sabato 27 novembre 2010

"Utopia" di Hans Magnus Enzenberger


Il giorno sale, con grande forza
batte i suoi zoccoli tra le nuvole,
il lattaio sui suoi bidoni
tambureggia sonate; al cielo ascendono i fidanzati
su scale mobili; selvaggi, con grande forza
si sventolano cappelli bianchi e neri.
Le api scioperano. Tra le nuvole
ruotano i procuratori,
papi cinguettano dagli abbaini.
La commozione domina sia lo scherno
che il giubilo. Velieri
sono piegati dai bilanci.
Il Cancelliere parteggia con un vagabondo
i fondi segreti. L'amore
è consentito dalla polizia,
è promulgata un'amnistia
per coloro che dicono la verità.
I panettieri regalono rosette
ai musicanti. I fabbri
fanno delle croci
ferri per gli asini. Come in un ammutinamento
irrompe la felicità, come un leone.
Gli strozzini, su cui sono gettati
fiori di melo e ravanelli,
si pietrificano. Buttati sulla ghiaia,
abbelliscono fontane e giardini.
Ovunque ascendono mongolfiere
la flotta di piacere è pronta a partire;
salite, lattai,
fidanzati e vagabondi!
Scioglietevi! Con grande forza
sale
il giorno.

venerdì 26 novembre 2010

da "Macbeth" (atto III, scena V) di William Shakespeare


Macbeth
Domani, e poi domani, e poi domani...
Di giorno in giorno, striscia,
col suo piccolo passo, ogni domani
per raggiungere la sillaba postrema
del tempo in cui ci serve la memoria.
E tutti i nostri ieri
han rischiarato, i pazzi, quel sentiero
che conduce alla morte polverosa.
Spègniti dunque, ormai, corta candela!
La vita è solo un’ombra che cammina:
un povero istrione,
che si dimena, e va pavoneggiandosi
sulla scena del mondo, un’ora sola:
e poi non s’ode più.
Favola raccontata da un’idiota,
tutta piena di strepito e furore,
che non vuol dir niente.

giovedì 25 novembre 2010

Considerazioni libere (182): a proposito di rifiuti napoletani e italiani...

E' troppo comodo pensare che i rifiuti di Napoli siano un problema dei soli napoletani, e quindi che i rifiuti di Milano siano un problema dei soli milanesi: il preteso "federalismo della spazzatura" che qualcuno vorrebbe imporci non è sufficiente, da solo, per affrontare un problema così complesso.
Dire che ogni territorio deve pensare ai propri rifiuti non basta, prima di tutto perché a Napoli e in Campania, per troppi anni, sono arrivati e sono stati scaricati, spesso illegalmente, i rifiuti del nord Italia. Inoltre i rifiuti napoletani sono rifiuti italiani, perché in Europa e negli Stati Uniti non fanno troppe distinzioni e l'immagine di Napoli sepolta dai rifiuti è tout court l'immagine dell'Italia sepolta dai rifiuti. Ma soprattutto non basta, perché se passa questa linea, ogni territorio si concentrerà unicamente sul tema dello smaltimento - facendolo ovviamente più o meno bene - senza affrontare quello che, secondo me, è il vero problema da affrontare: la riduzione complessiva dei rifiuti.
Non voglio dire che una cosa esclude l'altra, anzi. Bisogna continuare a incrementare la raccolta differenziata e il compostaggio, occorre superare il sistema delle discariche e lavorare sulle tecnologie più sicure per la realizzazione dei termovalorizzatori. Nelle regioni del sud bisogna combattere le mafie che hanno fatto della gestione dei rifiuti uno dei loro grandi affari. Tutto questo però, per quanto sia necessario, non è più sufficiente.
Di emergenza in emergenza, anche nei territori più virtuosi, abbiamo tralasciato di lavorare sulla soluzione più radicale, ma anche l'unica davvero risolutiva: cominciare a ridurre progressivamente i rifiuti. Ed evidentemente per questo non sono sufficienti politiche locali, ma occorre una legislazione almeno nazionale, se non europea. Il fatto che sia difficile e complicato non ci esonera dal cominciare.
Per fare un solo esempio: la Camera di commercio di Milano calcola che ogni milanese ha prodotto ogni giorno del 2009 1,51 kg di rifiuti urbani, erano 1,28 kg nel 2000. Anche se non vi prendete la briga di pesarli, pensate quanti sacchetti di spazzatura produce ciascuno di voi in un giorno, in una settimana, in un mese. Naturalmente ciascuno di noi può cercare di essere più virtuoso, meno "sprecone", ma ci sono cose che è inevitabile buttare: la vaschetta in cui abbiamo acquistato la bistecca al supermercato, la pellicola di plastica che avvolge il giornale che compriamo, il flacone in cui c'era il detersivo e così via.
Il mercato ha cominciato a studiare qualche soluzione: si cercano di ridurre gli imballi, si cominciano a vendere sfusi i detersivi, ma siamo ancora nei consumi di nicchia. Occorre che la politica intervenga, obbligando a ridurre la quantità di rifiuti che ciascuno di noi ogni giorno produce o contribuisce a produrre.
Serve evidentemente un cambio di passo deciso, una radicalità che la politica sembra ormai aver perduto o che teme di trovare, la consapevolezza che ciascuno di noi non vale soltanto in quanto consumatore. Intendiamoci, ha fatto bene Bersani ad arrabbiarsi quando ha saputo che il governo avrebbe voluto affidare alla province campane i poteri di emergenza per la realizzazione dei termovalorizzatori: davvero sarebbe stato come nominare Dracula presidente dell'Avis. Ma questo non basta, c'è riuscita la Carfagna minacciando le dimissioni, ma dal centrosinistra bisogna pretendere di più. La riduzione dei rifiuti è uno dei modi - certo non il solo, ma molto significativo - attraverso cui passa il cambiamento di un modello di sviluppo che ci ha portato inevitabilmente alla situazione di Napoli.
L'emergenza campana non è una patologia locale, o meglio non è soltanto una patologia locale, ma è il primo sintomo di un problema più generale. Se il modello economico prevede la realizzazione di sempre più prodotti, sempre più nuovi, continueranno a crescere le cose che sono destinate a essere buttate. Se avete un minuto andate a leggere - o a rileggere - la "considerazione" nr. 111 sui vecchi computer e i vecchi telefonini che noi mandiamo a smaltire in India e in Africa. L'emergenza dei rifiuti è anche lì e quei paesi non sono più lontani di Napoli.

mercoledì 24 novembre 2010

"La porta" di Simone Weil


Aprite la porta, dunque, e vedremo i frutteti,
berremo la loro acqua fredda su cui la luna ha lasciato la sua traccia.
Il lungo cammino infuocato è ostile agli stranieri.
Erriamo senza sapere e non troviamo alcun posto.
Vogliamo vedere i fiori. Qui la sete ci sovrasta.
Sofferenti, in attesa, eccoci davanti alla porta.
Se necessario, l'abbatteremo sotto i nostri colpi.
Incalziamo e spingiamo, ma la barriera è troppo forte.

Bisogna attendere sfiniti e continuare a guardare invano.
Osserviamo la porta; è chiusa, incrollabile.
Vi fissiamo lo sguardo. Sotto il peso della prova piangiamo.
La guardiamo senza posa. Il peso del tempo ci schiaccia.

La porta è davanti a noi. A che serve desiderare?
Meglio sarebbe andarsene e abbandonare la speranza.
Non entreremo mai. Siamo stanchi di riguardarla.
La porta aprendosi liberò un profondo silenzio

senza lasciar vedere né i frutteti né alcun fiore.
Solo lo spazio immenso in cui abitano il vuoto e la luce
apparve d'improvviso da parte a parte, colmò il cuore
e lavò gli occhi quasi ciechi sotto la polvere.

Considerazioni libere (181): a proposito di prigionieri adolescenti...

