martedì 31 maggio 2011

da "La zattera di pietra" di José Saramago


La razza degli inquieti, fermento del diavolo, non si estingue facilmente, per quanto si adoprino gli àuguri in pronostici. È lei che segue con gli occhi il treno che passa e si rattrista, nostalgica, per il viaggio che non farà, è lei che non può vedere un uccello nel cielo senza provare la bramosia di un volo alcionio, è lei che, nel dileguarsi di una barca all’orizzonte, libera dall’anima un sospiro tremulo, l’amata ha creduto perché fossero sì vicini, solo lui sapeva perché era sì lontano. Fu dunque uno di quegli insoliti e inquieti uomini che per la prima volta osò scrivere le parole dello scandalo, segnale di una evidente perversione, Nous aussi, nous sommes ibériques, le scrisse su un muro, in un angolino, timidamente, come chi, non potendo ancora proclamare il suo desiderio, non ce la fa più a nasconderlo. Essendo stato scritto, come si può leggere, in francese, si penserà che il fatto sia accaduto in Francia, è il caso di dire, Pensi ciascuno ciò che vuole, poteva esser successo anche in Belgio, o in Lussemburgo. Questa dichiarazione inaugurale dilagò rapidamente, comparve sulle facciate dei palazzi, sui frontoni, sull’asfalto delle strade, nei corridoi della metropolitana, sui ponti e sui viadotti, i fedeli europei conservatori protestavano, Questi anarchici sono pazzi, è sempre così, si fa scontare tutto all’anarchia.
Ma la frase oltrepassò le frontiere e dopo che le ebbe oltrepassate ci si accorse che, alla fin fine, era già comparsa anche negli altri paesi, in tedesco Auch wir sind Iberisch, in inglese We are iberians too, in italiano Anche noi siamo iberici, e di repente fu come una miccia, ardeva dappertutto a lettere rosse, nere, blu, verdi, gialle, viola, un fuoco che sembrava inestinguibile, in olandese e fiammingo Wij zijn ook Iberiers, in svedese Vi ocksa ar iberiska, in finlandese Me myoskin olemme iberialaisia, in norvegese Vi ogsa er iberer, in danese Ogsaa vi er iberiske, in greco Eímaste íberoi ki emeís, in frigio Ek Wv Binne Ibearies, e anche, sebbene con evidente timidezza, in polacco My tez jestes’my iberyjczykami, in bulgaro Nie sachto sme iberiytzi, in ungherese Mi is ibérek vagyunk, in russo My toje iberitsi, in rumeno Si noi sintem iberici, in slovacco Ai my sme ibercamia. Ma il culmine, l’auge, l’acme, parola rara che non torneremo a usare, fu quando tra le mura del Vaticano, sulle venerabili pareti e sulle colonne della basilica, sullo zoccolo della Pietà di Michelangelo, sulla cupola, a enormi lettere azzurro chiaro sul pavimento di Piazza San Pietro, la stessa identica frase apparve in latino, Nos quoque iberi sumus, come una sentenza divina al plurale majestatis, un manete celfares delle nuove ere, e il papa, dalla finestra dei suoi alloggi, la benediceva con genuino sgomento, faceva in aria il segno della croce, invano, ché questo è uno tra i colori più solidi, non basterebbero dieci congregazioni al completo, armate di paglietta d’acciaio e di liscivia, di pietra pomice e raspini, con l’ausilio di diluenti, qui ci sarà da lavorare fino al prossimo concilio.
Dalla sera al mattino l’Europa si svegliò coperta di queste scritte. Ciò che, all’inizio, forse era stato solo il mero e impotente sfogo di un sognatore continuò a dilagare fino a diventare grido, protesta, manifestazione di piazza.

Considerazioni libere (234): a proposito di giovani che protestano...

Come ho scritto nella mia ultima "considerazione", sta succedendo qualcosa in Europa, in particolare in Spagna. I giornali italiani, com'era facilmente prevedibile, hanno dato scarsissimo risalto alle proteste dei giovani spagnoli, che rappresentano invece una delle grandi novità politiche di questi anni, insieme alle rivolte dei loro coetanei arabi. Questi movimenti sono tra loro indipendenti, rispondono a problemi estremamente diversi - in Spagna non c'è il dramma della povertà che alimenta le rivolte nel nord Africa - eppure li unisce la voglia dei giovani, e delle giovani donne, di contare, di poter dire le proprie ragioni, in un mondo in cui comandano uomini vecchi.
Proprio perché se ne parla poco credo sia utile documentarsi. Ho trovato in rete il manifesto di Democracia Real YA!, il gruppo che ha animato la grande manifestazione del 15 maggio in Plaza de Porta del Sol, da cui è nata la protesta che ha portato a un presidio permanente nella stessa piazza di Madrid, con un effetto di contagio che ha interessato altre città spagnole ed europee. Lo potete leggere integralmente, qui ne riporto alcuni stralci, che mi pare meritino particolare attenzione.

Contro la disoccupazione
Ridistribuzione del lavoro stimolando la riduzione della giornata lavorativa e la contrattazione fino ad abbattere la disoccupazione strutturale (sarebbe a dire raggiungere un tasso di disoccupazione inferiore al 5%).
In pensione ai 65 anni e nessun aumento dell’età pensionabile fino all’eliminazione della disoccupazione giovanile.
Vantaggi per le imprese con meno del 10% di contratti a tempo.
Sicurezza nel lavoro
Divieto del licenziamento collettivo o per cause oggettive nelle grandi imprese che non siano in deficit, controlli fiscali alle grandi imprese per evitare il lavoro a tempo determinato quando invece potrebbero assumere a tempo indeterminato.
Reintroduzione dell’aiuto di 426 euro a persona/mese per i disoccupati storici.
Controllo delle banche
Divieto di qualsiasi tipo di salvataggio o iniezione di capitale pubblico. Le banche in difficoltà dovranno fallire o essere nazionalizzate per tramutarsi in banche pubbliche sotto controllo sociale.
Aumento della tassazione alle banche in forma proporzionale alla spesa sociale provocata a conseguenza della cattiva gestione finanziaria.
Restituzione alle finanze pubbliche dei prestiti statali concessi nel tempo.
Le banche spagnole non possono investire nei paradisi fiscali.
Sanzioni nei casi di cattiva prassi bancaria e di speculazione.
Fisco
Aumento delle detrazioni d’imposta sui grandi capitali e le entità bancarie.
Reintroduzione della tassa sul patrimonio.
Controllo reale ed effettivo sulle frodi fiscali e sulla fuga di patrimoni verso i paradisi fiscali.
Proporre la "Tobin tax" a livello internazionale.

Si tratta certamente di un programma ambizioso, ma, ad esclusione di alcuni punti, non rivoluzionario, né tantomeno velleitario. Certamente è un programma riformista, di sinistra - mi pare che i giovani "indignati" spagnoli non rifiutino questa etichetta, come fanno invece alcuni professionisti dell'indignazione italiani - un programma che mette al centro la responsabilità, dei politici, degli imprenditori e dei banchieri, ma anche dei semplici cittadini.
Non c'è il rifiuto della politica, dei partiti, della rappresentanza, ma c'è la richiesta di una nuova politica. I giovani spagnoli vogliono metterci la faccia e la maggiore critica che rivolgono alla loro classe politica, in particolare al Psoe, è quella di aver accettato supinamente, senza assumersene appunto la responsabilità, le soluzioni elaborate dalla Banca centrale e dal Fondo monetario internazionale, soprattutto di essersi piegati alla cultura ultraliberista, che sta dietro quelle scelte. Chiedere che le banche rispondano in solido dei loro errori non è comunismo, ma appunto etica della responsabilità, un concetto che si può ritrovare in un sovversivo come Adam Smith, ad esempio.
Quello che preoccupa è che questi ragazzi, con le loro tesi, non riescano a trovare interlocutori nei partiti che tradizionalmente rappresentano la sinistra. La protesta però, grazie anche alla potenza della rete, sembra possa dilagare. Noi, più vecchi, che non riusciamo più a passare le notti nelle piazze, possiamo sostenere la protesta, possiamo diffondere i messaggi, possiamo continuare a parlare, a far circolare le idee. Forse non è poco.

domenica 29 maggio 2011

Considerazioni lbere (233): a proposito di Grecia, di Spagna e anche d'Italia...

