lunedì 31 gennaio 2011

Considerazioni libere (203): a proposito di gratuite volgarità...

Una delle mie sparute lettrici mi ha chiesto un'opinione e di questo la ringrazio: è una delle cose che rinfrancano l'ego di un blogger di provincia; posso dire quindi che questa è la mia prima - e forse l'ultima - "considerazione" su commissione.
Se ho ben capito il tema, la mia gentile interlocutrice si chiede come mai tenda a crescere il tasso di volgarità nelle conversazioni private, specialmente quando ci si trova tra uomini o tra donne, citando alcuni casi concreti.
Sinceramente non so dire quanto siano più disinibite e volgari le conversazioni private rispetto al passato, ma certamente c'è una maggiore volgarità intorno a noi, nella sfera pubblica, a ogni livello. Mi rendo conto che un discorso del genere rischia di essere un po' moralista e può essere tacciato di ipocrisia, ma personalmente mi infastidisco quando sento qualcuno che in un luogo pubblico o, peggio ancora, davanti a un pubblico - in un discorso o in un'intervista - usa, in maniera gratuita delle volgarità. Provate a prendere un autobus frequentato da ragazzi e ragazze che vanno a scuola: ne sentirete di tutti i colori; probabilmente noi, alla loro età dicevamo le stesse parolacce, ma non ci facevamo sentire da tutto l'autobus. Gli esempi poi di volgarità pubblica sono così frequenti che non mi sembra i caso di citarli.
Diceva vent'anni fa il protagonista di Palombella rossa: "Chi parla male, pensa male", riferendosi a certe frasi fatte, ai luoghi comuni, alle banalità che ci assediano da ogni parte; è ancora un problema, come è un problema altrettanto grave l'abuso delle parole inglesi o di terribili calchi, come briffare, appena salito agli onori delle cronache, perché utilizzato dall'igienista dentale più famosa d'Italia. La frase di Moretti vale tanto di più per le frequenti volgarità che sentiamo in autobus come in televisione. Ho già scritto molte volte che uno degli aspetti che mi piace meno della nostra società è l'ostentato maschilismo e la tendenza a valutare le donne solo in base al loro aspetto. Viviamo in un clima in cui la dimensione sessuale è esasperata, nei suoi aspetti più libidinosi, laidi, e questo si manifesta anche nella volgarità del linguaggio. Se usiamo la parola figa - scusate - per indicare una ragazza, qualcosa vorrà dire di come ragiona la nostra testa.
So che a un discorso del genere è facile obiettare che le donne non erano certo più considerate quando in Rai le ballerine non potevano far vedere le gambe e nel telegiornale non si poteva pronunciare la parola membro, con un perbenismo bigotto che era solo di facciata. E' vero, ma è un alibi che non regge molto: forse era soltanto una facciata, ma almeno quella c'era, mentre ora è irrimediabilmente crollata.
Probabilmente sono uscito fuori tema e mi scuso con chi mi ha dato l'estro di scrivere questo sfogo. provo a tornare alla questione da cui sono partito. E' naturale usare un linguaggio più libero quando ci ritroviamo in un gruppo di amici, magari lasciandoci andare ad espressioni che non useremmo in un contesto diverso. C'è qualcosa di liberatorio ed è anche una dimostrazione di reciproca fiducia: con te, che sei mio amico, posso dire cose che non direi ad altri e tu puoi fare lo stesso con me. Sentiamo che in quelle circostanze siamo meno legati da convenzioni. Ma se già ogni giorno queste convenzioni tendono a saltare, se sentiamo di continuo fuori, nel mondo degli altri, un linguaggio peggiore di quello che useremmo tra amici, cosa possiamo aspettarci? Forse la tendenza è sempre quella di peggiorare.

sabato 29 gennaio 2011

"Che caduta malvagia!" di Hassan Teleb


Che caduta malvagia!
O Madre di Ali,
ti prego non ascoltare quello che dicono i vicini
Sono bugie
Non ti fidare ti prego
di quello che è stato detto
e quello che sarà…
Non sono stato debole quel giorno lì
Non sta bene che mi tolgano il merito!
Essere vile - tu lo sai - non posso
Quante volte affermai il mio parere
Ma a cosa vale il parere?
Ho fatto dimostrazioni
Ho provocato il mio collega… il mio vicino
Il mio slogan era:
"Abbasso l’epoca dell’ignoranza!
Abbasso l’umiliazione e la dittatura!"
Mi ha sorpreso un nemico potente
e forte
Una ressa da tutte le parti
mi si è radunata furiosa contro
Resistevo
finché non mi sconfissero le gambe
Cosa potevo fare alle mie gambe?
Niente
Dissi solo più di una volta:
"Che malvagia caduta!"
Mi dissi consolandomi:
"Non sono l’unico sconfitto dall’abbondanza"
Decisi di suicidarmi.
Mi dissi: "Se la morte viene
allora dalle mie mani…"
ma le mani delle guardie mi raggiunsero prima,
mi condussero subito
dal loro capo,
in fondo alla sala.
Dissero: "In ginocchio!"
Dissero: "Cammina su quattro zampe!"
Dissero: "Dì:
Mi ingannò il diavolo!
Ora mi rammarico, ora mi pento!
"
Resistetti, non mi rassegnai.
Dissero: "Dì’:
Viva il Sultano!"
Non lo feci, ma
dissi: "Come?"
E questi preavvisi del diluvio davanti ai miei occhi…
Dissero: "Se adesso non lo dirai,
ti faremo schizzare gli occhi fuori dalle orbite!
Ti toglieremo il senno,
poi ce ne andremo lasciandoti solo,
dimenticato da tutti!"
Così Madre di Ali
trovi innanzi a te
una persona diversa
cieca, malatissima
Ti prego,
prendi la penna
Ti voglio dettare
l’essenza della mia tragedia
So che la parola è debole
che la poesia resiste
ma cercherò
E chissà!
Magari potrei riuscire,
se mi aiutassero gli angeli della poesia.
Riuscirei,
se Dio mi desse l’ispirazione…

Considerazioni libere (202): a proposito della fine ingloriosa di un ventennio...

