mercoledì 14 dicembre 2011

Considerazioni libere (263): a proposito di pazzi e di sani...

Sono momenti drammatici per il nostro paese: quello che è successo in pochi giorni tra Torino e Firenze racconta una società debole, che ha perso troppi punti di riferimento, una società smarrita che cede ai propri impulsi più profondi, che non riesce a controllare la propria violenza. Lo so che c'è la crisi, che ci sono ogni giorno novità che richiedono adeguati approfondimenti, ma credo sia un delitto non parlare di quello che è successo; oggi, a pochissimi giorni dagli omicidi di piazza Dalmazia, la notizia è già relegata nelle pagine di cronaca e di Torino non si parla più, nemmeno una riga - di zingari e di folli la nostra società non parla mai volentieri. Eppure la crisi economica e le violenze di questi giorni non sono argomenti slegati, sono le facce di una stessa medaglia.
Ancora prima di provare a capire, di provare a farmi e farvi delle domande su quello che è successo, c'è una riflessione che voglio fare. In questi anni ci siamo abituati a scaricare su altri le nostre colpe, in particolare su una classe politica incapace e autoreferenziale, abbiamo mitizzato una presunta "società civile" che sarebbe migliore di chi è stato chiamato a guidarla; certo i nostri rappresentanti hanno molti difetti - e io su questo blog ne ho parlato spesso - ma credo sia altrettanto onesto dire che, come spiega appunto il termine, sono persone che ci rappresentano, nel bene - non molto - e nel male - decisamente di più. I fatti di Torino e di Firenze non permettono scappatoie autoassolutorie, ma ci mettono davanti alle nostre responsabilità individuali e collettive, anche quelle che preferiamo considerare come isolati casi di follia. Per questo credo che l'episodio di Torino sia più grave di quello di Firenze, pur nel rispetto per le due persone, Samb Modou e Diop Mor, che in questa città sono morte e per quelle che si trovano ancora in gravi condizioni all'ospedale. Mi rendo conto che è difficile fare una graduatoria nel male, soprattutto quando tocca questi livelli di insensatezza, ma da qualche punto dobbiamo pur partire. E certamente il numero delle persone coinvolte è un elemento importante e nel capoluogo piemontese sono molte le persone che hanno "perso la testa".
A Torino c'è prima di tutto il fallimento pedagogico di una famiglia, di quella famiglia, che ha fatto della verginità violata un tabu tale da costringere una ragazza a mentire e che ha inculcato nei propri figli un pregiudizio così forte contro gli zingari. Su questa ossessione per la verginità - peraltro in un mondo in cui il sesso viene sbandierato, ostentato, sfruttato - e più in generale sull'incapacità di affrontare il tema dell'educazione sessuale dei giovani dovrebbero interrogarsi non solo quei due genitori, ma tutte quelle agenzie educative - compresa naturalmente la chiesa cattolica - che del sesso fanno il loro principale campo di interventismo etico. Per inciso, sarei poi curioso di sapere che conseguenze ci saranno per quel ginecologo che si prestava a quel controllo mensile - dietro compenso naturalmente - uno che dovrebbe essere deferito al proprio ordine, se questo non fosse troppo impegnato a difendere i propri interessi di casta; ma da qui rischiamo davvero di esulare troppo dal discorso iniziale. Naturalmente le responsabilità sono personali e la ragazza e suo fratello hanno commesso un grave errore, di cui spero prima o poi si renderanno conto. Trovare altre colpe non è un pretesto per assolverli, tutt'altro. Ma, per come la vedo io, i genitori hanno colpe maggiori delle loro, perché hanno prima di tutto responsabilità maggiori che derivano dal loro ruolo di educatori, ruolo che con tutta evidenza non sono stati in grado di assolvere, visto il bel risultato.
