimi che sono tali soltanto un giorno ogni quattro anni. Ci sono paesi democratici in cui non sono rispettati i diritti umani o il principio di uguaglianza di fronte alla legge: proviamo a definire questi altri paesi "democrazie illiberali". Ci sono altre democrazie, come quella israeliana o - fino all'inizio degli anni Novanta - quella sudafricana, che prevedono che ci siano cittadini a pieno diritto e cittadini con un minor grado di diritti e garanzie costituzionali. Se poi, in un paese di democrazia recente come la Spagna ha un tale successo il movimento Democracia real ya, ossia "democrazia reale subito", significa che questioni come la legittimità, la rappresentatività o la responsabilità sono così in crisi che la parola democrazia a volte sembra una formula priva di significato. Poi c'è la questione del ruolo delle donne: c'è una grande differenza tra i paesi scandinavi e, ad esempio, una democrazia come l'Italia, tanto da far nascere nel nostro paese un movimento come Se non ora quando, che intreccia questioni di genere a critiche più generali al sistema della rappresentanza.
Ci sono organizzazioni e studiosi che cercano di individuare le misure empiriche per verificare il grado di democrazia di un paese. L’organizzazione Freedom house classifica i paesi del mondo, dal punto di vista dell'adesione ai principi democratici, utilizzando una scala da uno a sette, da più a meno libero. Il progetto Polity IV analizza diversi dati sui regimi politici e assegna un punteggio su ventuno indicatori che oscilla tra -10 e +10. Il Democracy Index dell’Economist esamina i 167 paesi del mondo in base a cinque categorie, dividendoli poi tra democrazie complete, imperfette, regimi ibridi e regimi autoritari. Come è evidente la scala di grigi tra democrazia e dittatura è piuttosto vasta.
Torno un momento sul rapporto tra cittadini e politica. All'indomani del voto amministrativo, Umberto Eco ha scritto un articolo estremamente interessante, ricordando un episodio del 1997, successivo alla vittoria elettorale dell'Ulivo. Eco riporta un lungo passo di Massimo D'Alema, in cui egli rivendica il primato della politica come "un ramo specialistico delle professioni intellettuali", concludendo che "l'idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla tout-court ai cittadini è un mito estremista". Il professore risponde, seppur dopo molti anni, al politico, con un ragionamento, la cui conclusione credo meriti di essere riportata integralmente e possa essere utile a questa mia "considerazione".
Quale rimane dunque la funzione, certamente insostituibile, dei partiti e della "politica" nel momento in cui si dà voce a elementi non professionalmente politici? Non solo quella di interrogare e comprendere le pulsioni, le idee, le aspirazioni che animano la società civile, ma di garantire la continuità di queste espressioni, perché certamente la società civile può aggregarsi e disgregarsi a seconda della situazione di un paese, può mobilitarsi in casi di estrema urgenza (come è avvenuto) ma disperdersi o impigrirsi nel momento successivo. Ed ecco che i partiti devono sentire non solo il dovere di rispondere alle sollecitazioni della società civile, ma anche quello di sollecitare queste sollecitazioni. Per poi ovviamente incanalarle nelle forme parlamentari e governative l'accesso alle quali non può che avvenire tramite i partiti.

Probabilmente tutte queste riflessioni sono lontane dalle rivendicazioni più elementari - e anche più "alimentari" dei dimostranti di piazza Tahir - ma noi, i nostri governi, i nostri politici, non possono eluderle, tanto più quanto si ha l'obiettivo di insegnare o di "esportare"" la democrazia. Ma quale democrazia?
Personalmente ritengo che il punto fondamentale sia richiamare non soltanto i processi di decisione costituzionali propri di un regime democratico, ma anche i principi della Dichiarazione universale dei diritti umani. Non c'è vera democrazia in un paese in cui le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini, in cui le bambine e i bambini non vanno a scuola, in cui la maggioranza della popolazione vive sotto il livello di povertà.
Concludo con queste parole di Norberto Bobbio.
Diritti dell'uomo, democrazia, pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico. Senza diritti dell'uomo riconosciuti ed effettivamente protetti non c'è democrazia. Senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi, e tra quei grandi gruppi che sono gli Stati, tradizionalmente indocili e tendenzialmente critici rispetto agli altri Stati, anche quando sono democratici al proprio interno. Non sarà inutile ricordare che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo comincia affermando che "Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo".