L'eccezionalità di quello che sta succedendo nell'Africa settentrionale e nel Medio Oriente ci ha forse fatto trascurare quello che sta avvenendo in Europa, in particolare in quei paesi che si affaccianno sul Mediterraneo. In Italia in particolare, visto che le cronache da quasi vent'anni sono dominate, nel bene e nel male, da B., abbiamo l'impressione che non succeda mai nulla.
Il Mediterraneo, un mare così ricco di storia e di storie, dopo molti anni di oggettivo oblio geopolitico, torna ad acquisire una sua centralità, legata alle crisi che colpiscono i paesi a nord e a sud delle sue coste e soprattutto al fatto di essere il crocevia obbligato per migliaia e migliaia di migranti, di donne e di uomini in cammino, troppo spesso in fuga dai loro paesi. Forse il Mediterraneo sta tornando a essere un elemento di unione, piuttosto che di divisione; credo però che questo sia un tema eccessivamente ambizioso per queste "considerazioni", che immagino sarà oggetto di studio e di analisi degli storici dei decenni che verranno.
Torniamo all'oggi. A causa della crisi economica e degli attacchi degli speculatori al debito dei paesi europei, ormai da diversi mesi la Grecia è un paese "a sovranità limitata", la cui politica economica è di fatto commissariata dai tecnici della Commissione europea, della Banca centrale, del Fondo monetario internazionale. Questa affermazione, che può essere letta in qualunque giornale, è un dato di fatto e ci sembra dica tutto, mentre in realtà omette molte informazioni. La crisi greca infatti non è un fenomeno naturale, le cui cause si possono analizzare in maniera scientifica e asettica. Francamente non basta dire che gli speculatori hanno attaccato l'euro e hanno approfittato della debolezza dell'economia greca, bisogna dire chi sono questi speculatori; non è un terremoto, non è un'inondazione, sono persone, in carne e ossa, che stanno gettando nel baratro l'economia di un paese e condizionando la vita di milioni di altre persone, anch'esse in carne e ossa. Giustamente facciamo ogni sforzo, anche militare, per costringere Gheddafi a lasciare il governo della Libia, lo vogliamo catturare e portare di fornte a una corte internazionale; altrettanto giustamente per quasi dieci anni abbiamo cercato dove si nascondeva Osama bin Laden e, una volta che lo abbiamo trovato, lo abbiamo ucciso. Questi fantomatici speculatori internazionali sono meno pericolosi di Gheddafi o di bin Laden? Cosa stiamo facendo contro di loro? Li stiamo cercando? Pensiamo di catturarli e di portarli davanti a una corte internazionale?
Altrettanto anonimi purtroppo sono i fantomatici esperti degli organi finanziari internazionali. Chi sono? Qualcuno li ha eletti e qualcuno li può revocare? A chi rispondono? Sono anche loro persone in carne e ossa, anche se troppo spesso le loro decisioni vengono assunte con l'ineluttabilità dei fenomeni naturali. E con la forza e la durezza di fenomeni naturali molto spesso queste decisioni si sono abbattute sulla vita di milioni e milioni di persone, come ben sanno le donne e gli uomini nei paesi in via di sviluppo. Dietro una parvenza di apparentemente neutro tecnicismo, ci sono linee politiche e culturali ben precise: l'idea che il mercato sia un valore in sé, assolutamente positivo, il cui libero dispiegarsi può risolvere ogni problema. E così speculatori e tecnici delle organizzazioni internazionali finiscono per essere le due facce della stessa medaglia.
Faccio una piccola digressione, legata all'attualità. Al di là del giudizio sull'uomo Strauss-Kahn, che è molto negativo, per le ragioni che ho già spiegato nella mia precedente "considerazione", anche il mio giudizio sul politico fatica a essere positivo: il socialista Strauss-Kahn non ha avuto la forza e, temo, la voglia, di modificare le linee ultraliberiste del Fondo monetario.
Torniamo al tema. Le misure imposte alla Grecia dagli organi internazionali hanno avuto conseguenze durissime: il taglio del 20% dei salari per almeno la metà dei lavoratori, l'abolizione delle tredicesime e di ogni altra forma di incentivazione, l'introduzione massiccia di contratti "atipici" e la crescente precarietà del lavoro, il blocco di tutti gli investimenti pubblici. Come è già avvenuto nel resto del mondo - ad esempio ad Haiti - la cura sta rischiando di uccidere il paziente: la disoccupazione colpisce quasi un quinto della popolazione, il Pil non cresce, il governo greco non è in grado di onorare il debito che gli è stato imposto. E qui si sfiora il paradosso: grazie ai "buoni uffici" dei tecnici degli organismi internazionali, la Grecia si trova a essere debitrice di quelle stesse banche internazionali che sono responsabili della sua crisi. Così le banche non solo non hanno pagato dazio, ma sono riuscite a scaricare i loro debiti sulle spalle dei greci.
La mafia sa che deve esserci un limite alle estorsioni, se vuole continuare a incassarle: un ricattato fallito smette di pagare; Banca centrale e Fondo monetario sembrano non conoscere neppure questa elementare regola della malavita. Di fronte all'inevitabile insolvenza greca, i debiti stanno venendo rinegoziati e alla Grecia sarà imposto un nuovo piano di interventi sull'economia: la diminuzione di 150mila posti di lavoro nel settore pubblico, il taglio del 20% al salario minimo d'ingresso per i giovani. Inoltre si impone un ampio piano di privatizzazioni, dalla rete delle telecomunicazioni al porto del Pireo; alla fine è facile immaginare che i compratori saranno le stesse banche o multinazionali da loro finanziati, che godranno anche di queste nuove risorse.
Per il Portogallo e l'Irlanda si sta delineando lo stesso scenario. Il "piano di salvataggio" elaborato dai soliti anonimi tecnici è già pronto: è sufficiente sostituire la parola "grecia" e aggiornare qualche numero nelle presentazioni in powerpoint. E' una facile profezia ipotizzare che alle stesse soluzioni faranno seguito gli stessi esiti. Poi sarà la volta della Spagna e quindi dell'Italia, per completare il "giro del Mediterraneo".
Il rapporto Istat, presentato in questi giorni a un parlamento disattento, disegna un quadro preoccupante: il 24,7% degli italiani, praticamente uno su quattro, è a rischio povertà o di esclusione sociale; nel biennio 2009-2010 nel sud 280mila persone hanno perso il lavoro, nel nord 228mila; il 12,2% di chi lavora lo fa in nero; il 5,5% ha dichiarato che nel 2010 non ha avuto i soldi per comprare il cibo, l'11% per le medicine, il 17% per i vestiti. Questi sono soltanto i dati più eclatanti, che hanno meritato il titolo dei giornali per un giorno e poi sono stati dimenticati.
In questi dati c'è una proposta politica, è un programma già fatto. Qualcuno in Spagna si è indignato - di questo proverò a scrivere in una prossima "considerazione" - qui mi pare che il risveglio sia decisamente più lento.

"Non sono invincibili samurai" di Walter Tobagi

questo articolo è stato pubblicato su "Il Corriere della sera" il 20 aprile 1980; Walter Tobafi fu ucciso il 28 maggio di quello stesso anno

Se tentiamo di ragionare sui frammenti di verità che la cronaca ci offre in questi giorni, dobbiamo confessare una sensazione: pare proprio che il terrorismo italiano, almeno quello delle Brigate rosse, sia giunto a un tornante decisivo. Le notizie delle ultime ore, la tragedia dell’avvocato Arnaldi a Genova o l’arresto di Sergio Spazzali a Milano, sembrano iscriversi in quel filone aperto da Peci e dagli altri brigatisti pentiti. E ancor più colpiscono gli squarci che ci aprono nel tessuto dell’organizzazione terrorista, dopo gli arresti in fabbrica. Impressiona l’ex operaio della Lancia, Domenico Iovine, che legge un proclama di adesione alle Br nel tribunale di Biella. Impressiona la ragazza di Torino, Serafina Nigro, che si premura di spiegare la specializzazione del suo lavoro nelle Br, «settore informazioni su carabinieri, polizia, magistratura e agenti di custodia».
È tanto estesa, dunque, l’organizzazione brigatista o non ci si trova di fronte a un gioco degli specchi per cui un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito? A voler essere realisti, si deve dire che il tentativo di conquistare l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal grosso della classe operaia. Epperò sono riusciti a penetrare in alcune zone calde di grandi fabbriche, come è successo alle Presse o alle Carrozzerie della Fiat. Si è scoperto che il terrorista non esita ad acquattarsi sotto lo scudo protettivo delle confederazioni sindacali e perfino del Partito comunista. Anzi, il brigatista Iovine ha strettamente legato la milizia clandestina con le lotte sindacali più dure alla Fiat, i blocchi stradali del luglio scorso, i cortei nell’azienda.
Si assiste, insomma, al tentativo fin troppo chiaro: il brigatista cerca di far vedere che la sua lotta armata può essere la continuazione dell’azione in fabbrica. È una mossa spregiudicata; i sindacalisti e la stragrande maggioranza dei lavoratori la respingono. Ma non c’è dubbio che questa linea delle Br costringe a rifare i conti con una realtà complessa: non serve parlare di fascisti travestiti, quando le biografie personali di capi brigatisti come Lorenzo Betassa o Riccardo Dura rivelano una lunga militanza nel sindacato e in altri gruppi di vecchia o nuova sinistra. L’interrogativo da porsi è un altro: come mai certi lavoratori hanno fatto il salto terribile? Qual è la molla decisiva? Questo è il terreno inesplorato, e forse converrebbe mettere un po’ da parte la discussione sulle matrici ideologiche e preoccuparsi delle ragioni individuali, magari psicologiche.
Stupisce sapere, come si è detto in questi giorni, che la mitica direzione strategica delle Brigate rosse sarebbe formata da non più di cinque persone: gli operai Betassa e Dura, il tecnico Moretti, la maestrina Balzarani e l’ex cameriere Peci. E fra loro, solo Moretti avrebbe collegamenti col supervertice politico, il sinedrio occulto dei capi di tutti i capi. In ogni caso, conviene non cadere nelle facili mitologie per cui uno diventa l’inafferrabile e l’altra l’onnipresente. Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili.
Guardare in faccia la realtà significa non nascondersi il proselitismo che i gruppi armati hanno realizzato nelle fabbriche. Quanti dovevano essere, in febbraio all’Alfa Romeo, per compiere l’agguato contro un dirigente dentro lo stabilimento? Quanti dovevano essere, alla Lancia di Chivasso, per scrivere «onore ai compagni caduti» sui muri della fabbrica dove aveva lavorato Piero Panciaroli, uno dei quattro uccisi nell’appartamento di via Fracchia? E la stessa domanda bisogna porsela per gli striscioni da campagna elettorale che hanno attaccato giovedì sul cavalcavia di Genova e venerdì davanti alla Breda e alla Magneti Marelli di Sesto.
Intendiamoci: le Brigate rosse si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale. Però chi vuol combattere seriamente il terrorismo non può accontentarsi di un pietismo falsamente consolatorio, non può sottovalutare la dimensione del fenomeno.
In questo senso, la scoperta dei brigatisti mascherati da delegati sindacali è stato uno choc violento, tale da amplificare il clima di sospetto. L’Adriano Serafino, sindacalista di punta fra i metalmeccanici torinesi, ha raccontato un paradosso attorno al quale si è discusso seriamente: «Se arrestassero il segretario del sindacato, noi che faremmo? Andremmo davanti alle carceri con un corteo di protesta, o sospenderemmo il segretario dall’organizzazione?». L’interrogativo nasce da una considerazione: «Il segretario del sindacato è il più insospettabile. Ma proprio perché è il più insospettabile può essere ance il più sospettato».
Paradossi a parte, gli arresti di Torino e Biella impongono al sindacato di riconsiderare dieci anni di storia. La fabbrica è diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici. I brigatisti hanno cercato d’inserirsi in questo processo, in parte raccogliendo il consenso delle avanguardie più intransigenti.
Giova rileggere e meditare quel che ha detto il giurista Federico Mancini, a un recente convegno Uil: «Le lotte 1969-72, proprio perché così estese e antagoniste, mobilitarono militanti in eccesso: col risultato che nel ’73, quando il sindacato cambiò strategia, molti di loro – esperti com’erano di un solo mestiere, la lotta – continuarono a correre». Si determinò un «sovrappiù di militanti», che in parte trovarono sbocco nei nuclei clandestini. E Piero Fassino ha scritto su Rinascita: «Il terrorista può vivere e alimentarsi in fabbrica solo su obiettivi che richiedano, per essere perseguiti, il ricorso a forme di illegalità».
La lezione pare fin troppo chiara: le lotte sindacali più dure, quelle oltre i limiti convenzionali della legalità, sono servite agli arruolatori delle Br come un primo banco di prova e di selezione. Il sindacato dovrà tenerne conto, giacché i proclami nobili vanno accompagnati con revisioni coerenti. Questo può implicare anche una temporanea diminuzione del potere sindacale in fabbrica. Ma la scelta non ammette grandi alternative, se è vero come è vero (e tutti i dirigenti sindacali lo ripetono) che il terrorismo è l’alleato «oggettivamente» più subdolo del padronato, e se non viene battuto può ricacciare indietro di decenni la forza del movimento operaio.
La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare. Tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato.

mercoledì 25 maggio 2011

"Alcuni" di Giovanni Giudici


Alcuni inseguono tutta la vita
uno scopo – il disegno di un meccanismo
un seme particolare di grano un incrocio di canarini
l’attuazione di un piano la costruzione di una casa.