Come ho già avuto occasione di scrivere in un'altra "considerazione", io credo che la Turchia dovrebbe far parte dell'Unione europea. Il primo filosofo della tradizione occidentale e il primo storico sono due greci, Talete ed Ecateo, nati a Mileto, le cui rovine sono a 5 chilometri a nord della città turca di Akköy. Uno degli uomini più importanti per la cultura europea è un ebreo, cittadino romano, nato nell'attuale città turca di Tarsus, nella provincia di Mersin. La nostra letteratura ha come mito fondante la guerra per una città le cui rovine si trovano sulla costa turca. Le nostre radici più profonde sono in quella terra.
C'è anche un altro motivo che - credo - dovrebbe spingerci ad auspicare l'ingresso della Turchia nell'Unione, un motivo tutto rivolto al futuro. La Turchia è un paese di prevalente religione islamica e l'Europa deve imparare a riconoscere quella religione tra i propri elementi fondanti, perché molti cittadini europei sono musulmani.
L'ingresso della Turchia in Europa pone naturalmente anche dei problemi, ma rimane un'opportunità, soprattutto per quel popolo, ma anche per noi. Devono cambiare molte cose in Turchia prima che quel paese possa entrare, a pieno titolo, nelle istituzioni europee, deve crescere una cultura dei diritti, che adesso non è sempre evidente.
In questa "considerazione" voglio citare ampi brani di un testo curato da Osservatorio Iraq, un sito di informazione collegato all'associazione Un ponte per... dedicato al problema dei detenuti-bambini in Turchia. Vi chiedo la pazienza di leggerlo, si commenta da solo.
La decisione da parte del governo di Ankara di estendere anche ai minorenni le misure destinate a fronteggiare il terrorismo arriva nel 2006, all’indomani dei duri scontri tra manifestanti e forze di sicurezza scoppiati a Diyarbakir, durante i funerali di 14 membri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), uccisi dall’esercito mediante l’utilizzo di armi chimiche.
È in quel momento che il governo apporta una serie di emendamenti alla Legge anti-terrorismo (Tmy) emanata l’anno precedente, che hanno consentito di arrestare, mettere sotto processo e condannare centinaia di minorenni.
Un emendamento all’articolo 9 della legge consente che ragazzini tra i 15 e i 18 anni vengano processati alla stregua degli adulti, non davanti ad appositi Tribunali minorili, ma affidandoli invece ai Tribunali penali speciali, previsti dall’articolo 250 del Codice di procedura penale turco, che regola i crimini legati al terrorismo e alla criminalità organizzata.
Un altro emendamento all’articolo 13 ha escluso per i minorenni la possibilità di posporre le sentenze o di commutare le condanne detentive in altre forme di pena.
Nello stesso anno risale poi una decisiva sentenza della Corte di cassazione che, violando gli standard internazionali, ha ritenuto che la partecipazione a manifestazioni di protesta possa essere ritenuta una prova legale per stabilire la "adesione a un’organizzazione".
La conseguenza è stata che centinaia di minorenni sono stati processati come membri del Pkk solo per aver preso parte a manifestazioni di protesta contro il governo o lo stato turco.

A essere vittima della legge sono stati per la maggior parte minorenni arrestati nel corso di manifestazioni non autorizzate, accusati di avere intonato slogan a favore del Pkk, di avere esposto bandiere della stessa organizzazione o di avere lanciato pietre contro le forze dell’ordine, e processati e condannati alla stregua di membri armati del Pkk. Nell’ambito di questi arresti una parte consistente è costituita da minorenni, per lo più di età compresa tra i 15 e i 17 anni, ma talvolta di non più di 12 anni. Le condanne vanno dai 4/5 anni di media, fino a estremi di 7 anni e mezzo comminati nel 2010, poco prima che la legge venisse emendata.
A finire nel mirino della legge sono soprattutto ragazzi kurdi. Secondo le stime dell’ong turca Justice for children initiative, dei circa tremila minorenni che si trovano abitualmente nelle carceri turche "quasi tutti sono kurdi".

I dati ufficiali (presenti solo fino al 2008) mettono in evidenza un incremento costante dei fermi e delle condanne comminate in applicazione della Tmy. Nel 2006, grazie agli emendamenti apportati alla legge anti-terrorismo, sono stati avviati procedimenti legali contro 299 minorenni; nel 2007 si è arrivati a 438 procedimenti, che sono diventati 571 nel 2008.
Di questi ultimi, 306 sono stati accusati di "adesione a un’organizzazione terroristica", punita sia dall’articolo 314/2 del Codice penale turco che dalla Legge anti-terrorismo del 2006, mentre i restanti 265 sono stati presumibilmente processati per "propaganda a favore di un’organizzazione terroristica", previsto dall’articolo 7/2 della Tmy.
In totale - stando ai dati del ministero di Giustizia di Ankara, aggiornati alla fine del 2007 - nelle carceri turche si trovavano 2.622 minori; almeno 1.440 di loro non erano sistemati in strutture apposite, ma nelle prigioni ordinarie, ricevendo lo stesso trattamento degli adulti. Dal 2008 in poi non sono disponibili dati ufficiali sul numero di minorenni processati e condannati in base alla legge antiterrorismo. Tuttavia, nel 2008 l’Unicef parlava di circa 2.500 bambini tenuti in stato di detenzione in Turchia e in attesa di processo. Esistono poi le stime compiute da diverse organizzazioni non governative per i diritti umani e le libertà civili.
Nel luglio 2009, alcuni esperti legali affermavano che più di mille ragazzini erano stati posti sotto custodia negli ultimi due anni con accuse legate al terrorismo. Solo poche settimane dopo, e stando ai dati della Justice for children iniziative, circa trecento ragazzi tra i 12 e i 18 anni erano detenuti nelle prigioni turche.
In sintesi, e considerando solo gli ultimi due anni, Human rights watch parla di "molte centinaia di casi" di minorenni detenuti in virtù della Tmy, perché condannati o in quanto in attesa di processo. La stessa ong con sede a New York cita poi le testimonianze di avvocati turchi impegnati nella questione secondo cui il numero è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi due anni, fino agli emendamenti compiuti dal governo di Ankara nel luglio di questo anno.
Gli unici dati ufficiali per il periodo 2008-2010 possono essere estrapolati da una dichiarazione rilasciata nell’aprile 2010 dal direttore generale delle prigioni turche, che parlava di 276 bambini incarcerati per accuse legate al "terrorismo", pari al 10% del totale dei minorenni detenuti nelle carceri turche, ossia 25.597. Un dato questo confermato nella sostanza dal ministro di Giustizia Sadullah Ergin, che nel giugno 2010 - poche settimane prima che la legge fosse emendata - parlava di 206 minorenni incarcerati grazie alla Tmy e di un numero totale di 2.506 detenuti-bambini.

Ad attirare l’attenzione delle organizzazioni per i diritti umani sono state anche le procedure processuali adottate per condannare i minorenni accusati di attività legate al "terrorismo". Prima del 2006, i bambini accusati secondo la legge anti-terrorismo venivano giudicati comunque dai Tribunale minorili, dove c'erano procuratori preparati e dotati di capacità e conoscenze appropriate per giudicare dei bambini. In seguito, sono stati giudicati come "terroristi ordinari" davanti alle Corti penali speciali. Secondo Callers of justice for children, i minorenni sono processati con le stesse procedure previste per gli adulti e condannati al termine di processi farsa tenuti davanti ai Corti penali speciali.
Le prove addotte in sede di processo sono spesso del tutto insufficienti. Come rileva un rapporto del 2009 dell'Associazione per i diritti umani, per condannare un minorenne a diversi anni di carcere è sufficiente che questo abbia semplicemente partecipato a manifestazioni di protesta, magari con il volto coperto, che abbia intonato slogan in lingua kurda o lanciato pietre contro le forze di sicurezza. Nel rapporto 2010 sulla Turchia, Amnesty International cita anche i frequenti casi di "confessioni" estorte sotto tortura, o rilasciate comunque in assenza di avvocati o assistenti sociali. Il tutto in totale contraddizione con le leggi internazionali riconosciute dalla Turchia, come l’articolo 14.4 della Convenzione internazionale per i diritti civili e politici, che stabilisce che "la procedure applicabili ai minorenni devono tenere conto della loro età e, auspicabilmente, promuovere la loro riabilitazione".
Il sistema giudiziario minorile della Turchia è finito anche nel rapporto 2009 dell’Unione europea sui progressi dei paesi candidati all’adesione. Nel documento Bruxelles si dice "preoccupata per l'assenza di tribunali riservati ai minori e per gli abusi commessi in virtù della legislazione anti-terrorismo”.

Tutte le ong che si sono interessate dei minorenni detenuti nelle carceri turche parlano di condizioni di vita estreme, dettate anche dal fatto che in Turchia non ci sono strutture carcerarie fatte apposta per i bambini, e che i minori stanno con gli adulti nelle stesse prigioni degli adulti.
Una ricerca condotta dall'Associazione dei medici turchi sui minorenni detenuti in base alla Tmy nella famigerata prigione E-Type di Diyarbakır parlava di celle con soli tre metri quadrati di spazio per persona, di violenze, malnutrizione e assenza di assistenza medica.
Nel maggio 2009, una delegazione di medici e operatori per i diritti umani ha avuto modo di visitare lo stesso carcere, rilevando casi di violenze fisiche e psicologiche, maltrattamenti e discriminazioni (i bambini detenuti "politici" ricevevano meno acqua calda degli altri o venivano esclusi dalle lezioni di computer cui potevano accedere i detenuti ordinari).
Un rapporto sullo stesso carcere, redatto poche settimane dopo dall’Associazione degli avvocati di Diyarbakir, rilevava tra l’altro che nel cibo dato ai ragazzi erano stati trovati chiodi, aghi e insetti; che venivano garantiti solo dieci minuti di acqua calda al giorno e che i ragazzi dovevano lavarsi i vestiti a mano, e le loro celle erano piene di insetti e topi. Ad Adana sono state riscontrate anche prove di torture usate contro i bambini.
Frequenti sono state in questi anni le denunce per i traumi subiti dai bambini in carcere. Secondo la citata ricerca dell'Associazione dei medici turchi, il 65-75 % dei bambini detenuti sconta gravi problemi psicologici.

