venerdì 23 dicembre 2011

Considerazioni libere (265): a proposito di donne che non festeggeranno il Natale...

In questi giorni ci sono due immagini molto forti che si sovrappongono e si confondono nel nostro immaginario - almeno a me succede: da una parte il ritratto di "the protester", the man of the year per la rivista Time, il viso quasi completamente velato, gli occhi che guardano con fierezza il lettore, non si capisce se sia un uomo o una donna, anche se in tanti abbiamo visto - abbiamo idealizzato forse - uno sguardo femminile; dall'altra parte la foto di Reuters/Contrasto in cui alcuni soldati egiziani spogliano e picchiano una donna velata, la ragazza dal reggiseno azzurro, come abbiamo cominciato a chiamarla. Una è un'immagine di fantasia, l'altra è reale, troppo reale, una racconta il mondo come vorremmo che fosse e una racconta come invece è. Nel dramma di queste due foto ci sono tutte le contraddizioni con cui abbiamo vissuto questo convulso 2011, in cui si sono alternate speranze e delusioni. Proprio perché questo mi sembra un elemento decisivo voglio chiudere le "considerazioni" di quest'anno con una riflessione sulle donne in Iraq. L'occasione è la presentazione del rapporto Trafficking in Iraq che studia la situazione delle donne in quel paese prima e dopo la guerra del 2003.
Riconoscere che i primi anni del regime di Saddam Hussein, almeno fino alla guerra Iran-Iraq, hanno rappresentato un momento di crescita delle donne in quella società, non significa affatto sottovalutare la durezza di quella dittatura. E' semplicemente un dato di fatto; come ho già scritto molte volte, la fine della dittatura di Saddam è stato l'unico elemento positivo di quel conflitto, mentre le altre conseguenze sono state tutte negative. Nel 1980 le donne hanno avuto il diritto di voto e nel 1991, prima che cominciasse la guerra del Golfo, l'Iraq era il primo paese arabo per numero di professioniste laureate.
La necessità di rafforzare il "fronte interno", prima contro l'Iran degli ayatollah e soprattutto dopo contro i paesi occidentali, ha spinto Saddam a rinunciare ai tratti più laici del proprio regime, in un processo di progressiva "arabizzazione", che è culminata nella reintroduzione di alcune leggi della sharia. Questa svolta è stata pagata soprattutto dalle donne. Durante la cosiddetta Faith campaign del 2000 pare che siano state uccise dai miliziani di Saddam oltre duemila donne; si è trattato per lo più di intellettuali, professioniste, donne attive nel campo dei diritti umani, femministe, insomma oppositrici del regime. Queste donne sono state decapitate e le loro teste sono state esposte come monito per tutte le altre donne. Evidentemente la condizione delle donne è rapidamente peggiorata, assecondando le spinte più conservatrici e maschiliste della società. In quegli anni un bersaglio del regime erano anche le donne sciite e curde. I miliziani le violentavano e spesso le facevano entrare in un redditizio traffico di prostituzione, più o meno istituzionalizzato, diretto verso l'Egitto, il Sudan e la Turchia. Le donne non trovavano alcuna solidarietà nelle loro famiglie, dal momento che, essendo state violentate, venivano considerate "immorali" e indegne di continuare ad appartenere alla comunità: la tratta quindi, gestita dal regime, era tollerata, se non favorita, dalle stesse famiglie.
Il dato drammatico è che la guerra ha segnato un ulteriore peggioramento della condizione delle donne in Iraq, nonostante una delle ragioni che hanno giustificato l'intervento occidentale e il conflitto fosse quella di difendere i diritti delle donne. C'è prima di tutto un dato economico e sociale di carattere generale: quella guerra - come ogni guerra sotto ogni latitudine - finisce per colpire la parte più debole della società e naturalmente le donne sono le prime a soffrire le conseguenze del conflitto. Nello specifico poi sono rimaste in vigore le leggi che impongono le discriminazioni di genere che erano state introdotte dal regime di Saddam Hussein. La costituzione del 2005 introduce nella legislazione irachena i diritti umani fondamentali, tra cui l'uguaglianza di donne e uomini, ma la decisione di mantenere l'islam come fondamento della legislazione statale finisce per violare de facto questo principio.
Il dato drammatico, che è oggetto appunto del rapporto che prima ho citato, è l'aumento della prostituzione - e della tratta - durante e dopo la guerra. Il conflitto ha fornito molto nuovo "materiale" ai trafficanti: non solo e non più le donne violentate, le oppositrici del regime, le donne curde e cristiane, ma ora anche moltissime vedove e orfane, che, persi i mariti e i padri, non sanno più come mantenere le loro famiglie. Povertà e arretratezza culturale vanno naturalmente di pari passo; non solo le donne violentate vengono considerate "impure", ma in una società arcaica come quella irachena le donne sole, che mantengono se stesse e le loro famiglie, sono viste male. Alcune, o per bisogno o per mantenere la loro reputazione, preferiscono sposarsi con uomini già spostati, visto che la legge prevede la poligamia, mentre molte altre cadono nel racket della prostituzione. Spesso queste donne si fidano di persone che promettono loro di aiutarle, a volte sono le stesse donne che accettano di "reclutare" altre loro compagne di sventura. Poi ci sono le famiglie che, a causa della povertà, decidono di vendere le loro figlie, specialmente le più giovani che, essendo vergini, sono una merce più preziosa.Queste donne vengono fatte prostituire sia all'interno del paese - sono tanti i night club sorti a Baghdad, magari sotto gli occhi conniventi delle truppe di occupazione o dei contractors - oppure sono mandate in altri paesi arabi. Secondo i dati di Amnesty International sono più di 700.000 le profughe irachene in Siria; nei bordelli di Damasco l’80% delle prostitute è di nazionalità irachena.
Mi rendo conto che leggere questa "considerazione" è un modo molto non-convenzionale di passare il Natale, eppure queste donne non hanno nulla da festeggiare e la loro condizione ci riguarda, molto di più di quanto pensiamo e, forse, vorremmo.

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