Alcuni in abitazioni private o in asili
psichiatrici ritentano solitari di carte
o calcoli di moto perpetuo o altre
più improbabili imprese come rivoluzioni.

Essi sono uomini o donne derisi
o tutt’al più gentilmente commiserati
sia perché l’ambizione che li muove si giudica eccessiva
sia perché appare futile l’obiettivo.

Ma io voglio dire che al confronto
non c’è impresa spaziale né invenzione
pari all’attento studio di costoro che sacrificano
alla cosa impossibile ogni raggiungibile piacere.

Essi hanno parenti amici e figli madri e padri
mogli e mariti hanno maestri e direttori di coscienza
che accampano più esperienza
e che li esortano alla quotidiana concretezza.

Essi come ognuno di noi hanno persone e cose
di cui la presenza stessa ha forza più delle parole
e gli argomenti risultano inoppugnabili
quando gli dicono – pensa a quel che fai.

Non c’è dubbio – i persuasori sono nel giusto
perché è senza conforto lo stato di questi ostinati
e agitato è il loro sonno scarsa la salute del corpo
e non hanno alleata la minima probabilità.

Non è il loro coraggio coraggio di giocatore
o rischio calcolato di trafficante
e nemmeno intuito di stratega o di capo politico
o di chirurgo all’unica estrema occasione.

Essi non hanno con sé la tradizione di una fede
anzi tradiscono a volte
sovvertono la morale fomentano il disordine
in se stessi perduti prima di ogni salvezza.

E non possono indicarti il nome di qualcuno
perché non ha fama chi è nella vera ignominia
né superbia di martirio né la gloria di un emblema
ma grazie ad essi ha un senso la specie uomo.

Pensando di loro ti scrivo queste parole
oggi che dirci insieme è dire nessuna speranza
sbarrati da ogni saggezza sbarrati dalla storia
ormai più di passato che di futuro nutribili.

E chiamandoti a un futuro di penuria
io chiedo la tua insania perché la mia abbia forza
perché si possa dire che è una cosa reale
quella che due distinte persone vedono identica.

E tutto questo è ancora poco al confronto
del nulla di chi insegue un solitario ideale.
Essere umani può anche significare rassegnarsi.
Ma essere più umani è persistere a darsi.

lunedì 23 maggio 2011

Carlo Rosselli commemora Antonio Gramsci il 23 maggio 1937 a Parigi

Il 27 aprile 1937 Antonio Gramsci moriva a Roma, vittima dei duri anni di prigione fascista, diciassette giorni dopo questo discorso Carlo e Nello Rosselli furono uccisi in Francia su mandato di Mussolini.

Gramsci e Mussolini: quale contrapposizione tra di loro! Non solo di destino e di fede politica, ma di tempra morale. Sono due mondi che si contrappongono, due concezioni antitetiche della vita e dell'uomo.
L'uno, Mussolini, esteriore, irrazionale, improvvisatore, demagogo, avventuriero, traditore dell'ideale della sua giovinezza, trionfante sulle piazze, con tutta una schiera di poliziotti per salvarlo dall'odio del popolo.
L'altro, Gramsci, intimo, riservato, razionale, severo, nemico della retorica e di ogni tipo di faciloneria, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella con una schiera di poliziotti per sottrarlo alla solidarietà, all'amore del popolo.
Per l'uno niente vale se non il successo, niente conta se non la forza. Purché si arrivi al vertice del potere, purché si domini, ogni mezzo è buono. Le idee, i principi, gli uomini non sono che mezzi per l’affermazione del proprio io, strumenti del successo individuale.
Per l'altro al contrario niente vale se non la coerenza, la fedeltà a un ideale, a una causa che vive per sé medesima, indipendentemente dal successo, dall'interesse della propria persona; tutto è in lui ispirato da questo universalismo, da questo distacco che è proprio degli esseri superiori, nei quali il sociale prevale sull'individuale, l'altruismo e l'umano sull'egoismo e la bestia.
L'ideale lo si serve, non ci si serve di esso. E, se necessario, si muore per esso, con la semplicità di un Gramsci, piuttosto che continuare a vivere perdendo la ragione di vivere. Chi dei due vincerà ?
Non c'è che da tornare alla storia, alla vostra storia francese. Le dittature passano, i popoli restano. La libertà finirà sempre per trionfare.
Centinaia, migliaia di giovani, formatisi alla scuola di Gramsci, di Gobetti, di Matteotti, riempiono oggi le prigioni e le isole d'Italia. Una opposizione nuova, una Italia nuova è in procinto, silenziosamente, di sostituirsi alla vecchia. Ciò che impressiona è la sua semplicità, la sua calma. Giovani, soprattutto operai, intellettuali partecipano alla lotta clandestina sapendo che un giorno la polizia verrà e li arresterà. Dopo uno, due, tre anni di isolamento, davanti al tribunale speciale. Nessuno parlerà di essi. Spariranno nel gorgo, entreranno nella grande legione dei precursori. In prigione, studieranno, divideranno fraternamente il poco di vettovaglie che l'amministrazione fornisce. Quando usciranno, ricominceranno.
Qualche giorno fa il tribunale speciale ha condannato per la seconda volta un giovane compagno di nome Scala. Egli era stato arrestato una prima volta come studente, con altri studenti e condannato a cinque anni. Questa volta è stato condannato a dodici anni. E con lui c'erano degli operai. Il legame storico tra proletariato e intellettuali è fatto.
E' questa nuova opposizione, questa nuova Italia che vincerà finalmente il fascismo, che noi vi domandiamo di conoscere, di appoggiare, di difendere, compagni di Francia.
Essa lotta non soltanto per la libertà d'Italia, essa lotta per la libertà e per la pace del mondo. Essa muore in prigione, essa muore, armi in mano, in Spagna.
Ma essa vivrà domani, essa vincerà domani, quando sulle rovine del fascismo, sorgerà il mondo nuovo sognato da Gramsci.

domenica 22 maggio 2011

"Il giorno ad urlapicchio" di Fosco Maraini


Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m'hai detto "t'amo per davvero".

grazie a Zaira (lei sa perché)...

sabato 21 maggio 2011

Considerazioni libere (232): a proposito di chi merita davvero la nostra solidarietà...

Non conosco personalmente Dominique Strauss-Kahn, so di lui quello che sa una persona che legge i giornali con una qualche attenzione. So che è stato un bravo ministro dell'economia nel governo socialista di Lionel Jospin, so che è stato l'autorevole direttore generale del Fondo monetario internazionale, so che era il più accreditato candidato del Partito socialista per le prossime elezioni presidenziali. So anche che aveva fama di essere un amante del bel vivere e delle belle donne e so che ha avuto una vita politica contrassegnata da alti e bassi, e - a onor del vero - da questi ultimi è sempre uscito con rinnovato prestigio. Se fossi francese avrei preferito un candidato socialista con una storia politica diversa, più marcatamente di sinistra, come credo siano Martin Aubry o Bertrand Delanoë, ma avrei certo votato per Strauss-Kahn, se alla fine fosse stato lui il candidato del partito contro Sakozy. Questa premessa per anticipare, visto quello che dirò dopo, che non ho una posizione preconcetta contro Strauss-Kahn.
Immagino che chi lo conosce, tanto più se si considera suo amico, possa dare un giudizio ben più articolato delle notizie che si possono raccogliere nella voce a lui dedicata su Wikipedia e negli articoli dei giornali. Vale per Strauss-Kahn ciò che vale per ciascuno di noi, ci sono persone che ci conoscono molto bene, nei nostri pregi e nei nostri difetti, e ci sono persone che ci conoscono più o meno superficialmente, per quello che facciamo e diciamo. Certamente i primi hanno elementi di giudizio in più, ma sono tutti gli altri che fanno la cosiddetta opinione pubblica. E di questi bisogna tenere conto.
Come è noto il 14 maggio scorso Strauss-Kahn è stato arrestato dalla polizia di New York con l'accusa di tentata violenza sessuale e a questo punto è scoppiato il "caso Dsk". Non mi interessa in questa sede commentare i risvolti legati alle manovre per la nomina del nuovo direttore del Fmi né i problemi emersi nel mondo della finanza internazionale; non è il mio campo.
Sui mezzi di informazione è partito un dibattito su come la polizia e la pubblica accusa hanno operato, mostrando una durezza che ad alcuni commentatori pare sproporzionata: Strauss-Kahn è stato trattato come un delinquente comune, le sue immagini al momento dell'arresto sono state date in pasto all'opinione pubblica, la concessione degli arresti domiciliari è arrivata dopo alcuni giorni di prigione e comunque sottoposta a vincoli molto stretti. Questa campagna a favore di Strauss-Kahn e contro i metodi della giustizia statunitense è stata alimentata soprattutto dagli amici dello stesso Strauss-Kahn, intellettuali della gauche francese, persone che conoscono bene l'uomo Dominique e, in base a questa conoscenza diretta, sono pronti a sostenere che si tratta di accuse infondate. Naturalmente queste persone hanno tutto il diritto di difendere il loro amico, che ritengono accusato ingiustamente. Capisco meno la posizione di tutti quei commentatori che, non conoscendo Strauss-Kahn, si sono prontamente schierati dalla sua parte. Nei commenti c'è di tutto: giudizi sul puritanesimo americano, analisi sul sistema giudiziario e sul contrasto tra diritto alla riservatezza e dovere della pubblicità, interpretazioni sociologiche sul ruolo dei cosiddetti "potenti"; è stato tirato in ballo il fatto che Strauss-Kahn è di origine ebraiche e naturalmente sono intervenute anche le numerose ex, alcune di grande fama e dalla penna facile. Tutto per difendere Strauss-Kahn.
In un processo non devono esserci tifoserie e io non voglio fare il tifo per nessuno, ma credo che tutti quelli che si sono occupati - e si occuperanno - del caso dovrebbero comunque partire dall'assunto che c'è una vittima e c'è un presunto colpevole. E Strauss-Kahn non è la vittima. La vittima è, come spesso accade, una donna. I giudici competenti decideranno se c'è stato un tentativo di stupro: io non lo so, vorrei non ci fosse stato perché credo che per una donna sia un dolore terribile e spero che quella donna non l'abbia provato. Sicuramente c'è stato un rapporto sessuale, lo ammette lo stesso Strauss-Kahn; per il mio modo di vedere, non è stato un rapporto tra pari, tra due persone che decidono, entrambe, di fare sesso con un'altra persona, per amore o per soddisfare un desiderio, un capriccio, una pulsione, in qualsiasi modo vogliate chiamarlo. Il rapporto sessuale tra un uomo e una prostituta è certamente consensuale, ma non è mai un rapporto tra pari; è un rapporto tra una persona che ha il potere, nella fattispecie i soldi, e una persona che non ha lo stesso potere. Nella prostituzione c'è una persona che domina - praticamente è sempre un uomo, e anche questo dovrebbe far riflettere - e una persona che è dominata - donna o uomo che sia. Nei casi migliori, quelli in cui chi si prostituisce ha una maggiore consapevolezza di quello che sta facendo, può essere definito un rapporto commerciale, ma anche in questo caso non è un rapporto tra pari.
Siamo realisti: se c'è stato un rapporto sessuale tra l'ospite di una lussuosa suite di un albergo di Manhattan e la cameriera non si è trattato di un fatale colpo di fulmine, modello film hollywoodiano. Se Strauss-Kahn ha ottenuto quel rapporto con la forza è ancora più odioso - e giustamente deve essere punito, con severità - ma in ogni caso la sua incapacità di contenersi e soprattutto il suo disprezzo per il corpo delle donne gli devono impedire di continuare l'attività politica. Non si tratta di ipocrisia: non può essere il presidente di tutti i francesi, chi non può essere il presidente delle francesi.
La cosa che mi fa ancora più arrabbiare è che la difesa ad oltranza che troppe persone, anche a sinistra, fanno di Strauss-Kahn finisce per indebolire tutte le donne vittime di stupri e di violenze. Quante volte abbiamo sentito frasi del tipo "se non si fosse messa la minigonna", "se non fosse uscita da sola" e potrei andare avanti per ore, dimenticando le vittime e in qualche modo solidarizzando con il colpevole. Ancora adesso, a un mese dall'omicidio di Melania Rea, nonostante emerga un quadro familiare ben chiaro, in cui lei è stata continuamente vittima dei tradimenti da parte del marito, alla donna si imputa la troppa bellezza. Ricorderete certamente i commenti dei primi giorni dopo il ritrovamento del cadavere: secondo i "comari" dei giornali e delle televisioni Melania era troppo bella e quindi la si immaginava fedifraga, con la conclusione che era stata uccisa dall'amante e quindi, in qualche modo, se l'era cercata.
Chiunque voglia affrontare il "caso Dsk", dovrebbe non dimenticare che c'è una persona che in questa storia ha sofferto e soffre più di lui.