L’incremento costante di processi e condanne di minorenni che ha fatto seguito all’emendamento della Tmy ha suscitato una forte mobilitazione della società civile turca, oltre che di quella internazionale.
In particolar modo va segnalata la campagna di raccolta firme dell'associazione Çocuk için Adalet Çağırıcıları, lanciata nel 2009 e volta proprio a ottenere una revisione della contestata legge.
Sempre nel 2009, la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione per gli emendamenti del 2006, che "consentono di processare bambini di meno di 15 anni come adulti nei Tribunali penali speciali" e anche per la sua applicazione che di fatto punisce "la presenza o la partecipazione a dimostrazioni e incontri pubblici".
Sotto l’enorme pressione interna e internazionale, nel settembre del 2009 il governo dell’Akp annunciò un progetto di legge che fu però accantonato a fine anno e ripreso solo nella primavera successiva.

La riforma della Tmy - proposta dal governo dell’Akp e sostenuta dai kurdi del Partito della pace e della democrazia (Bdp) e dai kemalisti del Partito repubblicano del popolo (Chp) - è stata approvata dalla Grande assemblea turca il 22 luglio del 2010. Le più importanti novità introdotte dalla nuova legge sono le seguenti: tutti i minorenni dovranno essere processati davanti ai Tribunali minorili, o davanti ai tribunali ordinari nelle funzioni di Tribunali minorili; i minorenni autori di resistenza a pubblici ufficiali nel corso di manifestazioni non potranno essere incriminati per "crimini a favore di un’organizzazione terroristica", né per "adesione a un’organizzazione terroristica"; la pena massima per i minorenni fermati durante una manifestazione e trovati in possesso di armi di qualunque tipo o di materiale propagandistico legato a un’organizzazione illegale viene ridotta da cinque a tre anni, e quella minima da due anni a sei mesi; i minorenni incriminati in base alla Tmy potranno beneficiare del diritto di posporre le sentenze e di altre agevolazioni dedicate ai minori di 18 anni. Infine, la nuova legge stabilisce che i minorenni processati e condannati prima del luglio 2010 dovranno essere rilasciati, in attesa di essere processati nuovamente sulla base delle nuove norme.
A votare contro fu il Partito di azione nazionale (Mhp). Il vice-capogruppo del partito di estrema destra Oktay Vural affermò che gli emendamenti proposti equivalevano di fatto a una "amnistia".

Pur esprimendo apprezzamento per le modifiche apportate dalla nuova legge, le diverse ong che seguono la questione dei minorenni detenuti nelle carceri turche continuano a esprimere preoccupazione. Secondo Human right watch, le questioni critiche tuttora irrisolte sono principalmente due.
Innanzitutto, gli emendamenti introdotti nel luglio 2010 non pongono fine alla possibilità di arrestare dei minorenni nel corso delle manifestazioni e di porli in stato di detenzione in attesa del processo. A causa delle lentezze del sistema giudiziario, i periodi di custodia cautelare in Turchia possono estendersi per diversi mesi e arrivare fino a un anno. Secondo la stessa ong, nel corso del 2009 i periodi di detenzione pre-processuale a Diyarbakır e Adana sono durati in media 5 mesi, ma in diversi casi hanno superato l’anno di durata. A farne le spese sono stati anche bambini di 13 o 14 anni, che nel periodo considerato sono rimasti lontani dalle proprie famiglie e dagli amici e impossibilitati dal proseguire gli studi. Ma grave, secondo Hrw, è anche l’assenza di strumenti giudiziari in grado di porre fine alla violenze e ai maltrattamenti che avvengono abitualmente nelle carceri turche a carico dei minorenni. Sulla stessa linea si pone Amnesty International, che - in un rapporto pubblicato all’indomani dell’approvazione degli emendamenti alla Tmy - invita le autorità di Ankara "a garantire il diritto alle proteste pacifiche" e ricorda che "la detenzione per i bambini dovrebbero essere utilizzata solo come ultima risorsa e all’interno di strutture appositamente dedicate loro".
Altri osservatori, come l’avvocato Filiz Kerestecioğlu, pongono l’attenzione sulla mancata riforma del Codice penale, che, di fatto, impedirebbe la liberazione di tanti detenuti-bambini. Sono numerosi infatti i casi di minorenni condannati non in virtù delle leggi anti-terrorismo, ma in base agli articoli 220/6 e 314 del Codice e dunque esclusi dai vantaggi della riforma del luglio 2010.

A due mesi dalla riforma della Tmy, i minorenni incriminati in base alle vecchie norme e rimessi in libertà ammontavano a circa un centinaio di unità. A limitare la scarcerazioni, oltre alle leggi del Codice rimaste in vigore, è anche la discrezionalità che abitualmente viene lasciata alla magistratura e la lentezza del sistema giudiziario turco. Secondo l’avvocato Sinan Zincir, "le corti tendono a non decidere, accampando una mancanza di giurisdizione in merito, e a delegare la questione ai Tribunali minorili". In mancanza di dati ufficiali si può fare riferimento alle stime della citata Associazione per i diritti umani, secondo cui a settembre erano 24 i bambini detenuti a Mardin, 12 a Bitlis, 2 ad Adıyaman, 12 a Malatya e 40 tra le prigioni di Maltepe e Bakırköy, a Istanbul.

martedì 23 novembre 2010

Considerazioni libere (180): a proposito delle province dell'impero...

Terminato il vertice Stati Uniti-Europa, che si è svolto pochi giorni fa a Lisbona, il governo cinese, attraverso un funzionario di non primissimo piano ha ironizzato sul tempo perduto da Obama per incontrare un'entità politica di ormai scarso rilievo internazionale, che, oltretutto, si presenta con almeno tre presidenti: quello della commissione europea, quello del consiglio europeo e quello del consiglio dell'unione europea, peraltro pronti a essere smentiti, scavalcati, messi in ombra dai leader dei maggiori paesi. La presenza di Obama segna almeno un'attenzione formale - una sorta di rispetto dovuto a un parente anziano e non sempre lucido - che la nuova superpotenza asiatica non pensa proprio di rivolgere alle nostre istituzioni comunitarie. Il governo cinese è ben più sensibile agli investitori occidentali, che hanno capito le potenzialità enormi di quel paese.
La Cina è ormai il centro di un impero e così, come avveniva - e in parte avviene ancora - con gli Stati Uniti nel continente americano - tende sempre più a considerare i paesi asiatici come il proprio "orto di casa". Vorrei dedicare questa "considerazione" a due paesi che sono ormai entrati nella sfera cinese, con tutto quello che questo comporta.
Il Laos è uno degli stati più poveri del mondo: il 41% della popolazione ha meno di 14 anni, l'agricoltura di sussistenza costituisce il 30% del Pil e sfama l'80% dei laotiani. E' un paese che ha anche grandi risorse.
Le dieci dighe attualmente in funzione producono 669 megawatt di energia, che viene esportata, ne sono previste altre 27 e ci sono gli studi di fattibilità per altre 42. Ho avuto l'occasione di descrivere più volte - in altre "considerazioni" che potete trovare in questo blog - i danni provocati da queste grandi dighe all'ambiente e alla popolazione: le foreste vengono via via distrutte, alterando l'intero sistema delle acque e le caratteristiche dei suoli. In Laos in particolare la costruzione delle dighe provoca la sparizione delle risaie e la dimunizione e l'impoverimento dei fiumi, che garantiscono, attraverso l'agricoltura e la pesca, la sopravvivenza, come ho detto, dell'80% della popolazione. Come avviene in Africa, in Asia, in America latina, le dighe si rivelano un enorme affare per le compagnie che le realizzano e che vendono l'energia elettrica, ma un dramma per le popolazioni che spesso non godono neppure dei vantaggi dell'elettricità.
Il sottosuolo del Laos potrebbe garantire 50 miliardi di tonnellate di potassio, fondamentale per la produzione di fertilizzanti, e 2,5 miliardi di tonnellate di bauxite. Gli scavi sono già cominciati, senza alcuna attenzione a cosa viene distrutto per garantirsi queste materie prime.
Infine il Laos può diventare un grande produttore di gomma: nel nord del paese la coltivazione di questa pianta interessa già 166.700 ettari, modificando profondamente il paesaggio e la natura stessa del territorio. Gli agricoltori laotiani si sono fatti prendere dall'euforia di possibili nuovi guadagni, ma alla lunga questa trasformazione impoverirà l'intero territorio.
La Cina ha interessi in Laos nel settore elettrico, direttamente o attraverso propri soci fedeli, come i generali del regime birmano, in quello minerario e in quello della gomma. Anche l'India tenta di entrare nel gioco, ma gli interessi cinesi sono già ben radicati: la prima miniera di potassio già funzionante è di un'impresa cinese e cinesi sono i proprietari delle piantagioni di gomma di cui parlavo prima. Di fatto la Cina sfrutta il Laos, garantendosi un docile serbatoio di materie prime. Gli interessi della popolazione laotiana sono evidentemente del tutto secondari.
Il Laos è a sud, mentre la Mongolia si trova a nord, non cambia però la dipendenza di fatto di questo paese dal potente vicino cinese.
Questa è la storia di una ragazza, come è stata raccontata a Peace Reporter dalla responsabile del Mongolian center equality center.
Nel marzo 2009, A. incontra un'intermediaria mentre lavora come cameriera in una caffetteria di Ulaan Baatar [la capitale mongola]. Un giorno una cliente le chiede quanto guadagna e si offre di aiutarla. Le dice che può aiutarla a diventare estetista, la può iscrivere a un corso e aggiunge che può farle guadagnare molti soldi. A. vive con il suo bambino e quattro fratelli più giovani, il suo salario di 130 dollari è appena sufficiente per sopravvivere. La donna le promette che non si tratta né di prostituzione né di uso di alcol, insomma che non si tratta di affari loschi. Firmano un accordo per cui la donna pagherà il viaggio di A., che le restituirà il denaro quando avrà uno stipendio.
Maggio 2009, A. e altre tre ragazze partono dalla Mongolia per il seguente tragitto: Ulaan Baatar-Erlian, in Cina, in treno; Erlian-Pechino in taxi; Pechino-Qinhuangdao [una città in espansione della nuova Cina], dove incontreranno altri intermediari. Le ragazze cominciano a lavorare alla fine di maggio 2009. Gli intermediari le minacciano, le obbligano a prostituirsi. A. e le altre tre ragazze devono servire i clienti quando sono nel locale e stare con loro tutta la notte per prestazioni sessuali. La tariffa è di 200 renmimbi cinesi, ma loro non hanno mai ricevuto denaro.
Quando le ragazze decidono di rifiutarsi di prostituirsi, e dicono di voler tornare in Mongolia, gli intermediari confiscano i loro documenti, le violentano e drogano con la forza. Quindi sono sempre obbligate ad usare droghe e ad avere rapporti sessuali con i clienti. Ad un certo punto A. e le ragazze riescono ad usare internet di nascosto, contattano il consolato mongolo, informano i funzionari della loro situazione (costrette alla prostituzione, all’uso di droghe e senza soldi), chiedono aiuto e riescono a scappare.
A giugno 2009 A. e le altre ragazze sono rimpatriate in Mongolia con l’assistenza dell’ambasciata mongola in Cina e sono mandate al nostro Centro.