mercoledì 27 luglio 2011

"Dubbi" di Hans Magnus Enzenberger


Resta nel complesso sospeso
sempre e per sempre
il gioco mondano
dei dadi bianchi e neri?
Resta così, pochi vincitori perdenti,
molti perdenti perduti?
Sì, dicono i miei nemici.
Dico: Quasi tutto ciò che vedo
potrebbe essere diverso. Ma a quale prezzo?
Le tracce del progresso sono insanguinate.
Sono tracce di progresso?
I miei desideri sono semplici.
Semplicemente irrealizzabili?
Sì, dicono i miei nemici.
Le segretari sono in vita.
Gli spazzini non ne sanno nulla.
I ricercatori conducono le loro ricerche.
I mangiatori mangiano. Bene così.
Intanto mi chiedo:
Domani sarà ancora un giorno?
Questo letto sarà una bara?
Qualcuno ha ragione, o no?
E’ consentito dubitare anche dei dubbi?
No, il vostro consiglio di impiccarmi,
per quanto sia così saggio, non lo seguirò.
Domani sarà ancora un giorno (vero?)
occhi da aprire, battito di ciglia.
Qualcosa di buono da dire: ho avuto tanto.
Dolce giorno, in cui ciò che è comprensibile
si comprende da solo, nell’insieme!
Quale trionfo, Cassandra!
Un futuro da gustare, che io confuto!
Qualcosa di nuovo, sarebbe buono,
(i saggi Anziani già sapevano…)
ascolto attento i miei nemici.
Chi sono i miei nemici?
I neri mi chiamano bianco,
i bianchi mi chiamano nero.
Ascolto questo volentieri. Potrebbe significare:
sono sul giusto cammino
(esiste un giusto cammino?)
Io non mi biasimo. Biasimo coloro
a cui i miei dubbi sono indifferenti.
Hanno altre preoccupazioni.
I miei nemici mi stupiscono.
Hanno buone intenzioni con me.
Sarebbe tutto perdonato, accontentarsi
di sé e di loro.
Una piccola sbadataggine rende già amabili.
Un singolo Amen,
indifferente, quale Credo,
e potrei benedire ciò che è mondano,
impiccarmi, nel complesso
consolato e riconciliato, senza dubbi,
col mondo intero.

martedì 19 luglio 2011

"Lascito" di Yiannis Ritsos


Disse: Credo nella poesia, nell'amore, nella morte,
perciò credo nell'immortalità. Scrivo un verso,
scrivo il mondo; esisto; esiste il mondo.
Dall'estremità del mio mignolo scorre un fiume.
Il cielo è sette volte azzurro. Questa purezza
è di nuovo la prima verità, il mio ultimo desiderio.