venerdì 20 maggio 2011

"La notte è parallela al giorno" di Paolo Volponi


La notte è parallela al giorno;
ne sostiene l’anelante
andatura
istante per istante.
La notte è più grande e sottile
e cede senza paura
a ogni sporgenza vile
del giorno.
La notte non è sicura,
proprio come un soggetto
che cerca sempre misura
fra origine e ritorno.
Il giorno invece è un oggetto
che pesa e si oppone intorno
alla sua stessa parvenza.
Il giorno finisce
senza…
La notte è immortale,
e non concepisce,
quale vestale
della propria assenza
continua che compatisce.

mercoledì 18 maggio 2011

Considerazioni libere (231): a proposito di chi ha vinto e di chi ha perso...

Onore al merito a Bersani - per inciso l'imitazione di Crozza gli sta facendo un gran bene - che è riuscito a imporre con una battuta l'esito delle ultime elezioni amministrative: "Vinciamo noi, perdono loro". "Loro" hanno farfugliato che, a parte Milano, è stato un pareggio, affermazione ridicola e ingenua, sbeffaggiata con ironia da una vignetta di Vincino sul Corriere: a uno che gli chiede come è andata, un malconcio B., in divisa e feluca napoleoniche, risponde: "E' stato un pareggio. Eccetto Waterloo, è stato un pareggio". Il fatto che la battuta sia efficace non significa che sia vera e infatti non lo è, o lo è solo in parte. Certamente "loro" hanno perso, ma "noi" non abbiamo proprio vinto, piuttosto abbiamo perso un po' meno. Alle elezioni questo basta e facciamo bene quindi a essere contenti, ma non smettiamo di ragionare.
Cominciamo a guardare i numeri, che sono fondamentali in qualunque elezione: i numeri veri, i voti, perché le percentuali a volte possono giocare brutti scherzi. Se si considerano le 13 città più grandi in cui si è votato, il centrodestra ha perso 56mila voti rispetto alle precedenti comunali, mentre il centrosinistra ne ha persi ben 175mila; se si considerano invece le regionali dell'anno scorso - il dato è più significativo, perché da un anno all'altro il quadro politico cambia velocemente - il centrodestra perde circa lo stesso numero di voti, ossia 57mila, mentre il centrosinistra ne guadagna 66mila. Qui c'è una prima inversione di tendenza, il segno che qualcosa è cambiato; è difficile che ci sia stato un travaso di voti da uno schieramento all'altro - tanto più in una situazione di così accesa conflittualità - ma probabilmente il centrosinistra adesso riesce meglio del centrodestra a mobilitare i propri elettori di riferimento.
Vediamo ora qualche situazione più concreta. Il centrosinistra a Milano è passato da 270mila a 281mila voti, un risultato importante, di cui va dato merito a Giuliano Pisapia, ma non ha sfondato, ha sostanzialmente tenuto le proprie posizioni; il centrodestra è sceso invece da 328mila a 257mila voti: sono queste 70mila persone che hanno deciso di non votare la Moratti ad aver cambiato radicalmente il quadro politico milanese, e forse italiano. A Bologna il centrosinistra ha vinto al primo turno, mantenendo quasi tutti i propri voti (solo 1.319 in meno); il centrodestra bolognese ne ha persi invece quasi 10mila. A Torino hanno perso voti sia il centrodestra che il centrosinistra - rispettivamente 19mila e 16mila - e quindi si è mantenuto l'equilibrio che ha permesso a Fassino di vincere al primo turno. A Napoli il centrodestra ha mantenuto i suoi voti (solo 902 in più), mentre il centrosinistra ne ha persi circa 90mila; non c'è nessun "effetto B.", sono i napoletani del centrosinistra che hanno girato le spalle a un gruppo dirigente in cui non si riconoscono più.
Alla luce dei numeri credo sia chiaro che la situazione per il centrosinistra continua a essere difficile. C'è poi la situazione particolare del Pd, che non esce rafforzato dal voto. Se gurdiamo le singole situazioni, ha vinto il centrosinistra più che il Pd.
Di Pisapia ho già parlato in un'altra "considerazione" - la nr. 178 del 16 novembre - commentando con favore la sua vittoria alle primarie e la stupidità del gruppo dirigente del Pd di non averlo scelto da subito come proprio candidato. Pisapia è certamente un uomo di sinistra, ma non è un radicale; viene dalla grande borghesia milanese e infatti è stato un grave errore della Moratti e dei suoi consiglieri presentarlo come un estremista. Pisapia, per storia personale, per convinzioni, per quello che ha detto e ha fatto, non può essere considerato come il candidato della sinistra radicale, e i milanesi, che lo conosco, lo sanno benissimo; per questo ha probabilità di vincere le elezioni. Pisapia, indipendentemente dal fatto che sia stato indicato da questo o quel partito, e anche indipendentemente dall'esito del ballottaggio, è stato un ottimo candidato, perché conosce la città, ci ha vissuto e lavorato, è conosciuto come una persona seria e soprattutto si sa che se sarà sconfitto continuerà a fare politica a Milano, come ha sempre fatto.
Le elezioni, tanto più le elezioni amministrative, si vincono quando si candidano persone in grado di vincerle: sembra una banalità, mi rendo conto, ma troppe volte è un assunto che si dimentica. A Torino le elezioni non le ha vinte tanto il Pd quanto Piero Fassino, che è una persona seria, che i torinesi conoscono molto bene, che non ha mai smesso di occuparsi della sua città, anche quando ha avuto altri incarichi. Non si diventa sindaco in una grande città, complessa come Torino, con una percentuale di oltre il 56% se non si è molto stimati, al di là delle opinioni politiche. A Cagliari - se ne parla meno, ma è un risultato altrettanto importante di quello di Milano - il centrosinistra ha costretto il centrodestra al ballottaggio, candidando un giovane, Massimo Zedda, indicato dal partito di Vendola. A Napoli, come in altre realtà del Mezzogiorno, il Pd può difficilmente essere considerato ancora un partito; si tratta ormai di un guscio vuoto, un'insegna, che raccoglie i comitati elettorali di questo e di quel notabile locale, con il loro pacchetto di tessere, con i loro clientes, con i loro interessi, più o meno leciti. Di questo Bersani e il gruppo dirigente nazionale deve occuparsi da subito, se non si vuole che la situazione degeneri ulteriormente.
Per avere un quadro completo di questa tornata elettorale primaverile, bisogna aspettare l'esito dei ballottaggi e anche dei referendum di giugno. Io sono convinto che qualcosa succederà, anche se non immagino cosa. Qualcosa questo primo turno ha detto: i cittadini chiedono chiarezza di posizioni e serietà. Il centrosinistra riesce ancora a esprimere, più del centrodestra, candidati seri, conosciuti e riconosciuti dai loro concittadini, persone che mantengono gli impegni. Fatica a esprimere chiarezza di posizioni, rimane - almeno per me, sapete come la penso - il "peccato originale" della nascita del Pd; c'è spazio a sinistra. Magari comincerà a delinearsi da Milano.

lunedì 16 maggio 2011

"Non interpretate i nostri sogni nei libri dei sogni" di Alikadic Bisera


Fra l'altro
Nei sogni dei sarajevesi
La frutta è semplicemente frutta
Nei sogni delle donne di Sarajevo
La carota è solo carota
Nei sogni dei bambini
Gli assassini sono davvero assassini
Per interpretare i nostri sogni
Non cercate i libri dei sogni
Fra il sogno è la realtà
Da noi non c'è confine
Noi siamo super reali
E super surreali
Noi siamo un orientamento estetico
Che si scrive
Con i cocci del corpo
Di qualche nostro morto
Non è rimasto nemmeno il cadavere
Frantumato dall'artiglieria
E' volato direttamente al cielo
Solo il grido

domenica 15 maggio 2011

"Piove" di Eugenio Montale


Piove. È uno stillicidio
senza tonfi
di motorette o strilli
di bambini.

Piove
da un cielo che non ha
nuvole.
Piove
sul nulla che si fa
in queste ore di sciopero
generale.

Piove
sulla tua tomba
a San Felice
a Ema
e la terra non trema
perché non c'è terremoto
né guerra.

Piove
non sulla favola bella
di lontane stagioni,
ma sulla cartella
esattoriale,
piove sugli ossi di seppia,
e sulla greppia nazionale.