Poi ci sono le colpe dei "giustizieri", di quelli che hanno deciso che era arrivato il momento di farsi giustizia da soli, di risolvere una volta per tutte il problema degli zingari, cacciandoli dal loro territorio, dalla loro "piccola patria". Anche in questo caso cercare di capire non vuol dire assolvere. Non c'è giustificazione che tenga per quelle persone che si sono dirette armate verso il campo nomadi e lo hanno incendiato, però non è neppure sufficiente esprimere una condanna generica, per quanto vibrante, e poi dimenticare il giorno successivo quello che è successo in quella periferia. Ciascuno di noi porta un pezzo di responsabilità, più o meno grande, di quello che è successo a Torino. Quante volte ci è capitato di controllare il portafoglio o di stringere più forte la borsa quando uno zingaro ci è passato accanto? A me succede regolarmente, direi che è praticamente istintivo o meglio cerco di illudermi che sia un riflesso condizionato, mentre è frutto di un pregiudizio ben radicato. Quante volte abbiamo reagito con fastidio allo zingaro che ci tende la mano chiedendo l'elemosina? Poi magari razionalizziamo, spieghiamo a noi stessi che facciamo bene a non dare loro neppure un centesimo, perché sono parte di un racket che sfrutta il loro accattonaggio, immaginando un cattivo mr. Peachum che li invia in ogni angolo di strada. Se ciascuno di noi non fa i conti con i propri pregiudizi, non è molto credibile quando cerca di trovare argomenti contro quelli degli altri.
Poi ci sono riflessioni che sembrano ormai espunte dalle categorie attraverso cui cerchiamo di interpretare il mondo. Le persone che hanno deciso di assaltare e incendiare un campo rom per vendicare l'offesa fatta a qualcuno del loro gruppo vivono in un contesto sociale e culturale che presenta gravi problemi, degradato si sarebbe detto una volta. Quelle persone vivono in brutte periferie e la bruttezza del loro territorio è sentita con maggior evidenza in parallelo alla rinascita e alla riqualificazione del centro storico o di altre aree della città; vivono in periferie dove non c'è una rete efficiente di servizi; hanno una bassa scolarità e quando vanno a scuola frequentano brutti edifici con insegnanti spesso demotivati e stanchi; soffrono molto più di altri la crisi economica e la fine di un modello industriale consolidato come quello torinese. Pensate come può essere stridente continuare a sentir dire quanto è migliorata Torino, quanto è più bella, quanto è più moderna, quando si è ai margini o addirittura esclusi e non si è goduto neppure un po' di questo miglioramento, di questa bellezza, di questa modernità. Per chi è rimasto indietro la crisi ha anche questo, non secondario, impatto psicologico. La crisi non si misura soltanto dallo spread tra titoli di stato, ma anche da queste condizioni di vita, da questo spread civile, economico, culturale tra chi ha di più, sempre di più, e chi ha di meno, sempre di meno.
Giustamente Time ha messo in copertina nell'ultimo numero del 2011, quella tradizionalmente dedicata all'uomo dell'anno, "the protester", ossia l'uomo e la donna che manifestano, che protestano, che occupano. Abbiamo subito pensato alla "primavera araba", agli indignados di Madrid, ai ragazzi di OccupyWallstreet e di Mosca, ma tra coloro che protestano ci sono anche gli ultrà torinesi che hanno tentato di incendiare il campo rom della Continassa, così come i giovani di Tottenham e delle periferie inglesi. Naturalmente questi non ci piacciono, ma con loro e con i problemi che esprimono dobbiamo fare i conti. In una "considerazione" del 2010 ho scritto:
Per spiegare i fatti di Rosarno si è preferito utilizzare le categorie etniche piuttosto che quelle sociali: a mio avviso, non si è trattato di uno scontro tra bianchi e neri, tra italiani e stranieri, ma di uno scontro tra quelli che un tempo avremmo chiamato proletari e sottoproletari, oppure - per usare espressioni che Adriano Sofri utilizza nel saggio contenuto nel volume Sinistra senza sinistra, edito da Feltrinelli nell'ottobre 2008 - tra i "penultimi" e gli "ultimi". Può sembrare un paradosso, ma proprio quando l'economia è diventata l'elemento centrale delle nostre vite - molto più della politica - è venuta a mancare quell'idea di divisione in classi della società che serve a spiegarne le dinamiche.