Queste ragazze sono state fortunate, ma la Mongolia, a causa della sua povertà, è diventato un paese "serbatoio" di donne, dirette in Cina e in altri paesi, non solo asiatici; sono criminali cinesi coloro che gestiscono questi traffici.
La potenza economica cinese ai margini dell'impero provoca anche questo.

da "Odissea" di Nikos Kazantzakis


La Morte venne e si coricò al fianco di Odisseo;
stanca per aver vagato tutta notte, le palpebre pesanti,
bramava anche lei distendersi sulla riva col vecchio amico,
sotto l'ombra di un salice, dormire anche lei un poco;
posò lievemente le mani ossute sul petto dell'Arciere
e cosi abbracciata la valorosa coppia precipitò nel sonno.
Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,
che s'innalzino case sulla terra, e palazzi e regni,
che vi siano giardini fioriti,
e che alla loro ombra passeggino donne gentili e cantino le schiave.
Sogna che sorga il sole, e che la luna illumini,
che giri la ruota del mondo, e che ogni anno porti erbe e fiori,
e frutti d'ogni sorta, e dolci piogge e neve;
e compia un altro giro rinnovando ancora la terra.
Sorride di nascosto la Morte, lo sa bene ch'è un sogno, vento multicolore,
fantasia della sua mente stanca, e tollera incurante che l'incubo la assilli.
Ma pian piano si rianima la vita, la ruota prende slancio;
la terra apre avida le viscere, penetrano pioggia e sole,
infinite uova si schiudono, la terra brulica di vermi,
muovono folti eserciti di uomini, uccelli, fiere, pensieri
e si avventano per divorare la Morte addormentata.
E una coppia di umani rannicchiata nelle grotte delle sue nari accende
e attizza il fuoco, poi si prepara il pranzo,
e al suo forte labbro sospende la culla del neonato.
Sente un solletico sulle labbra, un formicolio alle nari,
si scuote d'improvviso la Morte, cosi svanisce il sogno;
per un attimo fulmineo ha dormito, per quell'attimo ha sognato la vita.

"Ballata delle donne" di Edoardo Sanguineti


Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l’umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

domenica 21 novembre 2010

Considerazioni libere (179): a proposito di donne e di ministre...

Nonostante la premessa che tra poco leggerete, in questa nuova "considerazione" non voglio occuparmi della situazione politica contingente, ma voglio partire da un recentissimo fatto politico per cercare di capire un po' meglio la nostra società.
Uno degli elementi che rende sempre più evidente la crisi del regime berlusconiano è l'incapacità del leader di contrastare la disgregazione del suo partito a livello territoriale. Se a Roma Berlusconi riesce in qualche modo a tenere sotto controllo i suoi ministri e i suoi parlamentari - anche se la non prevista consistenza dei gruppi di Futuro e libertà è un segnale d'allarme - a livello regionale la situazione è ormai sfuggita di mano. I casi ormai si moltiplicano a nord e a sud del paese. Gianfranco Micciché ha fondato un proprio partito personale in Sicilia, tradizionale serbatoio di voti per Berlusconi, senza che ciò lo costringesse a nessuna scelta radicale né tantomeno a subire una qualche punizione: non solo continua a sedere alla Camera negli scranni del Pdl, ma rimane addirittura nel suo posto di sottosegretario. In Campania c'è una guerra aperta tra gli esponenti locali del Pdl, in cui non sono mancati neppure i falsi dossier, fabbricati da amici del segretario regionale del Pdl per screditare il candidato del Pdl, poi risultato vincitore, alla presidenza regionale. L'ultima vittima di questa "guerra di bande" in Campania, come è ormai definita da tutti i giornali, è Mara Carfagna, che ha cercato in questi mesi di indebolire il proprio segretario regionale, probabilmente con l'obiettivo di essere il prossimo candidato Pdl alla poltrona di sindaco di Napoli. Carfagna non è la vittima ingenua di un meccanismo voluto esclusivamente da altri o la malcapitata caduta nelle grinfie di personaggi più furbi di lei, è un'esponente politico che ha partecipato consapevolmente a un duro scontro interno e ha perso; probabilmente se avesse vinto non sarebbe stata più tenera con i vinti di quanto, a ruoli invertiti, lo siano adesso con lei.
Fatta questa lunga premessa, mi interessa piuttosto ragionare sul modo in cui è stata trattata la Carfagna dall'opinione pubblica. C'era già contro di lei un'ampia messe di articoli, e persino un paio di pamphlet, di cui uno elegantemente intitolato Mignottocrazia, per raccontare la storia - e i retroscena - della sua rapida ascesa all'interno di Forza Italia e del Pdl. Contro la Carfagna c'era già un gran numero di barzellette, più o meno volgari: basta fare un giro in Facebook e nella rete per raccoglierle, insieme alle sue foto a seno nudo di un calendario di qualche anno fa. La vicenda di questi giorni ha ulteriormente dato sfofo alle volgarità.
Io non voglio difendere né questo governo né nessuno dei suoi esponenti, ritengo anzi ci siano numerossime ragioni per criticarli e per sperare che vadano al più presto a casa, ma mi disturbano profondamente le battute volgari contro la Carfagna e mi sembra che sia l'ulteriore dimostrazione di quanto il nostro paese sia incapace di affrontare in maniera serena la crescita del ruolo delle donne. Una donna che riesce ad assumere ruoli di prestigio e di responsabilità è sempre considerata più per il suo aspetto che per quello che effettivamente vale. Da parte degli uomini, ma anche di molte altre donne. Ci sono molte ragioni per attaccare la Carfagna, la si può accusare di essere ambiziosa, di aver voluto mettere la propria carriera davanti alle esigenze del suo partito - per non parlare di quelle del paese - ma bisognerebbe smetterla di attaccarla solo perché è una donna, e riferendosi a lei con allusioni legate al sesso.
La nostra è una società profondamente maschilista dove le donne possono al più aspirare al ruolo di veline. Ho già scritto molte volte di come le donne siano valutate, in particolare nel mondo del lavoro, più per il loro aspetto che per le loro capacità. Una donna brava fa una doppia fatica a emergere rispetto a un uomo con le stesse capacità e spesso rimane indietro a uomini che hanno meno capacità. Le donne in Italia hanno poco spazio nei luoghi in cui si decide, hanno mediamente salari più bassi degli uomini, hanno un maggior carico di lavoro rispetto ai loro compagni.
Proviamo a ricordarlo tutte le volte che vediamo l'ennesimo titolo sulla Carfagna o gli annunci di lavoro in cui invariabilmente si chiede, quando si vuole assumere una donna, "richiesta bella presenza".