Piove
sulla Gazzetta Ufficiale
qui dal balcone aperto,
piove sul Parlamento,
piove su via Solferino,
piove senza che il vento
smuova le carte.

Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l'assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l'ha ordinato.

Piove sui nuovi epistèmi
del primate a due piedi,
sull'uomo indiato, sul cielo,
ottimizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui works in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgocciola
sulla pubblica opinione.

Piove, ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.

sabato 14 maggio 2011

Considerazioni libere (230): a proposito di scuole, di test, di pagelle...

Ammetto che sto per scrivere questa "considerazione" sui test Invalsi e sulla protesta che ha suscitato nel mondo della scuola la loro introduzione, senza avere una conoscenza approfondita della materia. Più o meno come la gran parte degli autorevoli commentatori - con poche lodevoli eccezioni - che ne scrivono sui giornali; io almeno ho l'attenuante - di cui mi avvalgo fin d'ora - che queste righe rimangono sostanzialmente clandestine, circoscritte nell'ambito dello stretto numero di lettrici e di lettori, che mi segue con affetto. E di questo affetto abuso, ogni tanto, per scrivere cose un po' meno meditate.
Non ho figli né nipoti e quindi la mia conoscenza della scuola risale a quando l'ho frequentata io, diverso tempo fa. Ho cominciato le elementari nel '76 - l'ultima volta in cui l'anno scolastico è cominciato in tutta Italia il 1 ottobre - e ho dato la maturità nell'89, un anno importante per me e soprattutto per il mondo. Negli anni successivi, per qualche tempo, mi sono occupato di pubblica istruzione, ma applicandomi per lo più all'educazione della prima infanzia, all'integrazione dei bambini portatori di handicap, all'edilizia scolastica, cose di cui deve occuparsi un amministratore comunale. Il mio approccio alla scuola, fatte queste premesse, è, per forza di cose, datato.
Nella mia carriera scolastica ho scritto moltissimi temi, anzi ho scritto soltanto temi, dai resoconti delle gite alle elementari, quelle da cui si tornava immancabilmente "stanchi, ma felici", al tema della maturità, per illustrare luci e ombre dell'età giolittiana. Dall'89 non ho più scritto un tema in vita mia. Eppure ho scritto tanto; ho scritto una tesi, articoli per giornali più o meno locali, relazioni, discorsi, programmi elettorali, perfino una breve storia delle Feste dell'Unità a Bologna. Forse posso dire di essere tornato a scrivere cose più simili ai temi di scolastica memoria da qualche anno, ma preferisco chiamarli, più modernamente, i post del mio blog. Intendiamoci, praticamente tutto quello che ho scritto è assolutamente dimenticabile e sarà dimenticato, ma nondimeno quei testi sono stati parte del mio lavoro, che ho cercato di fare il meglio possibile. Qualcuno ha votato un partito piuttosto che un altro grazie alle cose che ho scritto, qualcuno si è commosso a sentire un mio discorso, qualcuno ha imparato qualcosa che prima non sapeva, insomma le cose che ho scritto hanno raggiunto, più o meno bene, il loro scopo. Io ho imparato a usare la scrittura attraverso l'esercizio di un genere che non ho più usato e mai più userò. So che a scuola adesso per fortuna non si scrivono più soltanto i temi, ma anche articoli, relazioni, saggi brevi; penso che questo sia un bene. La morale di questa storia è che comunque c'è un'utilità anche a studiare cose apparentemente inutili.
Mentre frequentavo la scuola sono sempre stato giudicato attraverso compiti e interrogazioni, mai attraverso un test e sinceramente spero che per chi va a scuola adesso non sia più così. Io - come tutti voi - mi sono ritrovato spesso a dover rispondere a test, a quiz a domande multiple, ad altre prove del genere, per un concorso o per accedere al mondo del lavoro. Non ero preparato per farlo, perché a scuola non mi sono mai esercitato in questo senso. Trovo quindi poco fondata la polemica secondo cui i test sarebbero uno strumento inadeguato di valutazione perché valorizzano troppo la velocità mentale e troppo poco altre capacità come l'astrazione, l'organizzazione mentale, la sensibilità estetica. E' vero: i test "misurano" alcune cose e infatti devono essere considerati come strumenti di valutazione complementari e non alternativi. Ricordiamoci però che, ci piaccia o no, la ragazza e il ragazzo che esce dalla scuola, spesso per accedere all'università, praticamente sempre per entrare nel mondo del lavoro, deve saper superare dei test e quindi deve essere allenato a risolverli.
Riguardo alla questione specifica, ossia alla protesta di studenti e di insegnanti che, in parte, si sono rifiutati i primi di eseguire i test, i secondi di distribuirli e di correggerli, trovo piuttosto comprensibile il gesto degli studenti che hanno individuato questa forma di protesta come messaggio per criticare un governo che, con ragione, vedono impegnato a smantellare la scuola pubblica italiana. Un po' meno comprensibile è la posizione degli insegnanti, al di là delle questioni prettamente sindacali - di cui non conosco davvero i termini e su cui non intervengo - io credo che gli insegnanti dovrebbero chiedere non l'abolizione dei test Invalsi, ma il loro miglioramento.
Il governo e chi sostiene la validità delle prove Invalsi sbaglia se considera questo come l'unico modo per valutare il sistema scolastico. Così come lo studente deve essere valutato e con i test e con le interrogazioni, i compiti in classe - insomma tutti quegli strumenti "tradizionali" con cui siamo stati valutati noi - anche la scuola nel suo complesso deve essere valutata con un sistema che preveda strumenti diversi, non solo i test Invalsi. Devono esserci degli ispettori formati e selezionati con questo scopo, e deve esserci la possibilità di raccogliere anche i giudizi degli studenti. Su questo purtroppo siamo molto indietro e su questo dovremmo concentrare una forte azione politica.
Poi ci deve essere accordo su quali sono le finalità delle valutazioni, siano i test Invalsi siano altri strumenti. Se tutto si riduce a dare pagelle agli insegnanti, magari mettendone in rilievo le provenienze geografiche, allora non avremo fatto un buon servizio alla scuola. Bisogna invece usare gli strumenti di valutazione - ripeto, tutti gli strumenti di valutazione possibili - per un periodico monitoraggio dei risultati, per garantire agli studenti e alle loro famiglie che le scuole svolgano con efficacia la loro funzione costituzionale, per scoprire dove sono i problemi e individuare le buone pratiche che possono essere prese come modelli.
C'è infine un altro compito che una classe politica che ha veramente a cuore la scuola dovrebbbe porsi: definire cosa devono sapere i ragazzi, al termine della scuola elementare, della scuola media, della scuola superiore. Se non si definiscono questi obiettivi di apprendimento è praticamente impossibile, per quanto siano efficaci i sistemi di valutazione, capire se gli obiettivi sono stati raggiunti o meno. Se ci fosse una classe politica e, più in generale un Paese, che avesse a cuore la scuola...

"Un lettore" di Jorge Luis Borges


Vantino altri le pagine ch’ han scritto
l’orgoglio mio è per quelle che ho letto.
Filologo non sarò stato,
non avrò investigato le declinazioni, i modi , il laborioso mutar di lettere,
la d che si indurisce in t
l’equivalenza di g e k,
ma in tutti questi anni ho professato
passione di linguaggio.
Le mie notti son piene di Virgilio;
aver saputo e scordato il latino
è la sua acquisizione, ché l’oblio
forma è della memoria, la sua vaga rimessa,
l’altra segreta faccia di moneta.
Quando si cancellarono nei miei occhi
le vane apparenze amate,
i volti e la pagina,
a studiar presi il linguaggio di ferro
che usarono i miei antichi per cantare
solitudine e spade,
e ora, attraverso ben sette secoli,
da quell’ ultima Thule,
fino a me la tua voce giunge, Snorri Sturloson.
Dinnanzi al libro, chi è giovane s’impone una disciplina precisa
e lo fa al fin d’ un sapere preciso;
alla mia età ogni impresa è un’avventura
cui confine è la notte.
Non finirò di decifrare le antiche lingue del Nord,
Non affonderò le mani ansiose nell’oro del Sigurd;
quest’ opera cui attendo è illimitata
e mi accompagnerà fino alla fine;
dell’universo non men misteriosa
e di me, l’apprendista.

venerdì 13 maggio 2011

Considerazioni libere (229): a proposito dell'importanza del tacere...

Era segretario Natta. Una storia antica - diranno i miei sparuti lettori - tanto valeva che tu cominciassi con "c'era una volta". Invece no, miei cari, sto parlando di circa 25 anni fa, un tempo ragionevolmente breve, se ci pensate con attenzione. Per chi non lo ricorda, Alessandro Natta è stato segretario generale del Pci dal 1984 al 1988, succeduto a Enrico Berlinguer, di cui fu collaboratore strettissimo dagli anni Settanta, in particolare nel periodo del compromesso storico; Natta, persona coltissima, politico di grandi valori, è un personaggio che si dovrebbe ricordare e studiare con maggior attenzione, ma in questa "considerazione" voglio ricordare un episodio assolutamente minore della sua vita politica e mi sia perdonata questa banalizzazione. Natta, mentre era segretario del Pci, fu invitato a Pronto Raffaella - il programma di mezzogiorno diventato famoso perché il pubblico da casa doveva indovinare il numero di fagioli contenuti in un grande vaso - e, a sorpresa, accettò l'invitò e si fece intervistare dalla Carrà, rispondendo anche a domande personali e non squisitamente politiche. Non a caso ho scritto a sorpresa, perché a quel tempo era strano, molto strano, che un politico partecipasse a una trasmissione "leggera"; ora nessuno si sorprenderebbe più, purtroppo. Se poi quel politico era il segretario del Partito Comunista Italiano, la cosa assumeva i toni dell'evento; e per qualcuno, i duri e puri, quelli dell'eresia. Vidi quell'intervista, ricordo l'iniziale imbarazzo di Natta, che era effettivamente persona d'altri tempi, non abituata a quel tipo di visibilità.
Leggete una biografia di Enrico Berlinguer - ad esempio quella scritta da Giuseppe Fiori o quella di Chiara Valentini, sono entrambe molto belle. Uno degli aspetti più interessanti è vedere come il segretario del Pci dosava e misurava i suoi interventi pubblici. Il segretario parlava al comizio conclusivo della Festa nazionale dell'Unità, dopo almeno un paio di mesi di silenzio, e quel lungo discorso segnava la ripresa della vita politica dopo le vacanze estive. I suoi interventi alla Camera erano calibrati, in occasione dell'insediamento di un nuovo governo - e non sempre - e in caso di leggi su cui c'era stata una forte iniziativa del partito. Gli interventi sui giornali, anche su l'Unità, e in televisione erano centellinati. Berlinguer è un leader che, nonostante i tanti anni in cui è stato protagonista della vita politica italiana ed europea, ha parlato ben poco, ma ciascuno dei suoi interventi ha lasciato un segno, ha rappresentato un passaggio nella vita del partito o nella storia politica italiana. Certo Berlinguer è stato un politico di una levatura altissima e qualsiasi paragone con gli attuali dirigenti dei partiti di sinistra sarebbe per questi ultimi ingiusto e ingeneroso. Però una qualche riflessione si impone su cosa è diventata la politica in Italia, e - sia detto per giustizia, visto che solitamente questo Paese è giustamente bistrattato - non solo in Italia.
Mi ricordo che qualche tempo fa, di fronte all'ennesimo annuncio berlusconiano del Piano casa, un qualche vecchio democristiano ha ricordato, con voluta malizia, che Amintore Fanfani non ha mai fatto un discorso per annunciare il piano per la costruzione di 300mila alloggi popolari, il più importante intervento edilizio del secondo dopoguerra, ricordato appunto come "piano Fanfani". Così allora andava il mondo.
Io la dico io ora un'eresia. Se due persone molto intelligenti come Berlinguer o Aldo Moro fossero costretti ogni giorno a partecipare ad almeno un talk show, se nell'arco di poche ore dovessero rilasciare una decina di dichiarazioni inseguiti da una pletora di giornalisti urlanti le stesse banalità, insomma se si trovassero nelle stesse condizioni in cui si trovano - per citare due persone comunque assennate - Bersani o Fini (non parlo della coppia B.e B., qui siamo decisamente fuori quota), ebbene in queste condizioni anche quei due grandi rischierebbero di dire delle stupidate. Nessuno può essere sempre intelligente, o meglio può sempre mostrare di esserlo. Anche Napolitano, che pure è di una grande scuola ed è persona molto saggia, che calcola ogni parola con maniacale attenzione, rischia a volte di eccedere, anche perché in questo delicato passaggio a lui sono richiesti compiti che vanno decisamente al di là del ruolo istituzionale che ricopre.
Non voglio dire che questa sorta di bulimia della parola serva da sola a spiegare e a giustificare la crisi della politica italiana, ma comunque è un chiaro sintomo di una difficoltà sempre più evidente. In Palombella rossa, un profetico Nanni Moretti diceva "Chi parla male, pensa male e vive male". Eravamo nell'89 - Natta aveva smesso di essere segretario da pochi mesi. Guardate un giornale di questi giorni: si parla malissimo, ergo...