domenica 17 luglio 2011

da "Le storie" (III, 80-82) di Erodoto

Dopo che il tumulto si fu quietato e furono passati cinque giorni, quelli che si erano ribellati ai Magi tenevano un consiglio su tutto il complesso delle faccende dello stato, e furono pronunciati discorsi incredibili sì ad alcuni dei Greci, ma pure furono pronunciati.
Otane invitava a porre il potere nelle mani di tutti i Persiani dicendo questo: "A me sembra opportuno che nessuno divenga più nostro monarca, perché non è cosa né piacevole né conveniente. Voi sapete infatti l’insolenza di Cambise a qual punto è giunta, e avete provata anche l’arroganza del Mago. Come dunque potrebbe essere una cosa perfetta la monarchia, cui è lecito far ciò che vuole senza doverne render conto? Perché anche il migliore degli uomini, una volta salito a tale autorità, il potere monarchico lo allontanerebbe dal suo solito modo di pensare. Dai beni presenti gli viene infatti l’arroganza, mentre sin dalle origini è innata in lui l’invidia. E quando ha questi due vizi ha ogni malvagità, perché molte scelleratezze le compie perché pieno di arroganza, altre per invidia. Eppure un sovrano dovrebbe essere privo di invidia, dal momento che possiede tutti i beni. Invece egli si comporta verso i cittadini in modo ben differente, è invidioso che i migliori siano in vita, e si compiace dei cittadini peggiori ed è prontissimo ad accogliere le calunnie. Ma la cosa più sconveniente di tutte è questa: se qualcuno lo onora moderatamente, si sdegna di non esser onorato abbastanza; se invece uno lo onora molto si sdegna ritenendolo un adulatore. E la cosa più grave vengo ora a dirla: egli sovverte le patrie usanze e violenta donne e manda a morte senza giudizio. Il governo popolare invece anzi tutto ha il nome più bello di tutti, l’uguaglianza dinanzi alla legge, in secondo luogo niente fa di quanto fa il monarca, perché a sorte esercita le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo e presenta tutti i decreti dell’assemblea generale. Io dunque propongo di abbandonare la monarchia e di elevare il popolo al potere, perché nella massa sta ogni potenza". Questo parere esponeva Otane.
Megabizo invece esortava a volgersi all’oligarchia dicendo così: "Quel che ha detto Otane per por fine alla tirannide si intenda detto anche da me; ma quanto al fatto che vi invitava a conferire il potere al popolo, egli non ha colto il parere migliore: niente infatti c’è di più privo di intelligenza, né di più insolente del volgo buono a nulla. E certo, che per fuggire l’insolenza di un monarca gli uomini cadano nell’insolenza di una plebaglia sfrenata, è cosa assolutamente intollerabile. Quello infatti se fa qualcosa la fa a ragion veduta, questa invece non ha neppure capacità di discernimento: e come potrebbe aver discernimento chi né ha imparato da altri né conosce da sé niente di buono, e si getta alla cieca senza senno nelle cose, simile a torrente impetuoso? Della democrazia facciano dunque uso quelli che vogliono male ai Persiani; noi invece, scelto un gruppo degli uomini migliori, a questi affidiamo il potere; ché fra questi ci saremo anche noi, ed è giusto che dagli uomini migliori derivino le migliori deliberazioni". Megabizo esponeva dunque questo parere.
E per terzo Dario rivelava il suo parere dicendo: "A me quel che ha detto Megabizo riguardo al governo democratico mi pare l’abbia detto giustamente; non giustamente invece quel che riguarda l’oligarchia. Ché, offrendocisi tre forme di governo ed essendo tutte a parole ottime, ottima la democrazia e l’oligarchia e la monarchia, io affermo che quest’ultima è di molto migliore. Di un uomo solo che sia ottimo niente potrebbe apparire migliore, e valendosi di tale sua saggezza egli potrebbe guidare in modo perfetto il popolo, e così soprattutto potrebbero esser tenuti segreti i provvedimenti contro i nemici. Nell’oligarchia invece ai molti che impiegano le loro qualità nell’amministrazione dello stato sogliono capitare gravi inimicizie private, perché, volendo ciascuno essere il primo e prevalere con i suoi pareri, vengono a grandi inimicizie fra loro, e da queste nascono discordie, e dalle discordie stragi, e dalle stragi si passa alla monarchia, e con ciò si dimostra di quanto questo regime è il migliore. D’altra parte se il popolo è al potere è impossibile che non sopravvenga la malvagità. E sopravvenuta nello stato la malvagità sorgono fra i malvagi non inimicizie, ma salde amicizie, poiché quelli che danneggiano gli interessi comuni lo fanno cospirando fra loro. E questo succede fino a che uno del popolo, postosi a capo degli altri, li fa cessare; in conseguenza di ciò costui s’impone all’ammirazione del popolo, e così ammirato viene proclamato monarca. E così anche questo dimostra che la monarchia è la cosa migliore. E per dir tutto in una sola parola, donde ci è venuta la libertà e chi ce l’ha data? Forse dal popolo o dall’oligarchia o non piuttosto da un monarca? Il mio parere è dunque che noi, avendo ottenuta la libertà per opera di un sol uomo, dobbiamo mantenere in vigore la stessa forma di governo, e inoltre non dobbiamo abolire le istituzioni dei nostri padri, che sono buone, perché non sarebbe certo la cosa migliore".

sabato 16 luglio 2011

"Cose elementari" di Yiannis Ritsos


In modo maldestro, con ago grosso, con
filo grosso,
si attacca i bottoni della giacca. Parla da
solo:

Hai mangiato il tuo pane? Hai dormito
tranquillo?
Hai potuto parlare? Tendere la mano?
Ti sei ricordato di guardare dalla finestra?
Hai sorriso al bussare della porta?