sabato 20 novembre 2010

"Libano sud" di Michel Cassir


agonia delle parole
prima diseredate e poi frantumate
come noccioli di olive
in una macina scura
di tre spessori di omicidio
i cadaveri di bambini
non hanno né lacrime né profumi
per la loro lunga erranza
attraverso il fumo
e i fuochi d’artificio
dell’armata cibernetica
sapiente e cieca
l’amore non ha il tempo
di liberare il suo lamento
un villaggio si richiude
sull’epurazione di una città
i sopravvissuti sono fantasmi
che sfiorano la guancia
dei giovani soldati mercenari
senza saperlo
di un lontano impero
che non si dichiara mai
tanto è preoccupato
di presenza anonima
che rode ogni sussulto
di sogno o di respiro
la trappola è inaudita
ogni resistenza fuori legge
e il grande cenacolo
dell’intelligenza universale
soppesa la compassione
delle parole vuote
come una fonte
pompata fino al sangue
in cui soffoca il grido
senza parole
nell’estate duemila e sei
oltre le stazioni balneari
i musei e i siti archeologici
rigurgitanti di entusiasmo
lo spirito sembra colpire le folle
Cana Tyr Baalbek Saïda Beyrouth
sotto un velo di pudore
silenzio si sgozza la storia
e questo crea meno agitazione
di uno sceneggiato del lunedì sera

martedì 16 novembre 2010

da "Liberi dalla paura" di Aung San Suu Kyi

Non è il potere che corrompe; ma la paura.
[…]
I Birmani si erano stancati di un precario stato di passiva apprensione, in cui si sentivano come "acqua in mani raccolte a coppa" del potere.
Potremmo essere freddi e limpidi
Come acqua in mani raccolte a coppa
Oh, ma se potessimo essere
Come schegge di vetro
In mani raccolte a coppa.
Le schegge di vetro, le più piccole con la forza tagliente e luccicante di difendersi contro le mani che cercano di frantumarle, possono essere interpretate come il vivido simbolo della scintilla di coraggio indispensabile per chi vuole liberarsi dalla morsa dell'oppressione.
[…]
Lo sforzo necessario per rimanere incorrotti in un ambiente in cui la paura è parte integrante dell'esistenza quotidiana non è immediatamente evidente a quelli abbastanza fortunati da vivere in uno Stato governato dalla legalità.
In un'età in cui immensi progressi tecnologici hanno creato armi letali che potrebbero essere, e sono, usate dai potenti e da uomini senza scrupoli per dominare i deboli e gli indifesi, sorge la necessità imperativa di un rapporto più stretto fra politica e morale a livelli nazionale e internazionale. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo stipulata dall'Onu proclama che "ogni individuo e ogni organo della società" dovrebbero adoperarsi per promuovere i diritti e le libertà fondamentali cui hanno diritto tutti gli esseri umani indipendentemente da razza, nazionalità e religione. Ma finché esisteranno governi la cui autorità è fondata sulla coercizione anziché sul mandato popolare e gruppi d'interesse che privilegiano i profitti immediati alla pace e alla prosperità a lungo termine, l'iniziativa internazionale concertata al fine di proteggere e promuovere i diritti umani rimarrà, nel migliore dei casi, un tentativo realizzato parzialmente. Continueranno a esistere aree di lotta, dove le vittime dell'oppressione dovranno ricorrere alle proprie risorse interne per difendere i loro inalienabili diritti di appartenenti alla famiglia umana.
L'autentica rivoluzione è quella dello spirito, nata dalla convinzione intellettuale della necessità di cambiamento degli atteggiamenti mentali e dei valori che modellano il corso dello sviluppo di una nazione. Una rivoluzione finalizzata semplicemente a trasformare le politiche e le istituzioni ufficiali per migliorare le condizioni materiali ha poche probabilità di successo. Senza una rivoluzione dello spirito, le forze che hanno prodotto le iniquità del vecchio ordine continuerebbero a operare, rappresentando una minaccia costante al processo di riforma e rigenerazione. Non è sufficiente limitarsi a invocare libertà, democrazia e diritti umani. Deve esistere la determinazione compatta di perseverare nella lotta, di sopportare sacrifici in nome di verità imperiture, per resistere alle influenze corruttrici del desiderio, della malevolenza, dell'ignoranza e della paura.
[…]
Fra le libertà essenziali cui gli uomini aspirano per arricchire la propria vita, la libertà dalla paura spicca contemporaneamente sia come mezzo sia come fine.
La fonte del coraggio e della resistenza di fronte al potere scatenato è generalmente una salda fede nella sacralità dei principi etici combinata con la certezza storica che, malgrado tutte le sconfitte, la condizione umana abbia per fine ultimo il progresso spirituale e materiale. Ciò che distingue l'uomo dal bruto è la sua capacità di miglioramento e autoredenzione. Alle radici della responsabilità umana vi è il principio di perfezione, l'impulso a raggiungerla, l'intelligenza di trovare la strada giusta e la volontà di seguirla, se non fino alla fine, almeno per il tratto necessario a sollevarsi al di sopra dei limiti personali e degli ostacoli contingenti. Ciò che conduce l'uomo a osare e a soffrire per edificare società libere dal bisogno e dalla paura è la sua visione di un mondo fatto per un'umanità razionale e civilizzata. Non si possono accantonare come obsoleti concetti quali verità, giustizia e solidarietà, quando questi sono spesso gli unici baluardi che si ergono contro la brutalità del potere.

Considerazioni libere (178): a proposito delle primarie milanesi...

Leggo delle sciocchezze incredibili sull'esito delle primarie del centrosinistra a Milano e non riesco proprio a stare zitto.
Ai vari dirigenti del Pd che si stracciano le vesti perché sono convinti che Pisapia non riuscirà mai a vincere contro la Moratti, vorrei ricordare quello che è successo negli anni passati. Alle ultime amministrative, quelle del 2006, il centrosinistra scelse, attraverso primarie fortemente "pilotate" da Ds e Margherita, come proprio candidato Bruno Ferrante; persona degnissima, classico esempio di civil servànt, già prefetto della città lombarda, Ferrante doveva rappresentare quel candidato capace di attrarre i voti moderati e di centro, senza i quali pare sia impossibile vincere le elezioni a Milano. La Moratti - la storia è nota - vinse al primo turno con il 52%; Ferrante non è rimasto neppure un anno in Consiglio comunale, perché è stato nominato dal Governo Prodi Alto commissario contro la corruzione, incarico che ha lasciato dopo sei mesi per andare a fare il presidente di alcune imprese legate al gruppo Impregilo. Facciamo un passo indietro. Nel 1997 il centrosinistra decise di sostenere l'imprenditore Aldo Fumagalli contro il candidato berlusconiano Gabriele Albertini, una sfida tutta interna a uomini di Confindustria; Albertini vinse e Fumagalli tornò alle sue attività imprenditoriali. Nel 2001 il centrosinistra cambiò strategia e candidò Sandro Antoniazzi, sindacalista cattolico, dirigente della Cisl, un uomo di centro capace di parlare all'area moderata; Albertini rivinse al primo turno e Antoniazzi naturalmente si occupò d'altro.
In sostanza gli elettori di sinistra di Milano non solo continuano a essere governati da amministratori del centrodestra, ma da almeno 13 anni non possono neppure perdere con un proprio candidato. Alle primarie di quest'anno gli ormai sparuti e dispersi militanti della sinistra milanese si sono trovati un candidato come Giuliano Pisapia, milanese, avvocato progressista - parte civile nel processo Sme, difensore di Ovidio Bompressi nel processo Calabresi, parte civile nel processo contro Previti e Squillante, difensore della famiglia di Carlo Giuliani - un uomo certamente di sinistra. Pisapia ha condotto una bella campagna per le primarie, parlando dei problemi della città, delle tante povertà che ci sono a Milano. Certo è stato importante il sostegno che ha ricevuto da Vendola, ma da solo non sarebbe stato sufficiente a farlo vincere. Pisapia ha vinto perché rappresenta un'anima della sinistra milanese e italiana.
Ci sono dirigenti del Pd che capiscono cosa è avvenuto - come i vari Fioroni e Follini - e che pure, immediatamente dopo il voto, hanno dichiarato che Pisapia non va bene, perché appunto lontano dall'idea che loro hanno del partito, moderato, cattolico, centrista, poi ci sono dirigenti - e questa mi pare la cosa più preoccupante - che non hanno capito perché Pisapia abbia vinto, perché non capiscono proprio nulla, non hanno memoria, sembrano marziani sbarcati all'improvviso da un'astronave e messi lì a guidare il partito.
Leggo che ora anche a Bologna si teme l'effetto Pisapia; francamente non lo so, perché la possibile "pisapia" bolognese, Amelia Frascaroli, è una persona con caratteristiche molto diverse dall'avvocato milanese, soprattutto perché non c'entra nulla con la storia della sinistra socialista e laica bolognese, ma certamente in comune con Milano - e con Roma - c'è un gruppo dirigente che ha rinunciato alle proprie radici e ora non capisce più da che parte stare.
C'è bisogno di sinistra, forse Pisapia perderà, ma almeno i suoi elettori sanno che lui rimarrà in Consiglio comunale a fare opposizione e sperano che attorno a lui si possa ricostruire qualcosa di quella gloriosa tradizione della sinistra milanese e lombarda che ha dato tanto alla storia italiana.