In Italia ci siamo ormai abituati che al peggio non c'è mai fine e quindi prepariamoci pure a tempi peggiori di questi. Al di là di questa ottimistica premessa, è però difficile immaginare un periodo peggiore di questo: la lettura dei giornali non è esattamente la "preghiera del mattino dell'uomo moderno", come preconizzava Hegel, ma piuttosto un esercizio masochistico, alla Tafazzi, per chi ricorda questo grande personaggio, vero simbolo italiano. La crisi politica del nostro paese può essere analizzata sotto molti punti di vista: per me l'aspetto più drammatico è il fatto che è venuto meno qualsiasi freno istituzionale, al di là - e qui mi ripeto - dell'impegno solitario del presidente Napolitano.
Ho già scritto come la penso: a questo punto l'unica soluzione per tentare di uscire da questa crisi politica è l'uscita di scena - definitiva - di Berlusconi. Visto che lui non si dimetterà né passerà la mano, spero che la natura intervenga prima che la situazione degeneri ulteriormente o che qualche folle pensi che sia arrivato il momento di voltare pagina, costi quel che costi. Le conseguenza di un attentato - vero, non un souvenir sui denti - sarebbero davvero drammatiche e il paese non potrebbe reggerle. La reazione a una malattia che impedisse a Berlusconi di governare sarebbe imprevedibile, ma forse non così devastante. Mi rendo conto che è un discorso assai cinico, ma credo che lo stesso Berlusconi si renda conto che da un regime si esce soltanto in questo modo, non avendo lui mai davvero preventivato uno scenario politico senza di lui.
Al di là di questa riflessione, rimango convinto - come ho scritto nella mia ultima "considerazione" sull'Italia - che la fine di Berlusconi non risolverà in un colpo solo la crisi morale del nostro paese, ma almeno sbloccherebbe una situazione politica che si regge unicamente su una persona. Berlusconi ha fatto moltissimo per essere amato dagli italiani e c'è riuscito, ma contemporaneamente ha fatto sì che tanti lo odiassero. Amore e odio non sono categorie politiche, ma in questi vent'anni di storia italiana lo sono diventati, grazie alla polarizzazione della politica sulla persona Berlusconi e da questo occorre uscire il prima possibile perché la situazione sta degenerando, ora forse più per colpa del fronte antiberlusconi che dello stesso Berlusconi.
Mi rendo conto che queste affermazioni sono molto dure, ma non sono fatte per cercare la provocazione, soprattutto tra quanti dei miei sparuti lettori votano e hanno votato per il centrodestra. Voglio anzi dire che c'è un punto su cui sono d'accordo con loro: in questa ultima vicenda Berlusconi ha ragione a dirsi perseguitato da parte della magistratura. C'è una parte della società italiana, certo minoritaria, fatta di magistrati, giornalisti, intellettuali, quello che una volta si definiva "ceto medio riflessivo", che di fronte al totale fallimento politico del Pd - che tra qualche mese penso porterà i libri in tribunale, senza che nessuno lo rimpianga - e alla debolezza di Fini - che pure aveva suscitato tanta speranza - ha cominciato ad attaccare Berlusconi in maniera scomposta, calpestando le regole. Sinceramente le intercettazioni che vengono presentate ogni giorno sui giornali sembra siano fatte non per verificare se un reato c'è stato, ma per trovare a ogni costo un reato. Ha ragione Berlusconi qando dice che l'obiettivo della procura milanese a questo punto è quello di alzare il massimo possibile della polvere. Chi sperava che lo scorso 14 dicembre il governo Berlusconi fosse sfiduciato, grazie ai voti di Fini, si è convinto che questo ora è l'unico mezzo per mandarlo a casa: si è aperto un verminaio le cui conseguenza non sono più controllabili.
Intendo questo quando dico che è venuto meno ogni freno istituzionale. I magistrati devono fare il loro lavoro e troppo spesso non lo fanno; sbagliano quando fanno indagini "ad orologeria", ma sbagliano anche quando sono troppo vicini al potere: personalmente non mi fa piacere sapere che magistrati partecipino a cene a casa di questo o quel potente. Le istituzioni sono usate per difendersi, che sia la Presidenza del Consiglio o quella della Camera. Uno scranno in parlamento diventa una merce di scambio nel mercato, aperto con orario continuato sette giorni su sette, della politica, come è avvenuto in occasione del voto di fiducia o nell'attuale, attesa, spartizione dei posti di sottogoverno. La crisi istituzionale è ormai conclamata. Ripeto che Berlusconi non è il solo responsabile, ma ne è il maggiore. Ha voluto essere il dominus di questi vent'anni e c'è riuscito, anche grazie alla pochezza degli avversari e dei comprimari. Ora che il sistema fondato su e contro di lui è fallito, deve trarne le conseguenze o accettarne tutte le implicazioni.

venerdì 28 gennaio 2011

Considerazioni libere (201): a proposito di legname...

Ho dedicato parecchie di queste mie "considerazioni" al tema dello sfruttamento delle risorse ai danni dei paesi più poveri del mondo. C'è un aspetto che mi colpisce sempre. Leggendo le notizie economiche di un qualsiasi giornale o ascoltando un telegiornale pare che lo sviluppo economico mondiale sia tutto concentrato sulla finanzia e l'alta tecnologia. Se invece si ha la pazienza di analizzare con attenzione i dati e di soprattutto di cercare quelle notizie che i media non considerano tali, si scopre una "materialità" della ricchezza, che definirei antica, in cui domina lo sfruttamento di alcuni beni primari: la terra, l'acqua, il legno.
Ho già avuto modo di raccontare - nella "considerazione" nr. 91, per la precisione - che le grandi multinazionali occidentali e arabe si stanno spartendo le terre africane per sfruttarne la ricca produzione agricola. Ho dedicato molte "considerazioni" al tema dell'acqua. E' notizia di queste giorni che si sta ormai prosciugando il Giordano , di cui la Bibbia esalta la ricchezza di acqua e la capacità di portare fertilità.
Grandi aree di foresta stanno sparendo in Africa per alimentare il traffico di legname. Il Madagascar , grazie alle sue particolari caratteristiche geografiche e climatiche, presenta un ecosistema unico al mondo, che deve essere preservato e tutelato. Dopo alcuni anni di relativa stabilità politica, in cui si sono registrati dei progressi nella protezione di questo patrimonio forestale unico, dal 2009 il paese africano è oggetto di violenti scontri politici. Chi ha guadagnato dall'instabilità sono i contrabbandieri di legnami pregiati: nel 2010 sono spariti 20mila ettari di foresta , con l'abbattimento di oltre centomila alberi ad alto fusto. C'è chi vende e naturalmente c'è anche chi compra, in particolar modo la Cina, che sta investendo moltissime risorse in Africa e si ritagliando un ruolo di grande influenza nel continente. Andry Rajoelina, salito al potere in Madagascar con un colpo di stato, al di là di qualche generico impegno, farà poco per fermare il traffico di legname, per non scontentare i cinesi e non rinunciare a queste risorse.
I contrabbandieri di legname sono molto attivi anche in Somalia. In questo sfortunato paese questo traffico è gestito dalla milizia al Shabaab, vicina ad al Qaida. I miliziani gestiscono l'abbattimento delle foreste, la combustione del legname per ricavarne carbone e la vendita di quest'ultimo attraverso il porto di Kisimayo. In questo caso i compratori sono l'Arabia Saudita e i paesi del Golfo. La mancanza da troppi anni di un governo - anche per la responsabilità occidentale, e italiana - ha impedito qualsiasi tutela del patrimonio naturale somalo; l'abbattimento sfrenato degli alberi è una delle cause della siccità che sta mettendo in ginocchio l'agricoltura di quel paese. L'attività dei contrabbandieri del legno è più pericolosa e carica di conseguenze di quella dei pirati, contro la quale c'è stata una mobilitazione politica e militare internazionale. Nel frattempo tanti fanno affari con la legna.

domenica 23 gennaio 2011

"La roba" di Giovanni Verga

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell'immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: "Qui di chi è?", sentiva rispondersi: "Di Mazzarò". E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all'ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: "E qui?". "Di Mazzarò". E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all'improvviso l'abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: "Di Mazzarò". Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l'erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell'acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo.
Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell'eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l'arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d'occhio uno solo, e badava a ripetere: "Curviamoci, ragazzi!". Egli era tutto l'anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d'argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll'affaticarsi dall'alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch'era tutto quello ch'ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l'aveva raccolto per carità nudo e crudo ne' suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l'alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l'ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. "Costui vuol essere rubato per forza!", diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: "Chi è minchione se ne stia a casa, la roba non è di chi l'ha, ma di chi la sa fare". Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all'improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall'uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch'era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: "Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te". Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l'avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.
"Questa è una bella cosa, d'avere la fortuna che ha Mazzarò!" diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l'acchiappava - per un pezzo di pane. E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l'asinello, che non avevano da mangiare.
"Lo vedete quel che mangio io?" - rispondeva lui, - "pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba". E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: "Che, vi pare che l'abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?" E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l'aveva.
E non l'aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch'è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: "Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!"
Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: "Roba mia, vientene con me!"

venerdì 21 gennaio 2011

Considerazioni libere (200): a proposito di cosa ci insegnano le intercettazioni...