Se la morte c'è sempre, è la seconda.
La libertà sempre è la prima.

martedì 12 luglio 2011

Considerazioni libere (242): a proposito di velocità, più o meno alta...

Sarà l'influenza dei film western, del mito americano della frontiera, ma anche dei più domestici racconti sulla Direttissima: tendenzialmente ho sempre considerato l'espandersi delle ferrovie come un elemento di progresso, come un evento positivo della storia degli uomini. Questo per dire che non sono pregiudizialmente contrario alla costruzione della linea ad alta velocità tra Torino e Lione, e conseguente alla creazione di un corridoio ferroiviario tra Lisbona e Kiev.
In linea di massima, da cittadino, sarei disposto a subire dei sacrifici - e un così pesante intervento sul territorio è indubbiamente un sacrificio - se ciò significasse un vantaggio per la collettività. Il problema è che in questa vicenda sono ben chiari i sacrifici, ma sono molto più aleatori e vaghi i vantaggi. Personalmente ritengo che, in queste condizioni, la Tav sia un errore e provo a spiegare perché.
Mi pare che in questa vicenda siano state finora prevalenti due opposte visioni ideologiche, quelli che considerano la Tav come un indispensabile elemento di progresso, una necessità strategica per l'Italia e per l'Europa e quelli che la considerano un danno, a prescindere. Fino a quando la discussione rimarrà su questo piano è evidente che nessuno riuscirà a convincere nessuno, tutti rimarranno sulle proprie posizioni, la Tav probabilmente non si realizzerà - e questo per alcuni è evidentemente un fatto positivo - ma non si riuscirà nemmeno a ragionare sul futuro dei trasporti e della logistica in questo Paese - e questo è un grave problema per tutti.
Viaggiare in Italia e far viaggiare le merci in Italia è un'impresa forse paragonabile a quella dei pioneri del selvaggio West: si sa quando si parte, ma non quando si arriverà. In Italia viaggiare è quasi sempre sinonimo di utilizzare l'automobile, far viaggiare le merci significa quasi sempre caricarle su camion. La rete del trasporto ferroviario, al netto della linea ad alta velocità tra Roma e Milano, è nettamente al di sotto degli standard degli altri paesi europei. Discorso analogo può essere fatto per il trasporto pubblico locale, nelle grandi città come nei piccoli centri.
In queste condizioni tra le priorità dell'Italia non c'è la linea Torino-Lione. Prima occorre rendere più snello il traffico locale, migliorando le reti di trasporto pubblico e creando reti di piste ciclabili; decongestionare il traffico di lungo raggio, potenziando la rete ferroviaria, tutta la rete ferroviaria, da nord a sud; ridurre il traffico dei tir, con una politica di disincentivi, attraverso l’imposizione di pedaggi molto più costosi. Come è evidente si tratta di uno sforzo economico incredibile - molto più gravoso di quello necessario per realizzare la Torino-Lione - che richiederebbe miliardi di investimenti diffusi sul territorio. Tra l'altro è lecito chiedersi che visione dell'Italia c'è dietro un'opera che potenzia il traffico di persone e merci tra ovest ed est dell'Italia settentrionale, mentre i collegamenti tra il nord e il sud dell'Italia, quelli sì veramente strategici alla luce dello sviluppo mediterraneo, sono al livello che conosciamo, basti pensare alla Salerno-Reggio Calabria o alle ferrovie siciliane.
Alcuni giorni fa, pochi giorni dopo gli incidenti in Val di Susa, quando sono partiti i lavori del cantiere, mi è capitato di parlare con un'amica "indignata" (credo che la definizione le possa star bene) - pendolare come me e quindi, come me, soggetta ai capricci di Trenitalia. Io criticavo Grillo per le sue estemporenee dichiarazioni sui dimostranti "tutti eroi", lei sosteneva che l'atteggiamento di chi criticava Grillo di fronte a un problema grave come quello della Tav era paragonabile a quello di chi, puntando alla luna, guarda il proprio dito piuttosto che l'astro notturno. Penso avessimo ragione entrambi. Le dichiarazioni di Grillo sono state inopportune, oltre a essere sbagliate, perché hanno alimentato ulteriormente quella discussione ideologica a cui mi riferivo all'inizio di questa "considerazione"; il problema è che le forze politiche, comprese purtroppo le forze di sinistra, preferiscono confrontarsi sui "massimi sistemi", senza affrontare i dati reali.
La linea Torino-Lione riuscirà a diminuire in maniera sensibile il traffico di automobili su quella tratta, come sta avvenendo per la linea Milano-Roma? No, anche perché i flussi di traffico su queste due tratte non sono paragonabili. L'alta velocità sposterà considerevolmente il traffico merci dalla gomma al ferro? No. Per raggiungere questo scopo non serve l'alta velocità, facendo guadagnare un'ora o due di tempo, basterebbe penalizzare la circolazione dei tir sulla strada, mentre in Italia avviene esattamente il contrario. Il problema è che Svizzera e Austria sono impegnati a potenziare la propria rete di trasporto su ferro, mentre in Italia preferiamo "impiccarci" a un progetto che interessa un angolo del paese dove viaggia solo una piccola parte delle merci.
Magari partendo da questi dati potremmo perfino trovare una soluzione. Perfino in Italia.