Considerazioni libere (177): a proposito di rassegnazione...

Da qualche giorno sono stato costretto a rendere meno frequenti gli aggiornamenti di questo mio blog, in particolare ho scritto meno "considerazioni". Nulla di male o di irreparabile: non è necessario intervenire sempre e su tutto. Tra i tanti problemi di questo paese c'è anche la generale incapacità di stare in silenzio quando si dovrebbe.
Dal momento che devo dedicare la maggior parte del mio tempo ad altre cose, faccio fatica a leggere notizie e approfondimenti riguardanti altri paesi, in particolare l'Africa e i paesi più poveri del mondo. La lettura regolare di un quotidiano e gli aggiornamenti sulle principali testate online italiane non sono affatto sufficienti ad avere un'informazione esauriente, che spazi al di là dell'orto di casa: segno inequivocabile di un certo provincialismo italiano, ma anche del tentativo, almeno in Italia riuscito, di non dare voce alle storie della grande maggioranza delle donne e degli uomini che vivono in questo nostro pianeta.
Per passare dal global al local, di quello che capita a Bologna non ho proprio voglia di parlare: il Pd bolognese, impiccatosi alla corda delle primarie, sta dimenando scompostamente le gambe. Anche di quello che avviene in Italia c'è ormai poco da dire e da scrivere, visto che in sostanza da settimane non sta succedendo niente. Almeno dalla scorsa estate, il tentativo di Fini di assumere la leadership del centrodestra italiano e la conseguente strenua resistenza di Berlusconi paralizzano di fatto la vita politica italiana.
Le italiane e gli italiani assistono passivamente a questo spettacolo. Ci sono - è vero - quelli che sono fieramente schierati, ossia quelli che urlano contro il tiranno e quelli che accusano il colpo di mano dei traditori, poi ci sono quelli che tentano di usare toni più civili, chi immagina una destra diversa e chi si arrovella nelle discussioni sulle prospettive della sinistra, ma mi sembra che tutti questi, pur presi complessivamente, siano sempre più una minoranza rispetto agli italiani che guardano con distacco e rassegnazione al declino del nostro paese. Nella mia penultima "considerazione" - che vi invito a leggere, se non l'avete fatto - ho parlato delle due Italie che convivono, senza parlarsi, nel nostro paese, ciascuna convinta di essere migliore dell'altra. In ognuna delle due Italie c'è questa ulteriore divisione: gli attivi e gli rassegnati, chiamiamoli così, per convenzione. I rassegnati sono, da entrambi le parti, la maggioranza.
Sono - siamo, perché sempre più io mi colloco tra questi - rassegnati di fronte alla progressiva, inesorabile distruzione di Pompei, rassegnati di fronte a un territorio che è sempre più fragile e di cui abbiamo paura, non appena ci sono due giorni consecutivi di pioggia, rassegnati di fronte alla facilonerie, alle incompetenze, alle persone che non sanno fare il loro mestiere, perfino rassegnati ai reati, visto che i più terribili delitti familiari, il cui aumento dovrebbe allarmarci e interrogarci su cosa c'è alla base della nostra società, diventano invece argomento dei varietà televisivi.
C'è chi si sta approfittando di questa situazione, della stanchezza cronica in cui vive il nostro paese, se ne approfittano i furbi, i delinquenti, i mafiosi di ogni risma, che hanno capito che per loro si è aperto un varco enorme, che sarà sempre più difficile da richiudere.

domenica 14 novembre 2010

Filippo Turati parla il 30 luglio 1931 al IV Congresso dell’Internazionale operaia e socialista