"I prigionieri dimenticati" di Peter Benenson

articolo da "The London Observer" del 28 maggio 196

Aprite i vostri quotidiani in qualsiasi giorno della settimana e troverete un articolo proveniente da qualche parte del mondo che parla di qualcuno che è stato imprigionato, torturato o giustiziato perché le sue opinioni o la sua fede religiosa sono inaccettabili per il suo governo. Ci sono milioni di queste persone in prigione - non tutti dietro la cortina di ferro o di bambù - ed il loro numero è in crescita. Il lettore del quotidiano avverte un nauseante senso d'impotenza. Tuttavia se queste sensazioni di disgusto in tutto il mondo potessero essere unite in un'azione comune, ne potrebbe nascere qualcosa di efficace.

Nel 1945 i membri fondatori delle Nazioni Unite approvarono la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Al momento non esiste un metodo sicuro per scoprire quanti paesi permettono ai loro cittadini di godere di queste due libertà fondamentali. Ciò che conta non sono i diritti che si trovano sulla carta costituzionale, bensì il fatto che essi possano essere esercitati e messi in pratica. Nessun governo, ad esempio, compie maggiori sforzi per evidenziare le proprie garanzie costituzionali di quello spagnolo, tuttavia esso non è in grado di applicarle.

Esiste una tendenza in aumento in tutto il mondo a nascondere i veri motivi per cui gli "anticonformisti" vengono imprigionati.

In Spagna, gli studenti che fanno circolare volantini in cui si fa appello al diritto di poter discutere su argomenti di attualità, vengono accusati di "ribellione militare".

In Ungheria i preti cattolici che hanno tentato di tenere aperte le proprie scuole di canto sono stati accusati di "omosessualità". Queste accuse di comodo indicano che i governi non sono affatto indifferenti alla pressione esercitata dall'opinione pubblica straniera. E quando l'opinione pubblica del mondo concentra la propria attenzione su un punto debole, qualche volta accade che riesca a far cambiare idea ad un governo. Ad esempio il poeta ungherese Tibor Dery è stato rilasciato di recente dopo la creazione di "comitati Tibor Dery" in molti paesi; il professor Tierno Galvan ed i suoi amici letterati sono stati liberati in Spagna lo scorso marzo dopo l'arrivo di importanti osservatori stranieri.

Un ufficio a Londra per raccogliere notizie

L'importante è mobilitare la pubblica opinione in modo rapido ed esteso, prima che un governo si ritrovi intrappolato nel circolo vizioso causato dalla sua stessa repressione, di fronte alla prospettiva di un'imminente guerra civile. A quel punto la situazione sarebbe troppo disperata per un governo per permettergli di fare delle concessioni. Il ruolo dell'opinione pubblica, per essere efficace, deve avere un'ampia base, che deve essere internazionale, non settaria e pluripartitica.

Campagne in favore della libertà condotte da una sola nazione, o partito contro un altro, spesso non fanno altro che ottenere un intensificarsi della persecuzione. Ecco perché abbiamo creato Appeal for Amnesty 1961. La campagna, che inizia oggi, è il risultato di un'iniziativa di un gruppo di avvocati, scrittori ed editori di Londra che condividono il seguente pensiero di Voltaire: "Detesto le tue opinioni, ma sono pronto a morire per il tuo diritto di esprimerle".

Abbiamo organizzato un ufficio a Londra per raccogliere informazioni sui nomi, il numero e le condizioni di coloro che abbiamo deciso di denominare "Prigionieri di Coscienza", e li definiamo così: "Qualsiasi persona che sia fisicamente impossibilitata (dalla prigionia o misure simili) ad esprimere (in parole o simboli) qualunque opinione che professi e che non invochi o condoni l'uso della violenza sulle persone". Inoltre escludiamo tutte quelle persone che hanno tramato con un governo straniero per rovesciare il proprio.

Il nostro ufficio terrà delle conferenze stampa per focalizzare l'attenzione su Prigionieri di Coscienza selezionati imparzialmente in diverse parti del mondo. Esso fornirà anche delle informazioni circostanziate a qualsiasi gruppo, esistente o nuovo, in qualunque parte del mondo, che decida di unirsi in uno sforzo speciale a favore delle libertà di opinione o di religione.

In ottobre verrà pubblicato presso la Penguin il volume "Persecution 1961" come parte della nostra campagna Amnesty. In esso ci saranno le storie di nove uomini e donne da parti diverse del mondo, di differenti opinioni politiche e religiose, che hanno sofferto un imprigionamento a causa delle loro opinioni. Nessuno di essi è politico di professione; sono tutti professionisti. Le opinioni che li hanno condotti in prigione sono frutto comune di discussione in una società libera. Poeta frustato di fronte alla famiglia.

Una di queste storie tratta della rivoltante brutalità con cui è stato trattato il maggiore poeta angolano, Agostino Neto, prima dello scoppio degli scontri attualmente in atto nel paese. Il dr. Neto era uno dei cinque dottori di origine africana in Angola. I suoi sforzi per migliorare i servizi sanitari per i suoi compatrioti erano inaccettabili per i portoghesi. Nel giugno dell'anno scorso la Polizia Politica è entrata nella sua abitazione, lo ha frustato di fronte alla sua famiglia e l'ha trascinato via. Si trova da allora nelle isole di Capo Verde senza accusa né processo. Dalla Romania vi faremo sapere della storia di Constantin Noica, il filosofo, che è stato condannato a venticinque anni di prigione perché, mentre si ritrovava "sospeso" dall'insegnamento, i suoi amici e discepoli continuavano a fargli visita e ad ascoltarlo parlare di filosofia e letteratura. Il libro parlerà dell'avvocato spagnolo Antonio Amat, che ha cercato di costruire una coalizione di gruppi democratici ed è sotto processo dal novembre 1958; di due bianchi perseguitati dalla loro stessa razza per aver professato l'opinione che le razze di colore dovrebbero avere gli stessi nostri diritti - Ashton Jones, il pastore sessantacinquenne, che fu ripetutamente picchiato e due bianchi perseguitati dalla loro stessa razza per aver professato l'opinione che le razze di colore dovrebbero avere gli stessi nostri diritti.

Scoprire chi è in prigione

La tecnica di rendere pubbliche le storie personali di molti prigionieri di diverse fedi politiche è nuova. E' stata adottata per evitare il destino di precedenti campagne di amnistia, che spesso si sono occupate più di rendere pubbliche le opinioni politiche del prigioniero che di sottolineare gli scopi umanitari dell'intervento.

Come possiamo stabilire le condizioni della libertà nel mondo d'oggi? Il filosofo americano John Dewey una volta disse:

"Se volete definire le condizioni in cui si trova una società, andate a scoprire chi sta in prigione".

Questo è un consiglio difficile da seguire, poiché sono pochi i governi che accettano volentieri indagini sul numero dei prigionieri di coscienza che detengono. Ma un altro test sulla libertà che può essere eseguito è quello di andare a verificare se la stampa è libera di criticare il governo.

Persino molti governi democratici sono sorprendentemente sensibili alle critiche della stampa. In Francia il Generale De Gaulle ha intensificato le chiusure dei giornali, una politica che ha ereditato dalla Quarta Repubblica. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti si fanno tentativi saltuari di ammorbidire il pungiglione delle critiche della stampa per mezzo della tecnica di rivelare ai direttori dei "segreti sulla sicurezza", come nel caso di spionaggio Blake.

Nel Commonwealth britannico, il governo di Ceylon ha lanciato un attacco alla stampa, e sta minacciando di prendere il controllo dell'intero sistema dell'informazione.

In Pakistan la stampa è alla mercé dell'amministrazione della Corte Marziale.

Nel Ghana la stampa d'opposizione opera in gravi condizioni di difficoltà.

In Sudafrica, che lascerà il Commonwealth mercoledì, il governo sta progettando ulteriori leggi a favore della censura delle pubblicazioni.

Al di fuori del Commowealth, la libertà di stampa è specialmente in pericolo in Indonesia, nel mondo arabo ed in paesi dell'America Latina come Cuba.

Nel mondo comunista, in Spagna ed in Portogallo, le critiche della stampa al governo sono raramente tollerate.

La massima di Churchill sulla democrazia

Un'altra verifica sulla libertà di un paese si rivela nella tolleranza o meno da parte di un governo dell'esistenza di un'opposizione. Gli anni del dopoguerra hanno visto il fiorire di "regimi personali" in Asia e Africa.