post scriptum del 2 marzo 2012
In questi mesi non è sostanzialmente cambiato il mio giudizio sul progetto di realizzare la Tav in Val di Susa e quindi ripubblico questa "considerazione", confidando nella consueta pazienza dei miei lettori. Non scriverei più la frase "la Tav probabilmente non si realizzerà"; a luglio del 2011 c'era un governo ben più debole e arrendevole di quello che c'è adesso e quindi penso che su questo - come è avvenuto sulle pensioni e come avverrà sulla riforma dello Statuto dei lavoratori - il governo Monti giocherà la sua partita fino in fondo, dando un segnale ben preciso al paese. A questo tema - che riguarda più direttamente la democrazia di questo paese - proverò a dedicare una nuova "considerazione" nei prossimi giorni.
Rispetto alla riflessione di alcuni mesi fa voglio fare una sola aggiunta, riferita ai costi dell'opera. A chi dice che bisogna comunque andare avanti, credo si debba rispondere che da quando è stata decisa la realizzazione della Torino-Lione a oggi è cambiato il mondo. Anche solo nei pochi mesi che ci separano da luglio scorso - quando ho scritto le righe precedenti - la situazione economica europea - e italiana - è radicalmente mutata. Siamo entrati in un periodo di recessione e questo credo obblighi a maggiore attenzione sull'uso delle poche risorse di cui disponiamo.
Mi preoccupa il fatto che su quanto costerà effettivamente la Torino-Lione ci siano forti divergenze. I comitati della Val di Susa stimano che quest'opera costerà almeno 23 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere altre spese difficili da prevedere, ad esempio per la gestione della sicurezza presso i cantieri (per Chiomonte si è arrivati a spendere 90mila euro al giorno); gli stessi comitati denunciano anche una sproporzione nell'accordo con la Francia per la ripartizione dei costi: l'opera sarà per un terzo sul suolo italiano, ma il nostro paese sosterrà il 57,9% delle spese; infine ci sono dei dubbi sull'effettiva misura del contributo europeo. Chi sostiene la necessità di realizzare la Tav, dice invece che costerà 2,8 miliardi di euro, e che questa spesa, dilazionata in dieci anni, è sostenibile; dicono inoltre che il contributo europeo è certo e che potranno esserci anche investimenti privati, sul modello di esperienze simili fatte in Europa. La differenza tra i due dati è troppo grande, anche perché, in buona sostanza, il tracciato non è ancora stato stabilito definitivamente e di conseguenza è difficile credere che i costi possano essere individuati in maniera univoca. Chi sostiene che la Tav debba essere completata gioca con le parole; i lavori non sono mai cominciati veramente né sul versante italiano né su quello francese. E' stata impiantato un cantiere dove saranno raccolti i detriti dei primi scavi conoscitivi che serviranno a ottenere informazioni sul tipo di rocce, in modo da stabilire il tracciato definitivo della linea. Forse siamo ancora in tempo a fermarci, magari decidendo di spendere quei soldi in maniera diversa.