Vi dirò cose estremamente semplici, prosaiche. Niente “letteratura”; niente sentimentalismo. Nulla, soprattutto, di personale.
Rappresentando un paese, cui toccò il triste primato di aver provato, prima e più duramente di ogni altro, la reazione scaturita dalla guerra, reazione che avevamo preveduta, ma contro la quale il tempo e l’esperienza ci erano mancati per armarci in modo adeguato [...]: il nostro pensiero, sul tema ora in discussione, è maturato e preciso. Io non sarò dunque che, in qualche modo, il grammofono fedele, starei per dire meccanico, della voce dei miei compagni italiani.
[...]
Torno a parlarvi del fascismo.
Perocché il fascismo è la guerra. In quest’ora della storia, la guerra non è che il fascismo. Non si parla seriamente di guerra e di disarmo, com’è scritto nell’ordine del giorno, se si lascia nell’ombra il fascismo.
Il fascismo - mostruoso circolo vizioso - è insieme il padre e il figlio della guerra; la quale poi, non è che un fascismo fra le nazioni. Guerra internazionale e guerra civile, le quali si generano reciprocamente.
Parimenti la “lotta operaia per la democrazia” - il secondo punto dell’ordine del giorno - non è, non può essere altra cosa, che la lotta contro il fascismo.
E, in fondo, la stessa crisi economica della Germania, e la ripercussione catastrofica mondiale che se ne teme, anch’essa si connette essenzialmente al fascismo.
[...]
Dodici anni dopo la grande guerra - in ciò siamo tutti d’accordo - l’Europa vive ancora sotto l’incubo angoscioso della guerra. Il timore della guerra si libra sopra il mondo e arroventa la febbre degli armamenti. Se c’è un punto su cui l’unità operaia è completa è cotesto. E perciò l’Internazionale ha iscritto nel suo vessillo “Guerra alla guerra”.
Ma, in questa lotta contro il flagello della guerra, vi è luogo a una distinzione fondamentale, che De Brouckére scolpì lapidariamente dicendoci: “O noi andremo al socialismo attraverso la pace, o noi andremo alla pace attraverso il socialismo”.
Non credo tuttavia che la scelta dell’uno o dell’altro corno del dilemma lo lasci indifferente. Il primo rappresenta la lotta normale, possibile, e - se fortemente si voglia - probabilmente vittoriosa. Il secondo è la tesi della disperazione.
Vi è infatti una lotta preventiva contro la guerra; e vi è una lotta repressiva e consequenziale. La prima mira ad impedire la guerra; la seconda a farla cessare al più presto possibile. Più ancora: la seconda mira a fare della guerra “repressa” una via di rivoluzione “per agitare gli strati popolari più profondi e precipitare la caduta della dominazione capitalistica”, come dichiarano i deliberati dell’Internazionale di Stoccarda e di Copenhaghen.
Ora, il Partito socialista italiano è convinto, e trae questa convinzione dalle esperienze vissute, che l’Internazionale è infinitamente più forte per la “prevenzione” che per la “repressione” della guerra.
In tempo di guerra, lo Stato borghese tiene in pugno il massimo di potere esecutivo. Bandita la mobilitazione, tutti i mezzi di comunicazione e di intesa sono sottratti ai partiti di opposizione. Neanche si è certi che gli uffici dell’Internazionale possano funzionare con qualche regolarità: si è certi piuttosto del contrario. Chiuse le frontiere ogni partito nazionale è ridotto all’isolamento sotto l’influenza, per giunta, delle menzogne della stampa militarizzata. Direi che ogni singolo militante è ridotto alla solitudine della sua coscienza.
Allora, per “agitare gli strati popolari profondi e precipitare il crollo del dominio capitalista” bisogna attendere la fine della guerra: e attenderla in un ambiente sovraccarico delle violenze dei vincitori e della rabbia dei vinti; in un ambiente e in un momento che è il più difficile, assaliti come saremo, da un lato dalla ferocia dei fanatici della guerra, dall’altro dalla follia bolscevica. Ciò si è già visto: e si vedrebbe ancora!
Lavoriamo dunque, soprattutto, alla prevenzione della guerra! Il socialismo e l’Internazionale sono ben più attrezzati per questo compito - è anzi forse il solo per il quale siamo veramente attrezzati. Con questo vantaggio: che non ci sottrarremo a una contraddizione flagrante e paralizzatrice; perché se noi ci perdiamo dietro il fatuo miraggio della rivoluzione di dopoguerra, tanto meno, fatalmente, saremo risoluti nell’opera di prevenzione.
Dunque, il disarmo!
Quale disarmo? Graduale? Proporzionale? Venticinque per cento? Simultaneo? Unilaterale? – Io vorrei esimermi da un esame minuzioso. Come finalità il disarmo cui miriamo non può essere che rapido, totale, universale. Che si sia armati di un pugnale o di centomila mitragliatrici il pericolo sussiste sempre; e basta un solo brigante armato per intimidire ed obbligare ad armarsi l’universo.
Intendiamo tuttavia, sul terreno pratico, le esigenze della gradualità e della proporzione. Pur ammirando l’esempio illustre del disarmo unilaterale della Danimarca - ma è la Danimarca, ricordiamolo: non è un grande Impero spesso e da più parti minacciato - pur proponendo codesto esempio come suggestione di propaganda, la nostra azione sarà assai più facile e feconda preconizzando il disarmo eguale, simultaneo, concertato, in terra, in mare, nell’aria.
A un tale disarmo ci convien dare però tutto l’appoggio possibile per affrettarlo e per radicalizzarlo. Bisogna non già imprimervi la stitica volontà dei governi, ma animarlo del grande soffio della volontà delle masse. Allora sarà anche facile liberarlo dalle insidiose “rivalità di prestigio”, quale ad esempio la famosa “parità navale” rivendicata dal fascismo, che fece fallire lo sforzo della riduzione degli armamenti navali.
Per conseguenza, bisogna francamente collaborare alla Società delle Nazioni.
Di fronte a questa, noi ci troviamo nell’identico stato d’animo, che, agli inizi del movimento proletario, di fronte ai Parlamenti ed ai Governi parlamentari.
A tutta prima li si rinnegò come strumenti malefici e borghesi di oppressione o di inganno della massa. Poi si entrò in Parlamento a puro fine di protesta. In seguito, si prese a collaborarvi, specialmente per le leggi sociali. E, a poco a poco si giunse a riconoscere la inevitabilità, in date circostanze, nonché della politica di sostegno, della partecipazione a ministeri borghesi.
Stessa cosa per la Società delle Nazioni. Dapprima si respinse in pieno cotesto Comitato del “Sindacato dei vincitori”. Poi i vinti vi entrarono anch’essi, vi collaborarono utilmente; e più vi collaboreranno in avvenire.
Ma concepite voi, o compagni, la possibilità di costituire altrove e altrimenti un organismo internazionale di controllo sull’esecuzione degli obblighi, quali essi siano, del disarmo? - Forse sarà qui appunto, in seno alla Società delle Nazioni che si determinerà il primo cozzo fra la democrazia che ne è la base e i fascismi che hanno fatto tutto il possibile per abolire ogni forma di controllo: - della stampa, dell’opinione pubblica, parlamentare.
Ah! Come sarà bello, o compagni, veder crollare la maschera pacifista del fascismo italiano, quando gli si chiederà di sottoporsi “seriamente” al controllo “serio” della Società delle Nazioni! Controllo, aggiungiamo, che l’Internazionale la spingerà ad estendere ben al di là della tecnica delle costruzioni e della contabilità delle spese.
Ma vi è un disarmo che è di gran lunga più efficace e decisivo dello stesso disarmo materiale: ed è il disarmo morale.
Che pensate voi di un paese, nel quale ogni propaganda pacifista, col libro, colla stampa, col cinema, con la parola, è severamente proscritta; nel quale un film come “Niente di nuovo all’Ovest”, o il romanzo di Remarque, o altre espressioni del genere, non sono ammesse alla circolazione; nel quale solo è consentita la esaltazione di un nazionalismo cieco, brutale, sprezzante, di tutte le altre nazioni, di un paese in cui è inoculato un irredentismo fantastico, che ora mira all’Adriatico, ora al Mediterraneo, - Malta, la Corsica, Nizza, - senza neanche escludere il Canton Ticino?
A quei compagni - ve n’è ancora purtroppo! - che si lasciano prendere dall’effimero machiavellismo di un Grandi o di un Mussolini, la cui parte in commedia si capovolge secondo che essi a Milano e a Firenze, parlano alle camicie nere, oppure in un giorno di penuria atroce, si rivolgano, per messaggio radiografato, al paese dei dollari (perché nel fascismo vi è l’effimero e vi è il permanente; l’effimero per invocare l’elemosina; il permanente è sempre il glorioso randello e la meravigliosa mitragliatrice!); a quei compagni, non di poca, ma di troppa fede, io vorrei domandare: che pensano essi di quella organizzazione militarista della gioventù sin dall’infanzia (Balilla dai sette ai dodici anni, Avanguardie dai dodici ai diciassette, in seguito Corpi d’assalto studenteschi, scolarette armate di moschetto, e così via) organizzazione contro la quale lo stesso Papa ha protestato, e il cui fine confessato è di fare di tutta la nazione fascistizzata un solo esercito - uomini e donne - al servizio del “duce” e della pretesa rivoluzione, ossia involuzione, fascista?
[...]
Fra cotesta educazione ultra guerriera e l’educazione democratica dei paesi civili c’è uno squilibrio morale pericolosissimo, che solo la Società delle Nazioni, spinta ed animata dall’Internazionale, potrebbe togliere di mezzo.
Anche se il fascismo sotto la pressione di una crisi economica spaventosa, non pensa in questo momento a scatenare la guerra, la guerra esso la prepara fatalmente e sempre. La guerra è lo sbocco finale di tutte le dittature.
E’ per ciò che non si deve mai, a nessun costo, indulgere al fascismo, e neppure fingere di ignorarlo. Bisogna sentire sempre che là è il nemico e che si deve schiacciare la testa del serpente, dovunque si nasconda.
Ed è perciò - e qui tocco il punto più delicato del mio discorso, e prego i compagni di ogni paese di non vedere nelle mie accorate constatazioni alcuna intenzione di offesa o di rimprovero, ma solo il compimento di un assoluto dovere - è per ciò che non si può essere veramente per la pace, per la democrazia, per il socialismo, quando si risparmia il fascismo e gli si indulge, in vista di interessi particolari e transitori di Governi e di Stati. E converrebbe evitare con ogni studio che, nell’esplicazione della loro azione pacifista, altamente sincera e lodevole, i Governi democratici e socialisti, presi nella tenaglia delle circostanze, dimentichino che accreditare il fascismo per il vantaggio di un giorno è rinvigorire, per un molto lungo domani, il nemico “istituzionale”, il più insidioso e malefico della pace e del socialismo.
[...]
Il fascismo è condannato a barcheggiare fra tutte le demagogie. Non bisogna incappare nelle sue trappole.
Certo vi è una questione delle minoranze nazionali per effetto della pace di guerra. La nostra pace, di noi socialisti, non è l’ordine di Varsavia. Tutti i popoli hanno diritto alla vita e a comporsi e ricomporsi a lor guisa.
Perciò preconizziamo la Federazione Europea. Ma non si può che ribellarsi all’impiego cinico della formula “revisione dei Trattati” inalberata a una dato momento da Mussolini, per attirare nella insidia delle sue reti la Germania, l’Ungheria, la Bulgaria ecc. e riprendere a proprio profitto il Drang nach Osten asburgico, mentre egli schiaccia fino al soffocamento le popolazioni dell’Alto Adige e dell’Istria mercè un programma selvaggio di snazionalizzazione a oltranza, che assale la lingua, la tradizione, i costumi, persino il culto religioso e le tombe sacre degli allogeni oppressi.
La pace socialista non è la pace fascista.
La revisione socialista dei Trattati, non è la revisione fascista.
Il fascismo - e concludo - si oppone diametralmente a tutto il socialismo. Esso è nato per distruggerlo in tutti i suoi principi, in tutte le sue realizzazioni.
Qualcuno, un giorno, poté dire che il fascismo è un affare interno dell’Italia. Quale acciecamento! L’esperienza tragica dell’Europa centrale ha fatto crollare così puerile illusione.
Ma spetta a noi, socialisti italiani dispersi, che parliamo all’Internazionale a nome di tutto il popolo italiano, di ripetere incessantemente, di gridare a tutte le orecchie: “Il socialismo, la democrazia, la pace, non hanno nemico peggiore del fascismo. Se l’Internazionale vuole la pace, la libertà, il socialismo, se essa vuole vivere ed agire; essa deve proporre a sé stessa di abbattere il fascismo: per l’Italia - per tutti i popoli - per la vita stessa dell’Internazionale”.

venerdì 12 novembre 2010

"Dietro al monastero, vicino alla strada" di Ernesto Cardenal


Dietro al monastero, vicino alla strada,
esiste un cimitero di cose consumate,
dove giacciono il ferro arrugginito, pezzi
di stoviglie, tubi spezzati, fili di ferro attorcigliati,
scatole di sigarette vuote, segatura
e zinco, plastica vecchia, copertoni rotti,
che aspettano come noi la resurrezione.

sabato 6 novembre 2010

"L'altra faccia" di Carmen Yáñez


Sotto questa poesia d’amore
si nascondono le macerie dell’odio.
Sebbene questa poesia si smentisca
presumendo essere un’apologia alla vita
con la sua flora esposta all’ospite
la sua piccola testa ornata di ghirlande,
il suo volto dalle mille facce, illuminata.

Dietro l’altra sua faccia
il fuoco, la lingua delirante
che ride come un angelo apocalittico.
Il male mi occupa lo spazio e il tempo
quando cerco inutilmente l’ossigeno
della sua parola
la sua mano dolente
la sua sacra occupazione.

