mercoledì 13 ottobre 2010

"Ricetta per uccidere un uomo" di Josè Saramago

Si prendono qualche decina di chili di carne, ossa e sangue, secondo parametri adeguati. Si dispongono armoniosamente in testa, tronco e membra, si riempiono di viscere e di una rete di vene e nervi, avendo cura di evitare errori di fabbricazione che siano pretesto alla comparsa di fenomeni teratologici. Il colore della pelle non ha alcuna importanza.

Al prodotto di questo delicato lavoro si dà il nome di uomo. Si serve caldo o freddo a seconda della latitudine e della stagione dell’anno, dell’età e del temperamento. Se poi se ne vogliono lanciare prototipi sul mercato, gli si infondono alcune qualità che li distingueranno dalla massa: coraggio, intelligenza, sensibilità, carattere, amore per la giustizia, bontà attiva, rispetto per il prossimo e per il distante. I prodotti di seconda scelta avranno, in maggiore o minor grado, l’una o l’altra di queste virtù di attributi positivi, parallelamente agli opposti, in genere predominanti. La modestia impone di non ritenere fattibili prodotti integralmente positivi o negativi. Ad ogni modo, si sa che anche in questi casi il colore della pelle non ha alcuna importanza.

L’uomo, classificato nel frattempo con un’etichetta personale che lo distinguerà dai suoi simili, usciti come lui dalla catena di montaggio, viene posto a vivere in un edificio cui si dà, a sua volta, il nome di Società. Occuperà uno dei piani di quest’edificio, ma raramente gli sarà consentito di salire la scala. Scenderla è permesso e a volte facilitato. Nei piani dell’edificio ci sono molte abitazioni, designate ciascuna o da ceti sociali o da professioni. La circolazione avviene per canali detti abitudine, usanza e preconcetto. È pericoloso andare contro la corrente dei canali, sebbene alcuni lo facciano per tutta la vita. Costoro, nella cui massa carnale si trovano fuse le qualità distintive dei prodotti che rasentano la perfezione, o che hanno optato deliberatamente per queste qualità, non si identificano dal colore della pelle. Ce ne sono di bianchi e di neri, di gialli e di bruni. Sono pochi i ramati, ma solo perché si tratta di una serie quasi estinta.

Il destino ultimo dell’uomo è, come si sa fin dall’inizio del mondo, la morte. La morte, in quel preciso momento, è uguale per tutti. Non però quanto la precede immediatamente. Si può morire con semplicità, come chi si addormenta; si può morire attanagliati da una di quelle malattie di cui eufemisticamente si dice che “non perdonano”; si può morire sotto tortura, in un campo di concentramento; si può morire volatilizzati all’interno del sole atomico; si può morire al volante di una Jaguar o investiti da essa; si può morire nel bagno o dal barbiere; si può scegliere la propria morte, e questo si chiama suicidio; si può morire di fame o di indigestione; si può anche morire di un colpo di fucile, al crepuscolo, quando c’è ancora la luce del giorno e non si pensa che la morte sia vicina. Ma il colore della pelle non ha alcuna importanza.

Martin Luther King era un uomo come ognuno di noi. Aveva le virtù che sappiamo, sicuramente dei difetti che non ne sminuivano le virtù. Aveva un lavoro da compiere - e lo compiva. Lottava contro le correnti dell’abitudine, dell’usanza, del preconcetto, immerso in esse fino al collo. Finché arrivò il colpo di fucile a ricordare ai distratti quel che siamo e che il colore della pelle ha molta importanza.

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