giovedì 7 luglio 2011

"A comprare la città di Stoccolma" di Gianni Rodari

Al mercato di Gavirate capitano certi ometti che vendono di tutto, e più bravi di loro a vendere non si sa dove andarli a trovare.
Un venerdì capitò un ometto che vendeva strane cose: il Monte Bianco, l'Oceano Indiano, i mari della Luna, e aveva una magnifica parlantina, e dopo un'ora gli era rimasta solo la città di Stoccolma. La comprò un barbiere, in cambio di un taglio di capelli con frizione.
Il barbiere inchiodò tra due specchi il certificato che diceva: "Proprietario della città di Stoccolma", e lo mostrava orgoglioso ai clienti, rispondendo a tutte le loro domande.
"E' una città della Svezia, anzi è la capitale".
"Ha quasi un milione di abitanti, e naturlmente sono tutti miei".
"C'è anche il mare, si capisce, ma non so chi sia il proprietario".
Il barbiere, un poco alla volta, mise da parte i soldi, e l'anno scorso andò in Svezia a visitare la sua proprietà. La città di Stoccolama gli parve meravigliosa, e gli svedesi gentilissimi. Loro non capivano una parola di quello che diceva lui, e lui non capiva mezza parola di quello che gli rispondevano.
"Sono il padrone della città, lo sapete o no? Ve l'hanno fatto, il comunicato?" Gli svedesi sorridevano e dicevano di sì, perchè non capivano ma erano gentili, e il barbiere si fregava le mani tutto contento: "Una città simile per un taglio di capelli e una frizione! L'ho proprio pagata a buon mercato".
E invece si sbagliava e l'aveva pagata troppo. Perchè ogni bambino che viene in questo mondo, il mondo intero è tutto suo, e non deve pagarlo neanche un soldo. Deve soltanto rimboccarsi le maniche, allungare le mani e prenderselo.