Mi scuso con i pochi che hanno la pazienza di leggere queste mie "considerazioni", ma sono costretto a ripetermi sul punto da cui voglio far partire la mia riflessione di oggi: sono convinto che l'Italia non sarà migliore il giorno in cui non ci sarà più Berlusconi. So che molti - la grande maggioranza di coloro che sostengono il centrosinistra - non la pensano così. In sintesi: per molti la società italiana è malata perché c'è Berlusconi, per me c'è Berlusconi perché la società italiana è malata.
Questa ennesima "lenzuolata" di intercettazioni è interessante non tanto per quello che racconta su Berlusconi, ma per come tratteggia un pezzo di società italiana. L'anziano imprenditore esce male dalle intercettazioni non tanto dal punto di vista penale, ma da quello umano. Francamente suscita un misto di ridicolo e di malinconia il fatto che un uomo ricchissimo, per di più capo del governo di un importante paese europeo, per divertirsi debba circondarsi di ragazze vestite da infermiere e da poliziotte: un sogno da film erotico di terza categoria.
Spulciando tra i vari articoli dei giornali, provando a dimenticare che il protagonista è il vecchio e patetico Silvio B., ci sono delle vere e proprie perle. C'è la ragazza che riflette sul fatto che a Milano per una ragazza laureata, al netto delle serate chez B, l'unica possibilità è quella di passare da un contratto di collaborazione all'altro, per poco più di 800 euro al mese: è la precarietà, bellezza. Ci sono le reazioni ipocrite dei bravi borghesi, elettori berlusconiani e leghisti, che abitano nel residence Olgettina, che solo adesso dicono di essersi resi conto che tra le loro vicine c'era un sospetto ricambio di ragazze: sono le stesse persone che si indignano quando vedono le prostitute per strada e chiedono al Comune di cacciarle - in genere le mogli - e che tengono vivo il mercato - in genere i mariti. Un capitolo a parte meritano i commenti delle ragazze di fronte ai regali del vecchio impotente: c'è quella che avrebbe preferito i soldi alla collana, c'è quella che fa i conti su quanto ha preso quell'altra, chiedendosi cosa abbia fatto per meritare quel favore; sono tutte lì a calcolare, a soppesare, a contare, come Mastro don Gesualdo, e, come lui, ossessionate dalla "roba". Tutti parlano sempre e solo di soldi, e tutti cercano di arraffare il più possibile.
Poi ci sono le parole "rubate" e le dichiarazioni di genitori, fratelli e parenti vari: tutti sperano che la "conoscenza" del premier permetta alle loro figlie, sorelle, ecc. di cambiare vita, magari con qualche benefit anche per loro. Il padre della vera infermiera piemontese - che si fingeva infermiera, dietro consiglio dell'immarcescibile Mora - che ha risposto "magari", quando un cronista gli ha chiesto se la figlia fosse la fidanzata di Silvio, è l'immagine più chiara del nostro paese. Per una ragazza italiana l'unica soluzione, l'unica prospettiva è sposarsi, quindi tanto meglio se sposa - o almeno ha una qualche relazione, anche saltuaria - con l'uomo più ricco d'Italia. Non serve neppure l'indagine Istat a mettere in evidenza che in Italia una donna su due non ha un lavoro e non lo cerca neppure, è sufficiente quel "magari" a raccontarci cosa è diventato questo paese, sempre più ostile verso le donne e verso i giovani. Continuiamo pure a scrivere articoli sulle capacità e sui talenti delle donne. Tempo perso, tanto chi ha un qualche potere, chi fa i casting per entrare in banca o al Grande fratello - e in genere sono uomini - continua a valutare le donne come fa Berlusconi, quando va bene come infermiere sexy.

giovedì 20 gennaio 2011

"La mano che firmò il trattato fece crollare una città" di Dylan Thomas


La mano che firmò il trattato fece crollare una città;
cinque dita sovrane posero un’ipoteca sul respiro,
raddoppiarono il globo dei morti e dimezzarono un paese;
quei cinque re un re misero a morte.

La mano possente conduce a una spalla ricurva,
il gesso contrae le giunture delle dita;
una penna d’oca ha posto fine al delitto
che pose fine a ogni negoziato.

La mano che firmò il trattato produsse una febbre,
la carestia avanzò, e le locuste giunsero; è grande
la mano che tiene in suo dominio
l’uomo grazie a un nome scribacchiato.

I cinque re contano i morti, ma non possono curare
la ferita incrostata, né spianare la fronte; una mano
amministra pietà come una mano amministra anche il cielo;
le mani non hanno lacrime da spargere.

Considerazioni libere (199): a proposito di chi vive grazie ai rifiuti...

Non è la prima volta che parlo di persone che vivono - o sopravvivono - grazie ai rifiuti: se volete, potete leggere la "considerazione" nr. 111. Lo scorso 11 gennaio è uscito su The New York Times un bell'articolo di John Leland sui disperati di Nasr City.
Nasr City è uno dei più grandi insediamenti abusivi nati intorno a Baghdad dopo l'invasione statunitense del 2003. Alcune centinaia di migliaia di persone sono state costrette ad andare a vivere in alloggi di fortuna, spesso costruiti da loro stessi con lamiere o pezzi di legno, a causa delle guerre, dei conflitti religiosi ed etnici, della crisi economica. In Iraq non esiste un censimento ufficiale né tantomeno è possibile avere dati certi su quante persone vivono in posti come Nasr City. Quelli che ci abitano pensano di essere almeno mezzo milione, mentre il governatore della regione di Baghdad stima in 600mila gli sfollati nei 42 campi abusivi intorno alla città, ma quest'ultimo dato è probabilmente calcolato per difetto. Visto che Nasr City ufficialmente non esiste, non ci sono elettricità, acqua potabile e fognature, così come mancano scuole e presidi sanitari; le forze di polizia non entrano nell'insediamento.
L'economia di Nasr City è basata essenzialmente sui rifiuti. Ogni giorno, prima che sorga il sole, un esercito di pezzenti esce dallo slum per andare a Baghdad e setacciare l'immondizia prima che passino gli automezzi per la raccolta. Leland ha seguito per un giorno qualcuno di loro. Tarish, 22 anni, una moglie e due figli, è riuscito a raccogliere otto chili e mezzo di lattine, un grosso rottame di ferro e mezzo chilo di cavo elettrico, da cui ha bruciato l'isolante: una giornata fortunata che gli ha fruttato 10 dollari. La sua media è di 4 dollari al giorno. Anche Hasun, 27 anni, una moglie e quattro figli, è uno dei diseredati di Nasr City, ma fa l'intermediario, ha un carretto, compra dai raccoglitori come Tarish e rivende a chi gestisce il commercio dei rifiuti: per Hasun in un giorno fortunato il guadagno può arrivare fino a 20 euro, ma deve mantenere anche il cavallo per trainare il carretto.
Raccogliere i rifiuti è illegale, anche se in qualche modo favorito dall'inefficienza del servizio di raccolta e di smaltimento "ufficiale". Il sindaco di Baghdad ha progettato la realizzazione di due impianti di riciclaggio e il potenziamento del servizio di raccolta nelle ore notturne per impedire il fenomeno dei raccoglitori, "poiché sono un'onta per la nostra società". E' facile capire che il problema dei raccoglitori abusivi non si potrà risolvere, eliminando i rifiuti dalle strade, ma soltanto offrendo loro una reale opportunità di lavoro. Raccogliere rifiuti può anche essere un rischio; in alcuni casi le forze di sicurezza hanno scambiato i raccoglitori per attentatori impegnati a piazzare ordigni esplosivi: alcuni di loro sono stati arrestati, altri sono morti.
Quando nei vertici internazionali si ragiona sulla soluzione politica del conflitto iracheno ci si dimentica di Tarish, di Hasun e delle migliaia di persone che, come loro, ogni giorno vivono racattando i rifiuti. Epure loro hanno diritto di essere ricordati: se non si risolve la loro condizione è impossibile perfino immaginare una pace.

lunedì 17 gennaio 2011

Considerazioni libere (198): a proposito della forza delle rivoluzioni...