L'economia continua a dominare le nostre vite e i "penultimi", in questo caso i "bravi cittadini" di Torino, pronti a scendere in strada per vendicare l'onore di quella ragazza stuprata, stanno per diventare loro stessi gli "ultimi" e di essere trattati dai nuovi "penultimi" che verranno nello stesso modo in cui loro stanno trattando ora gli zingari. Ci si può arrendere a questo destino, oppure si può cercare di invertire un cammino che sembra già segnato. Fare la morale rischia di servire a poco, può forse salvarci la coscienza, ma non migliora la condizione di tutte quelle persone, degli zingari e di chi ha cercato di bruciare il loro campo. Costruire belle case in periferie, investire sulla scuola e sui servizi, garantire stipendi degni a chi fa lavori normali è l'unico mezzo per rispondere alle domande sociali che vengono dagli zingari e da chi li vuole cacciare, bruciare, uccidere.
Naturalmente non voglio tralasciare quello che è successo a Firenze. Certo chi ha commesso quel delitto è un uomo disturbato, un pazzo, una persona che ha varcato un limite che fortunatamente la quasi totalità di tutti coloro che professano apertamente tesi razziste e xenofobe non varcano. Ma il fatto che siano in tanti che, magari protetti dall'anonimato delle rete, danno quotidianamente sfogo ad argomenti di questo tenore, il fatto che persone che hanno ruoli pubblici possano impunemente dire cose molte simili a quelle sostenute da Gianluca Casseri deve farci riflettere. Anche qui non basta dire che gli uomini sono tutti uguali indipendentemente dal colore della pelle; tutti noi sperimentiamo ogni giorno che questa uguaglianza non esiste, perché un povero non è uguale a un ricco, non ha le stesse opportunità, non può sperare che i suoi figli abbiano un futuro migliore. Casseri ha ucciso i due cittadini italiani nati in Senegal non perché era povero, ma perché era un razzista, un razzista convinto e coerente, e su questo non c'è molto da fare, magari si potrebbe fare qualcosa di più per prevenire, visto che lo stesso Casseri pubblicava le sue tesi farneticanti, non le nascondeva in oscure conventicole di adepti. Mi preoccupa il fatto - e credo dovrebbe preoccupare la nostra società - che molti di quelli che hanno scritto commenti contro i senegalesi e a favore di Casseri sui social network sono ignoranti, profondamente poveri di valori. Forse al razzismo non c'è rimedio, ma all'ignoranza c'è; abbiamo da tempo scoperto come si cura, il problema è la volontà di debellarla.

1 commento:

  1. Quando assisto a tante belle sfilate contro il razzismo, mi viene sempre da pensare ad orwell. Un po' riguardo alla guerra continua, ai cittadini puntati ogni volta verso un nemico diverso, anche se poco prima era l'alleato infallibile. Ma soprattutto riguardo alla sostituzione delle settimane dell'odio con quelle dell'amore, come in rabelais, un mondo posticcio dove tutti devono essere felici, un mondo meraviglioso, anche se poi ogni tanto spunta qualche minuscolo genocidio, anche se sorge qualche insignificante dittatura in qualche sperduto paese senza importanza. Questo mondo, dove le parole democrazia, diritto e pace sono una sorta di moneta corrente, è un mondo ben più orwelliano di quello delle grandi dittature. Perché cittadini che in fondo alla loro anima sentono che un pazzo criminale in fondo, per fortuna che c'è, perché così ci libera dai negri che puzzano, sono cittadini non solo disonesti, quando vanno in giro a fare fiaccolate, ma parte di una società schizofrenica, che ancora ha bisogno che qualcuno che pensa per loro indichi la linea di demarcazione tra noi e loro, anche se poi ogni tanto qualche pazzo svuota un caricatore. Quello è un pazzo, noi siamo sani, invece.

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