martedì 5 luglio 2011

da "Protagora" di Platone

Il mito di Protagora
C'era un tempo in cui esistevano gli dei, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando anche per queste giunse il tempo segnato dal destino per la loro generazione, nell'interno della terra gli dei le plasmarono, facendo una mescolanza di terra e di fuoco, e degli altri elementi che si possono unire col fuoco e con la terra. E quando si trovarono nel momento di farle venire alla luce, affidarono a Prometeo e ad Epimeteo il compito di fornire e di distribuire le facoltà a ciascuna razza in modo conveniente. Ma Epimeteo chiese a Prometeo di poterle distribuire lui da solo: “Quando avrò finito la distribuzione - soggiunse - tu verrai a vedere”. E, così persuasolo, si accinse all'opera di distribuzione. Ad alcune razze diede la forza senza la velocità, e fornì invece le razze più deboli di velocità. Ad altre assegnò armi di difesa e di offesa, mentre per altre ancora, cui aveva dato una natura inerme, escogitò altre facoltà, per garantire la loro salvezza. Infatti, a quelle razze che egli rivestì di piccolezza, diede la capacità di fuggire con le ali, oppure di celarsi sotto terra; invece a quelle cui fornì la grandezza, diede la possibilità di salvarsi appunto con questa. E anche le altre facoltà distribuì in questo modo, in maniera che si equilibrassero. Ed escogitò queste cose facendo attenzione che nessuna razza si potesse estinguere. E, allorché ebbe premunite le varie razze dei mezzi per sfuggire alle distruzioni reciproche, escogitò un espediente perché si difendessero contro le intemperie delle stagioni che manda Zeus, rivestendole di folti peli e di spesse pelli, capaci di difenderle dal freddo e in grado di proteggerle dalle calure, e tali che, quando si coricavano nei loro giacigli, questi servissero da coltri naturali, proprie a ciascuna di esse. E ad alcune fornì zoccoli ai piedi, ad altre pelli dure e senza sangue. Successivamente, fornì cibi diversi per le diverse razze: ad alcune assegnò le erbe della terra, ad altre i frutti degli alberi, ad altre le radici. E vi sono razze cui concesse di divorare altre razze di animali per nutrirsi; e provvide che le prime avessero una scarsa prole, e che quelle che dovevano essere divorate da queste avessero invece una numerosa prole, assicurando la conservazione della razza. Orbene, Epimeteo, che non era troppo sapiente, non si accorse di aver esaurito tutte le facoltà per gli animali; a questo punto gli restava ancora la razza umana non sistemata, e non sapeva come rimediare. Mentre egli si trovava in questa situazione imbarazzante, Prometeo viene a vedere la distribuzione e si accorge che tutte le razze degli altri animali erano convenientemente fornite di tutto, mentre l'uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. E ormai s'avvicinava il giorno segnato dal destino in cui anche l'uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Allora, Prometeo, in questa imbarazzante situazione, non sapendo quale mezzo di salvezza escogitare per l'uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme con il fuoco (senza il fuoco era infatti impossibile acquisire e utilizzare quella sapienza), e la dona all'uomo. In tal modo, l'uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era ormai più possibile entrare nell'acropoli, dimora di Zeus; per giunta, c'erano anche le terribili guardie di Zeus. Entra dunque furtivamente nell'officina di Atena e di Efesto, in cui essi praticavano insieme la loro arte, e, rubata l'arte del fuoco di Efesto e quella di Atena, la dona all'uomo. Di qui vennero all'uomo le sue risorse per la vita. Ma Prometeo, a causa di Epimeteo, in seguito, come si narra, subì la pena per il furto.
E poiché l'uomo divenne partecipe di sorte divina, in primo luogo, in virtù di questo legame di parentela che venne ad avere con il divino, unico fra gli animali credette negli dei, e intraprese a costruire altari e statue di dei. In secondo luogo, rapidamente con l'arte sciolse la voce e articolò parole, inventò abitazioni, vesti, calzari, letti e trasse gli alimenti dalla terra. Provvisti in questo modo, da principio, gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non esistevano città. Pertanto perivano ad opera delle fiere, giacché erano molto meno potenti di esse: l'arte che essi possedevano era per loro un adeguato aiuto nel procurarsi il nutrimento, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, essi non possedevano ancora l'arte politica, di cui l'arte della guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi fondando città; ma allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie l'un l'altro, perché non possedevano l'arte politica, sicché, disperdendosi nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di città e legami produttori di amicizia. Allora Ermes domandò a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini la giustizia e il rispetto: “Devo distribuire questi come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite in questo modo: uno solo che possiede l'arte medica basta per molti che non la posseggono, e così è anche per gli altri che posseggono un'arte. Ebbene anche la giustizia e il rispetto debbo distribuirli agli uomini in questo modo, oppure li debbo distribuire a tutti quanti?”. E Zeus rispose: “A tutti quanti. Che tutti quanti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere città, se solamente pochi uomini ne partecipassero, così come avviene per le altre arti. Anzi, poni come legge in mio nome che chi non sa partecipare del rispetto e della giustizia venga ucciso come un male della città”.

domenica 3 luglio 2011

"Promessa" di Alexandros Panagulis


Le lacrime che dai nostri occhi
Vedrete sgorgare
Non crediatele mai
Segni di disperazione
Promessa sono solamente
Promessa di lotta

Considerazioni libere (241): a proposito di modelli di sviluppo...

Com’era facilmente prevedibile i mezzi di informazione non parlano praticamente più della cosiddetta “primavera araba”; qualche volta sono costretti a raccontare quello che succede in Libia, perché lì sono impegnati i nostri soldati, e in Siria, perché è davvero impossibile non dare testimonianza della dura repressione del regime della famiglia Assad. Questo atteggiamento era prevedibile perché in genere la classi dirigenti, a cui appartengono gli editori e i grandi giornali, preferiscono non enfatizzare troppo le rivoluzioni democratiche: la democrazia tende a essere contagiosa ed è naturale per loro fare tutto il possibile per non estendere il contagio. Per questo credo sia nostro dovere di donne e uomini della sinistra continuare a parlare di quello che sta avvenendo in quei paesi, utilizzare tutti gli strumenti che abbiamo - e la rete è probabilmente uno dei più efficaci - per non permettere che l’attenzione sia distolta per troppo tempo dalle storie di quelle persone.
Il 27 giugno scorso, tra l’indifferenza generale, 67 organizzazioni non governative, in rappresentanza di dodici paesi del mondo arabo, hanno reso pubblica una dichiarazione congiunta in cui hanno dato voce a tutte le loro preoccupazioni sui pacchetti di aiuti finanziari sponsorizzati dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, attraverso la Banca mondiale e il Fmi - che ora finalmente ha trovato una nuova guida, dopo le repentine dimissioni di Strauss-Kahn - per sostenere la transizione nei paesi della regione del Mediterraneo attraversati dalle recenti rivoluzioni popolari. Questi pacchetti rischiano di avere degli impatti negativi sui processi di transizione democratica e sconvolgere gli obiettivi di giustizia sociale ed economica che quelle rivoluzioni si erano date.
I cambiamenti democratici ricercati dalle popolazioni locali non saranno raggiunti con l’aumento degli aiuti legati a condizionalità politiche, ulteriori liberalizzazioni di commercio e investimenti, deregolamentazioni e ricette economiche molto ortodosse che hanno così tanto contribuito alle ingiustizie contro le quali si sono ribellati i popoli di Tunisia ed Egitto. Il percorso verso lo sviluppo passa necessariamente per la volontà dei popoli di ogni singolo Paese, attraverso un processo costituzionale e un dialogo nazionale.