Mentre in Italia ogni nostra attenzione è ormai diretta a scoprire l'identità della misteriosa, quanto provvidenziale, fidanzata del capo del governo, in Tunisia è successo qualcosa le cui conseguenze sono al momento difficili da prevedere, ma di cui dovremo, in ogni caso, tenere conto.
Come è noto, si è letteralmente disciolto il regime autocratico del presidente Ben Ali. Per chi ha un po' di memoria non credo sfugga l'analogia con il modo in cui finirono una ventina d'anni fa i regimi comunisti nell'Europa dell'est. Non a caso ho usato il verbo "disciolto", perché ciò che colpì allora - e colpisce oggi, pur nelle mutate condizioni - è il fatto che all'improvviso quei regimi, fino ad allora potenti e temuti, si rivelarono gusci vuoti, incapaci di resistere a dei moti popolari, che probabilmente non si attendevano quell'esito imprevisto e imprevedibilie.
In Tunisia è avvenuto più o meno lo stesso. Il regime di Ben Ali, nonostante abbia cercato di mantenere un volto presentabile, per compiacere i propri alleati occidentali, è stato un regime che ha fortemente compresso, anche con metodi violenti, le libertà fondamentali e in cui il potere era accentrato nelle mani, sempre più voraci, della famiglia del presidente. Per inciso trovo penoso il tentativo di De Michelis di giustificare quel regime, per cui ha coniato la formula "democratura": in Tunisia c'era una dittatura, semplicemente, difesa da Craxi prima, che ne ottenne in cambio protezione quando divenne latitante, e in seguito da Berlusconi, i cui interessi economici, attraverso il fido Ben Ammar sono ben noti. De Michelis non scorda di essere stato - e di essere ancora - servo di qualche potente. Il sistema di potere di Ben Ali ora non c'è più, i membri della famiglia si sono dati disordinatamente alla macchia , rubando quello che ancora potevano rubare, e la potente polizia tenta un'inutile, quanto cruenta, difesa delle proprie casematte.
Il regime è crollato sotto il peso di manifestazioni dettate più dalla disperazione e dalla fame che da un preciso disegno politico. La fine del regime è cominciata come una rivolta per il pane. Due giorni fa ho pubblicato su questo blog alcuni paragrafi de I promessi sposi, quelli in cui Manzoni racconta le cause e le conseguenze del cosiddetto tumulto di San Martino, in cui immagina rimanga coinvolto il povero Renzo. Guardando le immagini di Algeri prima e di Tunisi poi, la disperazione di quelle folle, fatte soprattutto di donne, le meschinerie dei tanti Ferrer, i calcoli dei troppi profittatori, mi era sembrato un testo quanto mai attuale. Ma poi è successo qualcosa in più.
Grazie anche alla potenza di internet, alla diffusione di Facebook e dei blog. La rivolta di Tunisi è anche la prima in cui la rete è stata ben più influente di qualunque altro mezzzo di comunicazione.
Vedremo quali saranno le conseguenze, soprattutto se la rivolta avrà la forza di estendersi nel resto del Maghreb: i segnali ci sono. I veri democratici dovrebbero sperare che davvero da Tunisi possa partisse un effetto a catena, come è stato quello che ha portato al crollo, uno dopo l'altro, dei regimi del patto di Varsavia; speriamo che da Rabat fino al Cairo quei regimi abbiano dentro si sé un tarlo che ne abbia ormai minato le radici. Leggo stamattina che il nostro sedicente ministro degli esteri - che ha qualche problema con i fondamentali della democrazia - si augura che Gheddafi e Mubarak rimangano ben in sella; ma questa è un'altra storia.
C'è purtroppo una grande differenza con quello che è successo in Europa all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Quei paesi che all'improvviso si erano trovati - perdonate il gioco di parole - letteralmente spaesati, avevano però la prospettiva di poter far parte del processo di integrazione europea, avevano una meta, un luogo verso cui dirigersi. Con tutti i suoi limiti, l'Europa per quei paesi è stata un punto d'arrivo, raggiungibile, per quanto lontano. E l'Europa, dal canto suo, seppe fare la sua parte; disse Willy Brandt, quando cadde il muro di Berlino "oggi cresce assieme, ciò che assieme appartiene". A parte il fatto che mancano ora voci come quella di Brandt, oggi nessun leader europeo saprebbe offrire la stessa prospettiva ai paesi della costa meridionale del Mediterraneo. Eppure la loro storia è anche la nostra storia: nessuno, ad esempio, può negare che l'algerino Agostino sia uno dei più influenti pensatori occidentali. L'ho già scritto a proposito della Turchia - nella "considerazione" nr. 181, per la precisione: la nostra storia, la nostra cultura, il nostro sentire profondo di europei è inseparabile dalla storia, dalla cultura, dal sentire profondo di quei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. I nostri attuali governi, nella loro piccineria, guardano con paura alla fine dei regimi dittatoriali nell'Africa del nord, perché temono l'arrivo di nuovi immigrati. Dovrebbero provare - e noi con loro - a immaginare invece le grandi opportunità che potrebbero nascere da quelle rivolte.

domenica 16 gennaio 2011

Considerazioni libere (197): a proposito di minoranze...

La prima immagine di questo nuovo anno è stata il volto del Cristo della chiesa dei Due Santi di Alessandria d'Egitto macchiato dal sangue delle vittime di un attentato suicida, in cui sono morti 23 egiziani copti. L'attentato di Alessandria non è stato isolato: in altre parti del mondo i cristiani sono stati attaccati, nel tentativo di rinfocolare uno scontro di civiltà, mai davvero sopito, tra il mondo cristiano e occidentale e il mondo musulmano e orientale.
Intanto c'è un equivoco di fondo, che sarebbe bene cominciare a sfatare. Cristiano e occidentale non sono esattamente sinonimi, come ci ricorda lo stesso papa, sempre più preoccupato della da lui temuta scristianizzazione del nostro mondo, e come ci testimoniano le idee illuminista e socialista; così come non sono sinonimi musulmano e orientale, come ci dimostrano proprio i copti e il diffondersi, pur con difficoltà, delle idee laiche e democratiche anche in quei paesi. Eppure in tanti fanno in modo di alimentare questo equivoco, per tener vivo un conflitto che costituisce per alcuni la base del proprio potere e delle proprie ricchezze.
In questi giorni non sono mancati naturalmente gli attestati di solidarietà ai copti, soprattutto da parte di chi - vedi il nostro cosiddetto governo - fino all'altro ieri non sapeva nemmeno che esistessero i copti e faceva - e fa - ottimi affari con un leader antidemocratico come Mubarak, che non ha certo difeso quella minoranza. Ma, ormai è chiaro, ogni occasione è buona per baciare qualche anello cardinalizio.
A me piacerebbe partire da un punto di vista diverso, per evitare le solite contrapposizioni. La vicenda di Alessandria mi ha fatto riflettere su quanto sia difficile essere una minoranza, anche quando, come nel caso dei copti, si vive da secoli nel proprio paese. Nulla, se non le convinzioni religiose, distingue un egiziano musulmano da un egiziano copto, hanno la pelle dello stesso colore, parlano la stessa lingua, sono nati nello stesso luogo. Così come nulla distingueva gli ebrei nella lunga storia della loro persecuzione, se non i pregiudizi dei gentili. Gli egiziani copti hanno assistito alla graduale diminuzione degli spazi, anche fisici, per esprimere la propria fede; poi è stato sempre più difficile per loro avere ruoli nella vita politica, economica, culturale.
Non è facile capire come deve sentirsi chi diventa sempre più straniero nel paese in cui è nato, in cui sono nati i suoi genitori, in cui sono nati i suoi nonni e così via. Pensiamo allora come deve sentirsi chi è straniero davvero, chi ha un colore di pelle diverso, chi parla un'altra lingua, quando si trova a essere minoranza in un paese, la cui maggioranza gli è, più o meno esplicitamente, ostile. Proviamo a partire da qui, da questa doppia idea di minoranza, per cominciare a sconfiggere le pulsioni, sempre latenti, del conflitto. L'occidente può indignarsi con diritto per le condizioni dei cristiani nei paesi a prevalenza musulmana e può condannare gli attentati che essi subiscono, soltanto se è capace di esprimere lo stesso sdegno e di mobilitarsi con la stessa tensione civile, quando a essere vittime sono i musulmani nei loro e nei nostri paesi. Il clima di conflitto si sconfigge eliminando la sfiducia generalizzata verso l'islam, che è diventata ormai maggioritaria negli Stati Uniti e in Europa, sfiducia che sentono sulla propria pelle i musulmani che vivono tra di noi, impegnati con complessi meccanismi di integrazione, e che spesso si vedono negare il diritto di avere luoghi dove esprimere la propria fede.
Importante è non considerare il conflitto come un fenomeno irreversibile e provare, quando si è maggioranza, provare a vedere le cose che ci stanno intorno con gli occhi di chi è minoranza.

sabato 15 gennaio 2011

da "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni

Era quello il second'anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti e abbandonati da' contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d'andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell'ordinario; perché le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e con un'insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe alloggiate ne' paesi, condotta che i dolorosi documenti di que' tempi uguagliano a quella d'un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d'un mal cronico. E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l'esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.

Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d'averla temuta, predetta; si suppone tutt'a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl'incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l'abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S'imploravan da' magistrati que' provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l'abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d'alcune derrate, d'intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d'attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de' rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de' più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l'uomo secondo il suo cuore.

Nell'assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l'assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l'avrebbe veduto? che l'essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo.

Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d'una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all'esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l'era una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall'altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c'era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quell'impresa, non bastava che fosse lor comandato, né che avessero molta paura; bisognava potere: e un po' più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l'iniquità e l'insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l'altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s'erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s'avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell'abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l'impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l'odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d'Antonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.

Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s'immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l'autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l'altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d'allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c'era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.

[...]

La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda. I mezzi erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col fine, il lettore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti. È poi facile anche vedere, e non inutile l'osservare come tra quegli strani provvedimenti ci sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell'antecedente, e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla proporzione tra il bisogno e la quantità. Alla moltitudine un tale espediente è sempre parso, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all'equità, altrettanto semplice e agevole a mettersi in esecuzione: è quindi cosa naturale che, nell'angustie e ne' patimenti della carestia, essa lo desideri, l'implori e, se può, l'imponga. Di mano in mano poi che le conseguenze si fanno sentire, conviene che coloro a cui tocca, vadano al riparo di ciascheduna, con una legge la quale proibisca agli uomini di far quello a che eran portati dall'antecedente. Ci si permetta d'osservar qui di passaggio una combinazione singolare. In un paese e in un'epoca vicina, nell'epoca la più clamorosa e la più notabile della storia moderna, si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti (i medesimi, si potrebbe quasi dire, nella sostanza, con la sola differenza di proporzione, e a un di presso nel medesimo ordine) ad onta de' tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa, e in quel paese forse più che altrove; e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge.

Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de' conti, i frutti principali della sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s'aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov'era la casa del vicario di provvisione.

Del resto, le relazioni storiche di que' tempi son fatte così a caso, che non ci si trova neppur la notizia del come e del quando cessasse quella tariffa violenta. Se, in mancanza di notizie positive, è lecito propor congetture, noi incliniamo a credere che sia stata abolita poco prima o poco dopo il 24 di dicembre, che fu il giorno di quell'esecuzione. E in quanto alle gride, dopo l'ultima che abbiam citata del 22 dello stesso mese, non ne troviamo altre in materia di grasce; sian esse perite, o siano sfuggite alle nostre ricerche, o sia finalmente che il governo, disanimato, se non ammaestrato dall'inefficacia di que' suoi rimedi, e sopraffatto dalle cose, le abbia abbandonate al loro corso. Troviamo bensì nelle relazioni di più d'uno storico (inclinati, com'erano, più a descriver grand'avvenimenti, che a notarne le cagioni e il progresso) il ritratto del paese, e della città principalmente, nell'inverno avanzato e nella primavera, quando la cagion del male, la sproporzione cioè tra i viveri e il bisogno, non distrutta, anzi accresciuta da' rimedi che ne sospesero temporariamente gli effetti, e neppure da un'introduzione sufficiente di granaglie estere, alla quale ostavano l'insufficienza de' mezzi pubblici e privati, la penuria de' paesi circonvicini, la scarsezza, la lentezza e i vincoli del commercio, e le leggi stesse tendenti a produrre e mantenere il prezzo basso, quando, dico, la cagion vera della carestia, o per dir meglio, la carestia stessa operava senza ritegno, e con tutta la sua forza.

"Ode al pane" di Pablo Neruda


Del mare e della terra faremo pane,
coltiveremo a grano la terra e i pianeti,
il pane di ogni bocca,
di ogni uomo,
ogni giorno
arriverà perché andammo a seminarlo
e a produrlo non per un uomo
ma per tutti,
il pane, il pane
per tutti i popoli
e con esso ciò che ha
forma e sapore di pane
divideremo:
la terra,
la bellezza,
l’amore,
tutto questo ha sapore di pane.

martedì 11 gennaio 2011

Considerazioni libere (196): a proposito di un bambino morto troppo presto...

Il fatto, purtroppo, è noto: Devid, un bambino di venti giorni, è morto di broncopolmonite qualche giorno dopo Capodanno in piazza Maggiore, a Bologna: viveva per strada, insieme ai genitori, al gemello e alla sorella di un anno e mezzo.
La notizia è stata per me, come per molti di voi, un pugno nello stomaco: è stato difficile non commuoversi, come è impossibile, ancora adesso, non incazzarsi, ma è un dovere non cadere nella retorica e nelle frasi fatte. Bisogna provare a capire cosa è successo. Io non lo so, provo a fare delle domande, cercando anche qualche risposta. Il fatto è successo da poco, le notizie sono frammentarie e un po' confuse, e frammentarie sono, giocoforza, queste mie riflessioni.
Primo. E' molto difficile, quasi impossibile, aiutare chi non vuole essere aiutato o chi ne ha paura. La madre di Devid è una giovane donna fragile, che ha vissuto molto, che ha sofferto molto e che probabilmente non è molto consapevole di quello che ha fatto e che fa. Forse non è neppure stata aiutata nel modo giusto. In precedenza, in due momenti diversi, i servizi sociali hanno deciso che non sarebbe stata una buona madre e le hanno tolto due figli, dati poi in affidamento. In seguito a queste esperienze, viveva nella paura che quell'episodio si ripetesse anche con gli altri tre figli. Siamo sicuri che non sarebbe stata una buona madre? Essere poveri non significa per forza essere cattivi genitori, significa soltanto non avere i mezzi sufficienti per far crescere adeguatamente un bambino. E' molto più semplice togliere il figlio a una madre povera piuttosto che fare in modo che quella madre e quel bambino non siano più poveri, magari cercando di insegnarle come essere una madre migliore. Devid è morto anche per questa sorta di determinismo sociale, per cui un povero non può essere un buon genitore.
Secondo. Da quello che emerge in questi giorni i tre bambini e i loro genitori sono stati l'oggetto di alcune mail scritte nel mese di dicembre. Il 13 dello scorso mese, subito dopo il parto, è partita una mail - informale, secondo i medici - dall'ospedale Sant'Orsola indirizzata ai servizi sociali del Quartiere Santo Stefano per sapere se la famiglia era conosciuta; il giorno dopo è arrivata - si suppone in modo altrettanto informale - la risposta affermativa, ma poi le comunicazioni si sono interrotte. Il 30 dicembre gli operatori della biblioteca in cui la famiglia passava le giornate hanno scritto una mail ai servizi sociali del Quartiere Saragozza per segnalare la cosa; la mail è stata girata agli uffici del Quartiere Santo Stefano e nuovamente le comunicazioni si sono interrotte. Probabilmente nessuno è penalmente responsabile, tutti hanno fatto quello che è previsto dalle proprie funzioni, eppure Devid è morto. Le giustificazioni sono molte: il Comune di Bologna è commissariato, i servizi sono decentrati, le risorse sono insufficienti, il personale è poco e comunque ha diritto a fare le ferie, i documenti erano in regola. Probabilmente nessuno di chi ha scritto e letto queste mail ha parlato con la madre di Devid. Un medico che non si fosse limitato a far nascere il bambino, ma avesse parlato con la madre, avrebbe forse preso un'altra decisione e comunque non si sarebbe accontentato di dimettere madre e figli dopo pochi giorni. Ma ormai i protocolli degli ospedali prevedono degenze il più brevi possibile e ritmi di lavoro sempre più intensi.
Terzo. La famiglia di Devid è conosciuta dai servizi sociali del Comune, dalla Caritas, dall'Antoniano, dall'associazione Piazza grande, ma nessuno ha avuto le risorse e le capacità per intervenire. Da alcuni anni, quelli che capiscono ci spiegano che il modo migliore per gestire i servizi è la sinergia tra pubblico e privato, la sussidiarietà variamente interpretata; nessuno di loro però ci ha detto che la somma delle debolezze non fa una forza e qui il caso è del tutto evidente: la somma di tante debolezze non è stata in grado di salvare la vita a Devid.
Quarto. Di chi è la colpa? Naturalmente nessuno dice di essere direttamente responsabile, al massimo fa intuire che qualcun altro potrebbe avere qualche colpa. La incomprensibilmente lodata Commissaria dice che non ha responsabilità e che anzi ha sempre detto che questo modello di gestione dei servizi non funziona; i servizi dicono di non avere colpa, perché dal 30 dicembre , ultimo giorno in cui la famiglia è stata segnalata al 4 gennaio, giorno in cui Devid è morto, "è un lasso di tempo minimo, fra l'altro sono giorni di festa"; i medici dicono che hanno fatto il loro dovere e che anzi, quando è uscito dall'ospedale, stava proprio bene; le associazioni dicono che hanno fatto il possibile e chiedono più risorse, in nome della sussidiarietà; e così via. La colpa si sta spostando sempre più sui genitori, che certamente hanno delle responsabilità, ma sono anch'esse vittime - specialmente la madre - di questa situazione. Io un'idea di chi è la colpa ce l'avrei, ma non vale perché, essendo il solito comunista, penso che sia responsabilità della società, che non tutela né l'infanzia né la maternità, non fa in modo di eliminare la povertà e le diseguaglianze, si dimentica dei tanti Devid che vivono nelle nostre città.