Ovunque si vieti ad un partito di opposizione di proporre candidati o di verificare i risultati delle elezioni, la posta in gioco è molto più alta del semplice futuro del partito. Le elezioni multipartitiche possono risultare ingombranti nella realizzazione, ed il rischio di coalizioni mette in pericolo la stabilità di un governo; ma non è stata ancora trovata una strada alternativa. Sebbene ci sia del vero nell'antica osservazione che la democrazia non si adatta bene ai nazionalismi emergenti, dovremmo anche ricordarci della massima di Winston Churchill:

"La democrazia è un cattivo sistema di governo, ma nessuno ne ha pensato uno migliore."

Una quarta verifica sulla libertà sta nel controllare se coloro che sono accusati di crimini contro lo Stato ricevono un processo pubblico e rapido di fronte ad una corte imparziale: se viene loro permesso chiamare testimoni a loro difesa, e se il loro avvocato è in grado di condurre la difesa nel modo che ritiene migliore.

In anni recenti si è verificata una spiacevole tendenza in alcuni di quegli stati che vanno orgogliosi dell'indipendenza del loro sistema giudiziario: dichiarando lo stato di emergenza e relegando i suoi oppositori in "detenzione preventiva", i governi hanno aggirato la necessità di trovare e provare le accuse.

All'altro estremo c'è l'entusiasmo nei paesi Sovietici nell'imbastire istituzioni che, sebbene vengano chiamate corti, non lo sono affatto. Le cosiddette "corti dei compagni" nell'U.R.S.S., che detengono il potere di trattare con i "parassiti", sono essenzialmente poco più che dipartimenti del Ministero del Lavoro, che spostano "disadattati" in buchi vuoti in Siberia.

In Cina lo spostamento di manodopera secondo un processo apparentemente giudiziario avviene su scala gigante. La via più rapida per portare aiuto ai prigionieri di coscienza è la pubblicità, specialmente tra i loro concittadini. Con la pressione dei nazionalismi emergenti e le tensioni della Guerra Fredda, ci saranno probabilmente situazioni in cui i governi saranno portati ad adottare misure di emergenza per proteggere la loro esistenza.

E' vitale che l'opinione pubblica insista sul fatto che queste misure non siano eccessive, né prolungate dopo il momento di pericolo. Se l'emergenza deve durare molto, allora un governo dovrebbe essere invitato a permettere ai suoi oppositori di uscire dalle prigioni per cercare asilo all'estero.

Un controllo delle frontiere più efficiente

Sebbene non esistano statistiche, è probabile che gli anni recenti abbiano visto una stabile diminuzione nel numero di persone che riescono a trovare asilo. Ciò non è tanto dovuto alla riluttanza di altri paesi ad offrire riparo quanto all'aumentata efficienza del controllo delle frontiere, che al giorno d'oggi rende più difficile alle persone la fuga.

Vari tentativi per raggiungere un accordo su una convenzione internazionale sull'asilo alle Nazioni Unite si sono trascinati per anni senza alcun risultato. In molti paesi esiste anche il problema delle restrizioni sulla manodopera straniera. Finché il lavoro non è disponibile nelle nazioni "ospiti", il diritto di asilo rimane vano.

Appeal for Amnesty 1961 ha lo scopo di aiutare a creare un impiego adatto a rifugiati politici e religiosi. Sarebbe bello se in ogni paese "ospite" un ufficio centrale per l'impiego di queste persone potesse essere organizzato con la cooperazione delle confederazioni dei datori di lavoro, i sindacati ed il Ministero del Lavoro.

In Gran Bretagna ci sono molte ditte che offrirebbero traduzioni e lavoro di corrispondenza ai rifugiati, ma non vi sono meccanismi atti a collegare domanda ed offerta. Quei regimi che rifiutano ai propri cittadini di cercare asilo sulla base del fatto che essi andrebbero all'estero solo per cospirare, potrebbero essere meno riluttanti se sapessero che, al loro arrivo, i rifugiati non starebbero lì a far nulla in una frustrazione senza scopo.

I membri del Consiglio d'Europa hanno sottoscritto una Convenzione dei Diritti Umani, e hanno istituito una commissione per assicurare la sua applicazione. Alcuni paesi hanno accordato ai loro cittadini il diritto di fare appello individualmente alla commissione. Ma alcune, Gran Bretagna compresa, hanno rifiutato di accettare la giurisdizione della commissione su casi singoli, e la Francia ha rifiutato di ratificare la Convenzione. La pubblica opinione dovrebbe insistere sulla creazione di meccanismi efficaci sovranazionali non solo in Europa, ma su linee simili anche in altri continenti.

Questo è un anno particolarmente adatto ad una Campagna per l'Amnistia. E' il centenario dell'incarico del Presidente Lincoln, e dell'inizio della Guerra Civile che giunse alla liberazione degli schiavi americani; è anche il centenario del decreto che emancipò i servi della gleba russi. Cento anni fa il bilancio del Sig. Gladstone eliminò le tasse oppressive sulla stampa ed allargò così la diffusione della stampa e la sua libertà; il 1861 segnò la fine della tirannia del Re "Bomba" di Napoli, e la creazione di un'Italia unita; fu anche l'anno della morte di Lacordaire, il Domenicano francese oppositore dell'oppressione Borbonica e Orleanista.

Il successo della Campagna Amnesty 1961 dipende da quanto incisivamente e potentemente sarà possibile riunire la pubblica opinione. Dipende anche dalla sua composizione, internazionale nel carattere e politicamente imparziale. Qualsiasi gruppo pronto a condannare la persecuzione, senza tenere conto di dove avviene e di chi sia il responsabile o le idee perseguitate, è il benvenuto.

Quanto possa essere ottenuto quando uomini e donne di buona volontà si uniscono, fu dimostrato durante l'Anno Mondiale dei Rifugiati.

Inevitabilmente la maggior parte dell'azione richiesta da Appeal for Amnesty, 1961, può essere intrapresa solo dai governi. L'esperienza mostra che in questi argomenti i governi sono pronti ad agire solo dove l'opinione pubblica si fa sentire. La sua pressione cento anni fa comportò l'emancipazione degli schiavi. E' ora che l'uomo insista per ottenere per la sua mente la stessa libertà che ha conquistato per il suo corpo.

mercoledì 11 maggio 2011

"Sì, so bene" di Fernando Pessoa


Sì, so bene
che mai sarò qualcuno.
So d'avanzo
che mai avrò un'opera.
So, infine
che mai saprò di me.
Sì, ma adesso,
finchè dura quest'ora,
questa Luna,
questi rami,
questa pace in cui stiamo,
lascino che mi creda
quel che mai potrò essere.

lunedì 9 maggio 2011

"Appartiene al tuo sorriso" di Peppino Impastato


Appartiene al tuo sorriso
l'ansia dell'uomo che muore,
al suo sguardo confuso
chiede un pò d'attenzione,
alle sue labbra di rosso corallo
un ingenuo abbandono,
vuol sentire sul petto
il suo respiro affannoso:
è un uomo che muore.

sabato 7 maggio 2011

Considerazioni libere (228): a proposito di un mondo che potrebbe cambiare...

Ho chiuso la mia ultima "considerazione" dicendo che, morto Osama bin Laden, adesso tocca alla politica; ed è un compito molto difficile, che fa tremare le vene ai polsi. Le cose da fare sono molte, forse troppe - per come si è lasciata incancrenire la complessa vicenda mediorientale - ma da qualche parte bisogna pur cominciare.
Prima di tutto c'è l'Afghanistan. Il principale obiettivo con cui la coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, ha motivato quel conflitto è stato raggiunto; siamo andati in Afghanistan dicendo che volevamo colpire Osama bin Laden e adesso che lui è morto e che Al Qaeda è senza una guida i nostri eserciti non possono continuare a rimanere lì come se niente fosse. Peraltro, guardando a come si sono sviluppati gli eventi, al netto dei proclami bellicosi sulla "guerra globale al terrorismo" e alla vittoria tante volte annunciata e altrettante volte smentita, si può dire che quella guerra è stata utile: ha indebolito Osama, l'ha costretto a rinunciare a un controllo diretto su quel paese, ha spezzato il forte legame che esisteva tra al Qaeda e i talebani; in qualche modo la guerra ha contribuito all'uccisione di bin Laden. Proprio perché abbiamo raggiunto questo importante obiettivo, bisogna seriamente cominciare a pensare al modo con cui ritirare le truppe occidentali dall'Afghanistan e non solo per compiacere opinioni pubbliche sempre più stanche di pagare i costi di conflitti lontani. Lasciare l'Afghanistan non sarà meno costoso, richiederà uno sforzo finanziario enorme, ma quei soldi dovremo saperli spendere bene, per promuovere lo sviluppo, per ricostruire un'agricoltura distrutta da decenni di guerre, per garantire livelli accettabili di assistenza sanitaria, per combattere l'analfabetismo, facendo andare a scuola bambine e bambini, ragazze e ragazzi, senza distinzioni. Quello è che è successo in Egitto dovrebbe aiutare a non commettere gli stessi errori: garantire il pane a un prezzo politico, oltre a essere un'iniziativa assai costosa per gli Stati Uniti, non è servito a migliorare il livello di vita della popolazione, ma ha impedito lo sviluppo dell'agricoltura, come ho scritto in un'altra "considerazione" (la nr. 220, per la precisione); inoltre è stata una delle leve che ha permesso la corruzione del regime.
Allo stesso modo i paesi occidentali, alla prova del dopo-Osama, devono ricordare che sostenere un regime autocratico e corrotto non è servito a garantire la difesa contro il diffondersi dell'islamismo più radicale. Osama e al Qaeda sono cresciuti nell'Africa settentrionale proprio quando c'erano i governi "amici" di Mubarak, Ben Alì, Bourghiba. Osama bin Laden è stato sconfitto non dalle truppe statunitensi, che si sono limitate a trovarlo e ucciderlo, ma dai giovani scesi in piazza ad Algeri, a Tunisi, al Cairo, a Bengasi, in Siria e nello Yemen. Sono quei giovani che pongono le domande più urgenti, a cui è necessario dare una risposta, se si vuole dare un senso a quello fatto fino ad ora nella cosiddetta guerra contro il terrorismo e soprattutto se si vuole immaginare un mondo diverso, in cui milioni di persone non continuino a essere escluse dai diritti fondamentali. I giovani della primavera araba chiedono di uscire da una povertà che condiziona pesantemente il loro futuro, chiedono diritti e libertà, chiedono di poter vivere come i loro coetanei occidentali. Chiedono anche, almeno quelli che credono - perché bisognerebbe cominciare a smetterla con l'equazione arabo uguale musulmano - che la loro fede sia considerata come una religione di pace e di amore e non una bandiera da sventolare in una guerra di civiltà. Chiedono tutti, laici e credenti, che il nostro mondo smetta di guardare al loro con un malcelato senso di superiorità: troppe volte sentiamo discorsi di persone comuni, ma anche analisi di intellettuali, che partono dal presupposto che la democrazia e i diritti umani sarebbero difficilmente conciliabili o addirittura inconciliabili con l'islam o con il mondo arabo tout court. La democrazia è un processo che richiede tempo, che richiede un'assunzione progressiva di responsabilità, che richiede il crescere di una cultura dei diritti: la democrazia non nasce dall'oggi al domani. Lo dovrebbero ricordare gli europei, visto che il nostro continente è stato governato in gran parte da regimi dittatoriali nella prima metà del Novecento e che le ultime dittature, in Portogallo, in Spagna, in Grecia, sono cadute soltanto negli anni Settanta; l'Europa ha conosciuto l'orrore di una guerra fondata sulla religione, che ha causato centinaia di morti, non nei secoli scorsi, ma solo fino a pochi anni fa, in Ulster, nel civilissimo Regno Unito; il cammino per il riconoscimento del ruolo delle donne nelle società europee è cominciato da poco ed è ancora in corso.
Possiamo sperare che, anche grazie ai nostri errori, il cammino delle giovani società orientali, sarà più breve, ma sarà comunque un cammino.