Come ho già avuto modo di ricordare - credo che in questo caso non sia inutile sottolinearlo ancora una volta - su queste stesse istituzioni finanziarie internazionali ricade la responsabilità di aver promosso in maniera sistematica per anni gli ingiusti modelli economici che hanno portato all’impoverimento e alla marginalizzazione di molti paesi dell’Africa settentrionale e del Medio oriente. Nei giorni successivi alla rivolta in Tunisia molti leader internazionali hanno deplorato le scelte economiche del governo di Ben Ali, ma nel settembre 2010 il Fondo monetario internazionale lodava “l’adeguato modello di gestione macroeconomica della Tunisia e le riforme compiute nell’ultimo decennio”, chiedendo in proposito ulteriori riforme dello stesso stampo in merito “al contenimento della spesa pubblica sui salari, il cibo e i sussidi sui combustibili”. Ai nuovi governi di Tunisia ed Egitto i rappresentanti della Banca mondiale e del Fmi chiedono di continuare sulla stessa azione e condizionano l’erogazione degli aiuti, al perseguimento rigoroso di questi obiettivi. Di fatto questi organismi internazionali e i governi occidentali che li sostengono tendono a confondere la transizione verso la democrazia con quella verso le liberalizzazioni che servono ai loro interessi e non necessariamente a quelli delle persone a cui dovrebbero recare un beneficio.
Non è inutile sottolineare che di questi temi dobbiamo occuparci perché rischia di riguardare molto da vicino anche noi. Gli organismi internazionali stanno imponendo le stesse ricette alla Grecia, presto le imporranno alla Spagna e in seguito all’Italia. Indignarsi a quel punto sarà probabilmente tardi. Una volta si parlava di diversi modelli di sviluppo, ora questi discorsi sono stati sacrificati all'altare del pensiero unico liberista: è urgente ricominciare a riannodare i fili di quella discussione.

sabato 2 luglio 2011

"L'oblio è pieno di memoria" di Mario Benedetti


Ogni volta che ci danno lezioni di amnesia
come se mai fossero esistiti
i combustibili occhi dell'anima
o le labbra della pena orfana
ogni volta che ci danno lezioni di amnesia
e ci obbligano a cancellare
l'ebbrezza della sofferenza
mi convinco che la mia regione
non è la commedia di altri
nella mia regione ci sono calvari di assenza
moncherini di avvenire / sobborghi di lutto
ma anche candori di rosa muschiata
pianoforti strappalacrime
cadaveri che guardano ancora dai loro orti
nostalgie immobili in un pozzo d'autunno
sentimenti insopportabilmente attuali
che si negano a morire laggiù al buio

l'oblio è così pieno di memoria
che a volte non entrano le rimenbranze
e c'è da buttar rancori dal bordo
nel fondo l'oblio è un gran simulacro
nessuno sa ne può / malgrado voglia / dimenticare
un grande simulacro ripieno di fantasmi
questi pellegrini che viaggiano nell'oblio
come se fosse il cammino di Santiago

il giorno o la notte che scoppi l'oblio
che salti a pezzi o crepiti /
i ricordi atroci e di meraviglia
spezzeranno le sbarre di fuoco
trascineranno finalmente la verità per il mondo
e questa verità sarà che non c'è oblio.