domenica 9 gennaio 2011

Palmiro Togliatti pronuncia l'orazione funebre per i sei operai uccisi a Modena il 9 gennaio 1950

Alle salme dei sei cittadini di Modena, caduti nelle vie di questa città il giorno 9 gennaio, ai familiari affranti dal lutto, alla città intera, che abbiamo visto stamane ancora impietrita dallo stupore e dal dolore, ai lavoratori di Modena e di tutta l'Emilia qui convenuti e qui presenti, porto l'espressione della solidarietà e del cordoglio profondo del Partito Comunista Italiano, del partito di Antonio Gramsci, del partito che lavora nello spirito di Lenin e di Stalin.
Credo però che nessuno, in questo momento ed in questa circostanza, vorrà contestarmi il diritto di recarvi l'espressione della solidarietà e del cordoglio di tutti gli italiani i quali hanno senso di umanità e di fraternità civile.
Vero è che in questo momento, di fronte alla maestà infinita della morte, di fronte allo schianto dei familiari e al dolore di tutto il popolo, di fronte agli occhi vostri pieni di lagrime, io sento soprattutto la vanità dì tutte le parole umane.
Ma parlare bisogna, perché voi, compagni e fratelli nostri, non siete caduti vittima di un tragico equivoco. Prima di voi, nelle stesse condizioni, per le stesse cause, altri lavoratori sono caduti e continuano a cadere. La fine vostra è indice di una tragedia che investe tutto il popolo, che tocca la vita stessa della nazione italiana.
Ed allora parlare bisogna, e chiaramente bisogna parlare; e debbono parlare chiaramente, prima di tutto, i partiti e gli uomini che si sentono legati al popolo da inscindibili legami, e che sentono rivolgersi verso di loro la fiducia e l'attesa dei lavoratori.
Bene hai fatto, o città di Modena, città eroica e gloriosa, medaglia d'oro della guerra per la libertà d'Italia, madre di lavoratori coraggiosi e disciplinati; bene hai fatto ad avvolgere le bare di questi tuoi figlioli caduti, nel drappo dei colori nazionali. Questo drappo e questi colori sono il simbolo della nostra unità, dell'unità della patria e dì tutti i cittadini italiani nella difesa dei valori essenziali della nostra esistenza. Tutta la nostra vita, tutta la vita e tutta la lotta del nostro partito, ci fanno fede che io non vorrei pronunciare, in questo momento, altre parole che non fossero un appello severo ad unirsi tutti, davanti a queste bare, per deprecare ciò che è accaduto, per respingere questa macchia dalla realtà della vita del nostro paese.
Ma voi, voi siete stati uccisi!
In uno Stato che ha soppresso la pena di morte anche per i più efferati tra i delitti, voi siete stati condannati a morte, e la sentenza è stata su due piedi eseguita nelle vie della città, davanti al popolo inorridito.
Chi vi ha condannati a morte? Chi vi ha ucciso? Un prefetto, un questore irresponsabili e scellerati? Un cinico ministro degli interni. Un presidente del consiglio cui spetta solo il tristissimo vanto di aver deliberatamente voluto spezzare quella unità della nazione che si era temprata nella lotta gloriosa contro l'invasore straniero; di aver scritto sulle sue bandiere quelle parole di odio contro i lavoratori e di scissione della vita nazionale che ieri furono del fascismo e oggi sono le sue?
Voi chiedevate una cosa sola, il lavoro, che è la sostanza della vita di tutti gli uomini degni di questo nome. Una società che non sa dare lavoro a tutti coloro che la compongono è una società maledetta. Maledetti sono gli uomini che, fieri di avere nelle mani il potere, si assidono al vertice di questa società maledetta, e con la violenza delle armi, con l'assassinio e l'eccidio respingono la richiesta più umile che l'uomo possa avanzare: la richiesta di lavorare.
È stato detto che questo stato di cose deve finire. È stato detto: basta!
Ripetiamo questo basta, tutti assieme, dando ad esso la solennità e la forza che promanano da questa stessa nostra riunione. Ma dire basta, non è sufficiente, perché gli assassinii e gli eccidi si succedono come le note di una tragedia, in modo tale che non ha nessun precedente nel nostro paese, e che tutti riempie di orrore. Non è sufficiente dire basta, dobbiamo impegnarci a qualche cosa di più. Noi vogliamo la pace sociale e la pace tra i popoli. Anche a questo governo ed agli uomini che lo dirigono abbiamo offerto e chiesto una politica di distensione e di pace. A milioni di lavoratori che appoggiavano questa nostra offerta e richiesta, si è risposto con le armi da fuoco, con l'assassinio, con l'eccidio. Non possiamo non tener conto di questa risposta. È di fronte ad essa che dobbiamo assumerci un nuovo impegno.
Come partito dì avanguardia della classe operaia e del popolo italiano, coscienti della nostra forza che ci ha consentito di conchiudere vittoriosamente cento battaglie, ci impegnarono ad una nuova, più vasta lotta, in difesa della esistenza, della sicurezza, degli elementari diritti civili dei lavoratori.
Ci impegniamo a svolgere un'azione tale, di propaganda, di agitazione, di organizzazione, che raccolga ed unisca in questa lotta nuovi milioni e milioni di lavoratori, tutte le forze sane del popolo italiano. Ci impegniamo a preparare e suscitare un movimento tale, un sussulto proveniente dal più profondo stato di cose che grida vendetta al cospetto di Dio.
E voi, compagni e fratelli caduti, Angelo Appiani di anni 30; Alberto Rovati di anni 36; Arturo Malagoli di anni 21; Ennio Garagnani di anni 21; Renzo Bersani di anni 21; Arturo Chiappelli di anni 43, riposate!
Non oso, non son capace di dirvi: riposate in pace! Troppo breve, troppo tempestosa, tragicamente troncata è stata la vostra esistenza. Troppo grave è l'appello che esce dalle vostre bare.
Ma voi, madri, sorelle, spose, non piangete! Non piangiamo, lavoratori di Modena. Sia l'acre sapore delle lagrime, per non piangere, inghiottito, stimolo aspro al lavoro nuovo, alla lotta!
Dobbiamo far uscire l'Italia da questa situazione dolorosa. Vogliamo che l'Italia diventi un paese civile, dove sia sacra la vita dei lavoratori, dove sacro sia il diritto dei cittadini al lavoro, alla libertà, alla pace!
Andiamo avanti, grazie allo sforzo unito di tutti i lavoratori, di tutto il popolo italiano; nostra deve essere, nostra sarà la vittoria!
Allora anche voi, compagni e fratelli caduti, riposerete in pace!

sabato 8 gennaio 2011

Considerazioni libere (195): a proposito di una scommessa persa...