I componeneti dell’odio
vanno liberi e invadono tutti i fronti
di questa poesia che annega.
È che qualcuno decide in questa ora
le nostre morti.
Decide come e quando
prenderemo la pozione di veleno.
Qualcuno impazzito
che si leva dietro le ombre
di questa poesia
prendendo il nome a dio.
Mentre dio batte i tappeti dalla polvere
nel suo tempio.
E non ascolta, sordo, la bomba a orologeria
che scoppia nelle vicinanze.
Questa poesia è caduta nelle mani
dell’odio delirante e si dibatte tra la vita e la morte.
Nella sua stessa casa oltragiata.

Difendo
il parlare d’amore
sebbene non sia il momento adatto
e sembri assurdo.
Altro sogno, una specie di zagara
che riempie d’acqua tutti i distributori
e che l’acqua segue il suo legittimo corso.

giovedì 4 novembre 2010

Considerazioni libere (176): a proposito di centri commerciali...

A Casalecchio di Reno, un Comune vicino a Bologna, nel raggio di poche centinaia di metri ci sono un centro commerciale (con un ipermercato e oltre 70 negozi), il punto vendita dell'Ikea, quello della catena Leroy Merlin, alcuni altri grandi negozi (mobili, scarpe, elettronica) della grande distribuzione, il palazzetto dello sport, dove gioca una delle due squadre di basket di Bologna e si svolgono concerti e grandi eventi. L'area è facilmente raggiungibile dalle principali vie di comunicazione, ha una buona viabilità, un'ottima dotazione di parcheggi e una fermata del servizio ferroviario metropolitano. Nulla da dire: è un insediamento commerciale progettato e realizzato bene, rispettando una serie di vincoli imposti dalle amministrazioni locali.
Leggo oggi sulla cronaca locale che dalla prossima estate sono previsti una nuova serie di lavori: l'ampliamento del palasport e la creazione di una nuova, l'ennesima, area commerciale. Gli enti locali hanno dato il loro parere positivo: i privati realizzeranno nuovi parcheggi, adegueranno la rete stradale e sistemeranno la stazione. In questa "considerazione" non voglio discutere né la legittima scelta di alcuni imprenditori di realizzare queste nuove opere - evidentemente hanno fatto i loro conti e verificato che si tratta di una scelta remunerativa - né la capacità degli amministratori di gestire la crescita del territorio. Vorrei riflettere sull'idea, che sembra ormai nettamente prevalente, per cui lo sviluppo di un territorio si declina necessariamente con la realizzazione di nuovi spazi commerciali. Così intorno a Bologna ci sono cinque ipermercati, tre grandi punti vendita di bricolage, l'Ikea, un buon numero di negozi di elettronica ed elettrodomestici e così via, come in qualsiasi altra città italiana.
A ogni inaugurazione mi aspetto che il pubblico si divida tra i vari centri e parchi commerciali, invece mi pare che ogni volta si moltiplichi il numero dei clienti, che sembra crescere secondo un'esposizione geometrica, con conseguente aumento del traffico, dell'inquinamento e così via. Poi questi spazi, oltre ad aumentare di numero, tendono ad allungare gli orari di apertura e ormai le domeniche, per un numero sempre più grande di famiglie, vengono destinate allo shopping. Sulle aperture domenicali ho già scritto una "considerazione" (la nr. 48, per la precisione). Sempre più diventiamo clienti e sempre meno cittadini della nostra città e del nostro territorio.
Non è questione di avere nostalgia per le botteghe del tempo che fu, i centri commerciali, gli ipermercati sono utili e necessari, permettono una maggiore scelta di prodotti e prezzi migliori, ma dobbiamo avere la capacità di trovare un equilibrio nello sviluppo delle nostre comunità. Alcuni vecchi compagni mi hanno raccontato che per loro la fabbrica era un elemento di progresso, di modernità, le ciminiere che crescevano intorno alle città rappresentavano un dato positivo; molti anni dopo abbiamo scoperto che da quelle ciminiere uscivano veleni. Ora sono i centri commerciali a rappresentare il progresso, la modernità; forse, tra qualche decennio i nostri figli e i nostri nipoti scopriranno il veleno a cui li abbiamo costretti, questa continua mania di comperare, comperare, comperare, senza poi sapere esattamente dove gettare i rifiuti.

mercoledì 3 novembre 2010

Considerazioni libere (175): a proposito di fossati...

Ho apprezzato molto le parole che ieri Nichi Vendola ha rivolto a Berlusconi in merito al cosiddetto scandalo Ruby e soprattutto in risposta alle offese gratuite dello stesso Berlusconi verso gli omosessuali. Credo che Vendola sia riuscito a trovare il tono e gli argomenti giusti. Naturalmente quelle parole non erano destinate a Berlusconi, che probabilmente non le ha neppure ascoltate e che comunque è ormai incapace di uscire dal personaggio che si è costruito in questi lunghi anni di potere. Berlusconi è una persona dalla psicologia complessa e fragile: un uomo ricchissimo e potentissimo, incapace di invecchiare e di fare i conti con il proprio decadimento fisico e soprattutto con l'idea della propria morte. Le parole di Vendola sono rivolte alle italiane e agli italiani che hanno sostenuto - e ancora sostengono - Berlusconi, a chi l'ha votato e probabilmente è ancora disposto a farlo. Queste italiane e questi italiani - non dobbiamo mai dimenticarlo - sono la maggioranza in questo paese; chi non la pensa come loro deve rispetto a queste persone, perché questa è la regola fondamentale in ogni democrazia che si rispetti.
Ho già avuto occasione di scriverlo in qualche mia precedente "considerazione", il giudizio più severo che le generazioni future riserveranno a questi anni della storia italiana, oggettivamente dominati - nel bene e nel male - da Berlusconi, non sarà rivolto alla sua deludente azione di governo, alla sua incapacità di affrontare gli annosi problemi di fondo di questo paese - che, in alcuni settori, ad esempio la scuola e la pubblica amministrazione, sono diventati persino più gravi; le critiche più dure non saranno neppure rivolte al gravissimo tema del conflitto di interessi e ai suoi ripetuti - e a volte riusciti - tentativi di trasformare l'assetto costituzionale della nostra repubblica; tra molti anni probabilmente gli storici non citeranno neppure gli scandali che in questi giorni alimentano lo sfrenato gossip politico, ma Berlusconi sarà ricordato in maniera negativa perché ha lavorato costantemente, e con successo, a dividere in profondità gli italiani tra chi è con lui e chi è contro di lui, Berlusconi ha scavato - certo non da solo, ma lui è stato il principale responsabile - un fossato profondo tra queste due Italie, ormai incapaci di parlarsi. Se domani Berlusconi fosse colpito da un infarto improvviso e morisse, come è successo ad esempio all'ex presidente dell'Argentina Kirchner, assisteremmo a una spettacolo indegno di un paese civile: molte persone non nasconderebbero la loro soddisfazione, su Facebook si moltiplicherebbero i gruppi "pro infarto" e oscenità del genere, la morte del Presidente del Consiglio diventerebbe oggetto di barzellette più o meno sconce. Non succederebbe nulla del genere in nessun altro paese europeo se morisse all'improvviso il loro primo ministro.
Proprio adesso che il berlusconismo sta lentamente finendo, perché si sta consumando l'esperienza umana, prima che politica, di Berlusconi, bisogna che soprattutto noi, la minoranza, quelli che non siamo mai stati berlusconiani, troviamo le parole per rivolgerci all'altra Italia. Le parole giuste non sono certamente quelle di Di Pietro o di Grillo o di chi vuole approfittare di questa fase per far crescere qualche piccola rendita personale. Vendola ha saputo usare parole giuste.
Quando Berlusconi dice che è meglio andare a puttane che essere gay, dice una cosa che è considerata giusta e sacrosanta da moltissime persone, donne e uomini, che non avrebbero mai il coraggio di dirlo in pubblico; per queste persone sentire questa affermazione da Berlusconi, in televisione, è quasi una rivalsa contro il politicamente corretto, contro l'ipocrisia, contro un certo perbenismo. Per reagire a tutto questo sono controproducenti i toni profetici, gli alti appelli morali, le manifestazioni con baci in pubblico e così via; è probabilmente più utile ricordare, come ha fatto Vendola, che queste affermazioni possono essere una ferita per qualcuno che conosciamo, che amiamo e che non sappiamo sia omosessuale. E altri esempi potrebbero essere fatti.
Berlusconi non sarà sconfitto dalle invettive, Berlusconi si consumerà da solo, tra le adulazioni dei servi e le grida dei capipopolo. Poi un giorno questo regime finirà con la decisione di Berlusconi di lasciare - da un regime si esce senza traumi soltanto in questo modo - e ci sarà mezza Italia che cercherà di capire cosa fare; dovremo provare tutti a smettere di continuare a scavare il fossato e possibilmente dovremmo cominciare a renderlo un po' meno profondo. Poi finalmente potremmo perfino ricominciare a parlare di politica.