"Fra Rita e i miei occhi (poesia per una ragazza ebrea)" di Mahmoud Darwish


Fra Rita e i miei occhi si leva un fucile.
Quelli che conoscono Rita,
s'inchinano e pregano i suoi occhi di miele divino.
Ho baciato Rita bambina,
lei si è stretta a me, lo ricordo…
I suoi capelli mi coprivano il braccio.
Ricordo Rita
come l'uccello ricorda la sua fontana.
Oh, Rita!
Un milione di immagini
un milione di uccelli
un milione di appuntamenti
sono stati assassinati da un fucile.
Il nome di Rita, festa per le mie labbra.
Il corpo di Rita, nozze per il mio sangue.
Per due anni, mi sono perduto in lei.
Per due anni lei si è distesa sul mio braccio,
uniti nel fuoco delle nostre labbra,
siamo resuscitati per due volte.
Oh, Rita!
Chi avrebbe potuto sciogliere i nostri sguardi,
prima che si levasse un fucile?
Oh, notte di silenzio!
C'era una volta…
Una luna è calata all'alba…
Lontano, in occhi di miele
E la città ha cancellato Rita e le canzoni…
Fra Rita e i miei occhi, si leva un fucile.

venerdì 6 maggio 2011

Considerazioni libere (227): a proposito di uno che è stato fortunatamente sconfitto...

La storia è un lungo processo, un lento concatenarsi di cause ed effetti, in cui è sempre difficile definire stacchi, momenti di inizio o di fine: la rivoluzione francese non cominciò certo il 14 luglio 1789 con la presa della Bastiglia, così come la seconda guerra mondiale non è cominciata il 1 settembre 1939 con l'occupazione di Danzica; allo stesso modo il giorno in cui è caduto il muro di Berlino non è il giorno in cui sono crollati i regimi comunisti dell'Europa orientale e potremmo fare molti altri esempi. Eppure il racconto della storia ha bisogno di eventi come quelli che ho appena ricordato, di fatti che nella loro drammaticità e unicità segnino questi momenti di passaggio. Comunque la pensiamo su quello che è avvenuto lo scorso 2 maggio ad Abbottabad, la morte di Osama bin Laden è uno di questi eventi.
Voglio fare qualche riflessione sulla morte di bin Laden; sono pensieri non ancora del tutto "sistemati" e forse richiederanno un aggiornamento o un ripensamento tra qualche giorno, o tra qualche settimana, ma mi sembra comunque giusto condividerli con i miei sparuti lettori.
Credo che fosse inevitabile che bin Laden morisse, penso ne fosse consapevole lui per primo, come certamente ne era convinto Barack Obama, quando ha dato l'ordine di ucciderlo. Personalmente ritengo che Obama non abbia mai pensato di catturare bin Laden vivo. Questa opzione non è mai stata davvero messa in conto e forse quello che adesso non si può vedere è proprio questo: la prova che Osama è stato condannato a morte e giustiziato, in maniera irrituale e senza possibili alternative. Non so quanto nella decisione di Obama abbia pesato il calcolo in vista delle prossime elezioni presidenziali o quanto la paura di nuovi attentati nell'imminenza del decimo anniversario dell'attentato contro le Twin towers, ma immagino che abbia avuto ben presente che la cattura, un periodo più o meno lungo di detenzione, il processo, la condanna, la punizione sarebbero stati ben più difficili da entrare nella storia piuttosto che la morte di bin Laden da parte di un manipolo di coraggiosi. Il Presidente degli Stati Uniti, quando è un intellettuale come Obama, deve anche pensare a come viene e verrà raccontata la storia, a completare una narrazione; bin Laden ha voluto entrare nella storia con un atto simbolico, ne è uscito in modo altrettanto simbolico. E dato che - come dice un adagio spesso citato - la storia la scrivono i vincitori, la morte di bin Laden diventa anche in qualche modo giusta, seppur non legale. Ed è anche comprensibile la soddisfazione: personalmente penso che la morte di bin Laden sia stata lecita e sono contento che ci siamo arrivati. Come penso sia necessario arrivare anche a quella di Gheddafi, se vogliamo davvero liberare il popolo libico. Poi credo siano sbagliati i caroselli di auto, le bottiglie stappate, le sfilate: della morte di un nemico si è soddisfatti, ma non la si festeggia.
Può sembrare un paradosso, ma io credo che l'inizio della sconfitta di bin Laden sia stato proprio l'11 settembre. Fino a dieci anni fa Osama bin Laden era un uomo molto potente; grazie ai suoi enormi mezzi finanziari aveva un forte controllo su uno stato in crisi e profondamente corrotto come l'Afghanistan e tesseva una rete sempre più fitta di rapporti in Pakistan, dove evidentemente continuava a godere di buoni uffici, se poteva vivere al centro di una città abitata per lo più da militari, a pochi chilometri dalla capitale. Oltre ai propri cospicui mezzi personali, gestiva immense sovvenzioni finanziarie che gli arrivavano, anche da canali ufficiali, dall'Arabia Saudita e da altri Stati del Golfo; bin Laden gestiva una rete di operazioni bancarie e di riciclaggio di denaro sporco. Lavorava per favorire la diffusione delle madrasse per proclamare l'idea della guerra santa dall'Indonesia a Londra, e aveva fatto nascere molti campi di addestramento per futuri terroristi. Dopo l'11 settembre il suo potere è oggettivamente venuto meno, i soldi hanno cominciato a calare, eliminate drasticamente le sovvenzioni saudite, il suo messaggio si è progressivamente appannato, anche perché non è riuscito a rispondere alle domande che covavano nei cuori dei giovani che vivono dal Marocco all'Egitto, dalla Palestina al Golgo persico, dal monti dell'Anatolia al Pakistan: non è riuscito a dare una risposta alla domanda di futuro che è emersa impetuosa nelle rivolte arabe delle scorse settimane. I giovani che sono scesi in piazza hanno detto chiaramente che non volevano più i regimi corrotti e antidemocratici imposti dai paesi occidentali per contenere l'influenza islamista, ma con altrettanta chiarezza non hanno inneggiato a Osama e alla guerra santa. Il velo si è squarciato e all'improvviso bin Laden è apparso come un uomo di un mondo vecchio, come lo erano Mubarak e Gheddafi, come lo sono ancora gli anacronistici emiri sauditi: vecchi che non sanno parlare a un mondo fatto di milioni di giovani.
Morto finalmente - e giustamente - Osama, adesso è il tempo della politica. E la politica è molto più complicata e difficile che un raid notturno contro un palazzo nella periferia di una città pachistana. Sbagliare una mossa rischia non di bloccare il processo, che ormai si è messo in moto, ma di deviarlo, di rallentarlo, di costringerlo a fare passi indietro. Non sbagliare significa rispondere a quella domanda di futuro a cui, fortunatamente, non ha saputo rispondere Osama.

giovedì 5 maggio 2011

da "Poema umano" di Danilo Dolci


Urge imparare
dal trovarsi davanti realizzati
sogni prima creduti troppo belli
per esser veri,
a immaginare l'alto bosco mentre
pianti eucalipti nella terra arsigna;
e dal geranio:
se gli spacchi le braccia in monconi
infilando ogni stocco nella terra –
ricresce tenero il cespuglio padre,
si radicano i figli acri inverdendo.
Costruendo, l'uomo si costruisce.
La città nuova inizia ove la terra respira,
ove ognuno respira
poesia - antenna miccia cantiere -
avvertito la terra può schiantarsi
invetrando cancrene.
Ti aspettavamo al tuo posto:
e all'estremo momento non c'eri.
Quando insieme si tenta di alzare
una trave pesante
pericoloso è fingere
di forzare con gli altri:
o ti impegni con tutti come puoi
o avvisi chiaramente -
e te ne vai.

mercoledì 4 maggio 2011

"Poesia" di Juan Gelman


Giovedì passato nell'atmosfera amichevole
della tua conversazione. Sulla tovaglia,
i dolci piatti, il coltello all'erta,
la voglia di mangiare.

La voglia pure di mangiare un poco,
di tutto, di qualunque cosa, di niente.
Di piangere tagliando la cipolla
e di ridere giusto nel cucchiaio.

Le tue mani esperte, tiepide di verdura,
ed il grembiule che sempre si rovina
proprio lì, però che rabbia!
Di nuovo hanno aumentato il pane, eh? Che problema!

Che problema, moglie mia, che problema,
toccare l'aria di questo giovedì pulito!
Guardarsi il petto scandalo di vita!
Sentire nel tuo ventre il figlio come cresce!
E il resto, lo aggiusteremo poco a poco.

martedì 3 maggio 2011

"L'indulgenza" di Hans Magnus Enzenberger


Voi non sapete di cosa sto parlando. E' chiaro.
Credete che c'entri con le rate,
col numero chiuso e con le tasse.
Non c'è da stupirsi. Dal benzinaio e in galera
e in discoteca non si concede nessuna indulgenza.
Se volete saperlo, anche in passato
era meglio non farci gran conto, nei letti d'ospedale,
sui campi di battaglia e nelle stazioni dei calvari.
Nessun miracolo, solo uno di quei miseri trucchi
con cui l'uomo a memoria d'uomo frega il suo prossimo.
Un modo di dire antiquato, nient'altro.
Eppure mi piacerebbe trasmettervela, tanto per fare,
questa formula magica, perchè è quasi perfetta: indulgenza plenaria
per tutte le temporali ed eterne.
Tra l'altro, dipendesse da me concedervela,
l'avreste di certo poveri disgraziati.