Secondo i dati diffusi da Google, "Haiti" è stata la parola più cercata nella sezione News nel 2010. Apparentemente non c'è nulla di strano; il 13 gennaio dell'anno scorso c'è stata nell'isola caraibica una catastrofe di proporzioni incredibili: delle 295mila persone morte a causa di disastri naturali nel 2010 sull'intero pianeta, 222.570 sono morte ad Haiti, il 75%. C'è però un altro dato che va considerato: le ricerche si sono concentrate nel mese di gennaio. Già a febbraio le ricerche su Haiti si sono incredibilmente ridotte, superando di poco lo zero. In buona sostanza, l'opinione pubblica si è interessata alla sorte di Haiti unicamente durante le due settimane successive al sisma, per poi dimenticarsene altrettanto rapidamente. Se potessimo analizzare i minuti dedicati ad Haiti nei telegiornali o gli articoli scritti sul tema, sono convinto che scopriremmo un fenomeno di analoghe proporzioni.
Non so quanti di voi sanno se ad Haiti è ancora operativo il contingente interforze inviato dall'Italia alla fine di gennaio. Io sinceramente non lo so; ricordo che fu data una certa enfasi alla partenza delle nostre truppe, ma non si è saputo nulla delle condizioni in cui si sono trovate a lavorare là, né dei risultati che hanno raggiunto. Non ho trovato nella rete traccia di questa missione: altro segno del generale disinteresse verso quel popolo e le sofferenze che ha subito.
Nell'anno passato ho cercato di occuparmi di Haiti su questo blog. A giugno - è la "considerazione" nr. 120, se vi interessa - ho riportato il racconto che Damien Cave aveva fatto sul New York Times sull'incapacità di avviare la ricostruzione. In altre "considerazioni" ho cercato di parlare delle cause di fondo che, oltre al sisma, hanno costretto quel paese alla miseria.
La situazione del popolo haitiano in questi dodici mesi successivi al sisma è, se possibile, ulteriormente peggiorata. Il 92% delle macerie si trova esattamente dov'era il 13 gennaio; un milione di persone, di cui la metà bambini, vivono ancora nelle tende di fortuna approntate all'indomani del terremoto. Le cattive condizioni igieniche hanno favorito la diffusione di un'epidemia di colera, che si è sviluppata all'interno della base delle truppe nepalesi dell'Onu: i morti registrati sono più di 3.300 e gli infettati già oltre i 150mila. Subito dopo il sisma, Amnesty International aveva denunciato il rischio che Haiti diventasse una sorta di grande supermercato per i trafficanti di esseri umani. Il rischio è diventato realtà: si calcola che ogni giorno spariscano da Haiti cinquanta giovani, specialmente ragazze, che vanno ad alimentare il mercato del sesso.
A un anno dal terremoto Haiti non è riuscita a darsi un nuovo governo: le elezioni si sono svolte in un clima di violenza. Il ballottaggio è stato per ora rimandato, ma è evidente che qualunque sarà l'esito del voto provocherà nuove ondate di violenza. I paesi occidentali hanno sostanzialmente dimenticato Haiti. Obama, che pure aveva mostrato una particolare attenzione alle vicende di quel paese, lo ha abbandonato a se stesso. Come dimostrano i dati di Google che ho citato prima, tutti abbiamo fatto più o meno lo stesso: Haiti è così lontana, finite le immagini, finito il dolore. Eppure in quell'angolo remoto della terra abbiamo perso una grande scommessa: l'idea che uno sviluppo diverso, a partire da un evento così tragico, potesse realizzarsi.

venerdì 7 gennaio 2011

"Che farei senza questo mondo" di Samuel Beckett


Che farei senza questo mondo senza faccia né domande
dove essere non dura che un attimo dove ogni istante
si versa nel vuoto nell'oblio di essere stato
senza quest'onda dove alla fine
corpo e ombra sprofondano insieme
che farei senza questo silenzio abisso dei bisbigli
ansimante furioso verso il soccorso verso l'amore
senza questo cielo che si innalza
sulla polvere delle sue zavorre
che farei farei come ieri come oggi
guardando dal mio oblò se non sono solo
a errare e girare lontano da ogni vita
in uno spazio burattino
senza voce tra le voci
rinchiuse con me.
A meno che ti amino.

Considerazioni libere (194): a proposito di chi decide e di chi subisce le decisioni...

Nel giugno scorso la Shell ha inaugurato nella regione di Gbaran-Ubie, nel delta del Niger, un grande impianto "integrato" per la produzione di petrolio e gas naturale; l'impianto entrerà a pieno regime nei prossimi mesi e sarà in grado di estrarre e raffinare un miliardo di metri cubi di metano al giorno, un quarto dell'intera produzione nigeriana. Questa è sicuramente una buona notizia per i nostri paesi, sempre più affamati di energia.
Sicuramente non è una buona notizia per chi vive vicino all'impianto, a Koroama. In questo paese manca l'acqua da sei mesi, perché il fiume è stato completamente dragato; da giugno l'impianto lavora ininterrottamente e non è mai diminuito il livello dei cattivi odori sprigionati dalle fiamme, e presumibilmente i livelli di inquinanti liberati nell'aria; Koroama è attraversata da due grandi oleodotti, anche se uno studio di sostenibilità ambientale del governo nigeriano ne vietava la costruzione. La Shell aveva preso l'impegno con le comunità locali di assicurare la fornitura di acqua potabile, di ridurre progressivamente le emissioni di gas, di sistemare i danni provocati dai lavori. Questi impegni, nonostante le proteste dei cittadini di Koroama - specialmente le donne, in prima fila nella battaglia - sono rimasti lettera morta, così come la promessa di assumere 300 persone: la Shell ha portato da fuori tecnici e operai.
La Nigeria è il maggior produttore africano di petrolio e l'ottavo nel mondo: l'8% del petrolio utilizzato negli Stati Uniti arriva dal delta del Niger. Tra i dispacci diplomatici pubblicati in queste settimane da Wikileaks ci sono anche quelli che descrivono i rapporti tra il governo statunitense e la compagnia petrolifera. "Il governo [nigeriano] si è dimenticato che la Shell ha uomini in tutti i ministeri più importanti e che di conseguenza ha accesso a tutto quello che viene fatto all'interno di questi ministeri", ha detto, senza mezzi termini, il vicepresidente della Shell per l'Africa subsahariana all'ambasciatore americano. In altri documenti si legge che tra Shell e Dipartimento di Stato c'è un "normale" scambio di informazioni di intelligence: la compagnia rivela i nomi dei politici nigeriani sospettati di avere rapporti con la guerriglia, mentre il governo degli Usa offre informazioni sulle attività dei guerriglieri che potrebbero danneggiare la Shell.
Di fatto il governo nigeriano è semi-indipendente, si trova sotto una forma di protettorato, non definito da nessun trattato internazionale, ma assicurato dalle ferre leggi degli interessi economici. In Nigeria non comandano gli Usa, ma la Shell e quindi il livello di controllo democratico si allontana enormente dalla possibilità di intervento dei cittadini. Potremmo ancora sperare di incidere sui comportamenti dei nostri rappresentanti, per quanto difficile, ma è ormai impossibile incidere sulle decisioni di azionisti che non conosciamo e che sono ben più potenti dei governi che noi eleggiamo. Almeno noi beneficiamo del metano. All'ultimo gradino ci sono gli africani, per cui la ricchezza di pochi e le nostre comodità rappresentano soltanto siccità, inquinamento, povertà.

mercoledì 5 gennaio 2011

Considerazioni libere (193): a proposito di vittime e di terroristi...

In un primo momento avevo deciso di non scrivere nulla sul cosiddetto caso Battisti. Mi pare che il centrodestra utilizzi questo tema in maniera strumentale; B e i suoi gerarchetti si esercitano a fare la faccia truce, sperando di far dimenticare che di fatto non c'è più una solida maggioranza parlamentare e che il governo continua a vivere solo grazie alla paura delle elezioni che hanno i partiti di opposizione, di destra, di centro e di sinistra. L'elemento più interessante dell'intera vicenda è l'ormai acquisita consapevolezza che il Brasile è diventato uno dei nuovi protagonisti della politica internazionale: penso che Lula si sia interessato ben poco della storia personale e politica di Battisti e che sia prevalsa la voglia di prendere a pesci in faccia un paese dell'ormai decaduto club dei G7. Inoltre sulla credibilità all'estero di B e del suo vacuo ministro degli esteri è meglio stendere un velo pietoso.
Ho cambiato idea, tediando i miei sparuti lettori con questa lunga premessa, perché il caso Battisti mi ha portato a una riflessione più interessante, che voglio condividere con voi. La vicenda del terrorista dei Pac e i commenti che ne sono seguiti dimostrano ancora una volta che il nostro paese non ha fatto i conti con il fenomeno del terrorismo politico che lo ha colpito dalla fine degli anni Sessanta alla prima metà degli Ottanta.
Di quel periodo e di quello che ha significato nella storia italiana parlano unicamente o le vittime e i loro familiari o gli stessi ex-terroristi: francamente nessuna delle due "categorie" può dare un giudizio sereno e obiettivo su quei fatti. Non voglio affatto sminuire l'altissimo valore morale e civile della testimonianza e dell'impegno dei familiari delle vittime e delle loro associazioni, che sono rimasti soli nella loro sacrosanta battaglia per la verità. Proprio per questo penso che non si possa chiedere a loro di svolgere una funzione che dovrebbe essere svolta dalle istituzioni. Recentemente un magistrato incapace ha vincolato la sua decisione di autorizzare uno sconto di pena per un terrorista all'approvazione dei familiari delle sue vittime. A chi ha perso un padre, un marito, un figlio non si può chiedere di essere santi e sante, non si può negare loro il desiderio, più o meno esplicito, di avere vendetta e non solo giustizia. Torregiani del tutto legittimamente potrebbe chiedere che Battisti fosse incarcerato per sempre.
Trovo poi difficilmente accettabile che alcuni ex-terroristi salgano in cattedra - in alcuni casi non solo metaforicamente - non per spiegare e raccontare tutta la verità, ma quasi per rivendicare alcune scelte di quegli anni, per giustificare e giustificarsi. Chi ha ucciso, chi ha usato la violenza per sostenere le proprie idee politiche, non ha diritto a simili platee.
Uno stato serio, passati ormai alcuni anni da quei momenti così drammatici, dovrebbe fare una grande operazione di verità. Assicurati prima di tutto i rimborsi e i diritti alle vittime e alle loro famiglie - che invece ora troppo spesso sono bloccati e ritardati da leggi cervellotiche e da una burocrazia ottusa - uno stato serio dovrebbe proporre una riflessione nazionale su un fenomeno storico che non solo ha sconvolto la vita di tante famiglie, ma ha oggettivamente cambiato il corso della storia nazionale. Senza gli attentati neofascisti di piazza Fontana e di piazza della Loggia da un lato e senza il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro d'altro il corso degli eventi sarebbe stato certamente diverso. Fatta questa riflessione, fatti conti con la verità, si potrebbe anche immaginare una soluzione extragiudiziale per gli ex-terroristi, almeno per quelli che avessero collaborato davvero alla riscrittura di quelle pagine di storia. Purtroppo questa storia non la si vuole raccontare, evidentemente perché nasconde troppi segreti. Perché non sappiamo ancora chi non volle fermare o, peggio ancora, utilizzò i peggiori gruppi neofascisti, perché non sappiamo ancora chi guardò con favore alla morte di Moro, perché non sappiamo perché fu messa una bomba così potente nella sala d'attesa di seconda classe della stazione di Bologna.
Finché non sapremo cosa avvenne davvero, ascolteremo ancora troppe storie autoassolutorie da parte di ex-terroristi e ascolteremo ancora le richieste di verità delle vittime.

martedì 4 gennaio 2011

Considerazioni libere (192): a proposito di anniversari e festeggiamenti...

Mi sembra doveroso dedicare la prima "considerazione" dell'anno al 150° anniversario dell'unità d'Italia, per scusarmi anticipatamente con il Presidente Napolitano: non festeggerò questo anniversario e francamente non trovo ci sia nulla da festeggiare.
Da cittadino festeggio il 25 aprile e il 2 giugno, la Liberazione e la Repubblica; poi ricordo una serie di anniversari, il 12 dicembre, il 28 maggio, il 2 agosto e le troppe vittime innocenti dei terroristi e dei loro inconfessabili complici; commemoro il sacrificio di tante persone, da Guido Rossa a Giorgio Ambrosoli, dai contadini di Portella della Ginestra a Falcone e Borsellino. Proprio non riesco a festeggiare l'Italia e i suoi 150 anni di unità, così come non riesco a emozionarmi quando sento l'inno di Mameli - di questo ho già scritto in un'altra "considerazione", la nr. 128, per la precisione. Per oltre la metà di questa storia unitaria gli italiani sono stati governati da una dinastia piuttosto mediocre (forse il meno peggio è l'ultimo principe, che si è riciclato come personaggio televisivo). Questi 150 anni sono stati le cannonate di Bava Beccaris contro il popolo milanese, la miope difesa dei privilegi degli industriali del nord e dei latifondisti del sud, le smanie militariste che hanno causato la morte di oltre 650mila giovani italiani durante la prima guerra mondiale, per finire con il regime fascista, le crudeltà nelle colonie, le leggi razziali, le uccisioni degli oppositori, da Matteotti ai fratelli Rosselli. E' una storia certamente da studiare, ma c'è ben poco di cui essere fieri. E anche nella storia dell'Italia democratica e repubblicana sono molto più numerose le ombre delle luci. In sostanza il 1861 non è stato una data di progresso per gli italiani, al massimo ha segnato il passaggio da un regime a un altro; allora tanto varrebbe fare pubblici festeggiamenti - con gli immancabili finanziamenti per le grandi opere, magari gestiti dalla Protezione civile - per ricordare l'anniversario del congresso di Vienna o quello della pace di Cateau-Cambrésis.
Continuerò a essere fiero di molti italiani, ma davvero non riesco a esserlo dell'Italia.

sabato 1 gennaio 2011

"Seminario di filosofia" di Hans Magnus Enzenberger


Che siamo in gamba è pura verità. Ma lungi
dal cambiare il mondo, noi facciamo apparire sul podio
conigli dal nostro cervello, conigli e colombe,
sciami di colombe candide che assidue
cacano sui libri. Che la ragione è ragione
e non ragione, per intender ciò non è
necessario essere Hegel, è sufficiente
uno sguardo allo specchietto. Esso ci mostra,
cinte di mantelline azzurre a godè, tempestate
di stelle d'argento, con in testa
un cappello a punta. Ci raduniamo in cantina,
tra le schede dei fuoricorso, per il congresso hegeliano,
tiriamo fuori le nostre sfere di cristallo, gli oroscopi,
e ci mettiamo al lavoro. Referenze
sappiamo brandire, pendolini, relazioni;
facciamo girare i tavoli, ci interroghiamo:
in quale misura è reale ciò che è reale? Compiaciuto
sogghigna Hegel. Gli dipingiamo un paio di baffi.
Già somiglia a Stalin. Il Congresso
danza. Non c'è vulcano a perdita di vista. Discrete
le guardie montano la guardia. Con tutta calma estrae
il nostro apparato fisico, come bastoni dal sacco,
frasi ch colpiscono nel vivo, e noi ci diaciamo:
Nell'animo di ogni poliziotto si nasconde
un angelo custode dietro al qual
si nasconde un poliziotto. Abracadabra!
Spieghiamo, come un enorme fazzoletto,
la teoria, mentre davanti al seminario asseragliato
i signori in trench-coat aspettano composti.
Fumano, non utilizzano l'arma di servizio
e sorvegliano i ruoli, i fiori di carta
e la candida sconfinata coltre d'escrementi di colombo.