mercoledì 6 ottobre 2010

"L'isola deserta" di Josè Saramago

Per essermi mostrato troppo esigente con il comandante della nave che mi trasportava fui sbarcato su un’isola deserta. Mi dettero cibo per quindici giorni o quindici anni (non sono mai riuscito ad appurarlo con certezza), armi e munizioni (bombe atomiche incluse), e tra i passatempi della nave mi consentirono di prendere un libro e un disco. Scelsi il Don Chisciotte e l’Orfeo. Converrà spiegarne il perché. Avrei vissuto solo, e in pace, se possibile. Avrei avuto molto lavoro e poche distrazioni. Dunque, quale migliore libro del Don Chisciotte, che fa ridere e ha una Dulcinea inesistente, e dell’Orfeo, che fa piangere e ha un’Euridice morta? Con questa deliberata assenza avrei popolato le mie interminabili notti.

Vissi così sull’isola deserta. Non so quanto, ma fu più di quindici giorni e meno di quindici anni. Non arrivai a percorrere tutta l’isola, ma so che era deserta, altrimenti non mi ci avrebbero sbarcato. Persi la parola per l’abitudine di non parlare, e con ciò regalai al mondo un po’ di silenzio. Oltre al canto degli uccelli e al ruggito di una bestia feroce (non la vidi mai, ma dal ruggito era sicuramente feroce) non si udiva sull’isola altro che gli appelli disperati di Orfeo e le risate di Sancio Panza. Don Chisciotte, lui, passeggiava tutte le mattine lungo la spiaggia odorosa di alghe e di sale, sempre più magro, a cavallo delle ossa di Ronzinante. Di notte saliva su un’alta roccia e se ne stava a contare le stelle. Infilato al braccio sinistro teneva l’elmo di Mambrino, girato al contrario per offrire un rifugio al piccolo uccello che vi si era abituato a dormire. Con la lancia nella destra, Don Chisciotte vegliava sul sonno dell’uccellino. Ogni tanto mandava un sospiro. Non riuscii a chiedergli per quale ragione sospirasse, perché nel frattempo ero arrivato alla fine del libro.

Vivemmo tutti e quattro in buona pace sull’isola deserta. Un giorno si arenò sulla costa una grande cassa. Mentre l’aprivo, si raccolsero attorno a me i miei compagni. Non vi restarono a lungo: videro subito che dentro non c’era né Euridice, né Dulcinea, e neppure una botticella di vino. Ciascuno tornò alla sua vita, mentre io mi scervellavo per capire che cosa fosse quella roba. Aveva luci che si accendevano e si spegnevano e sembrava respirare. Solo più tardi, quando la vita sull’isola cominciò a modificarsi, scoprii che si trattava di un computer, cervello elettronico o qualcosa di simile. Onnisciente, non io, la macchina, è chiaro. Era comunque una compagnia. Il peggio fu che la nostra bella anarchia finì. Orfeo poteva piangere solo in certe ore, l’uccellino di Don Chisciotte fu accusato di trasmettere la psittacosi (e non era un pappagallo, lo giuro), e Sancio Panza dovette mettere da parte i proverbi e imparare l’inglese. In un certo senso, da questi e da altri cambiamenti traemmo giovamento, ma si insinuò in tutti noi un’inquietudine che era quasi una malattia e che il computer non seppe curare. Fu questa, se ben ricordo, la sua unica dimostrazione di ignoranza.

Quel che il computer fece di me non è bello dirlo. Mi provò che mi ero ingannato su tutto quel che era stata la mia ragione d’essere e di sentire. Che, al contrario, il comandante della nave aveva avuto mille motivi per sbarcarmi, e che l’isola deserta non era tale perché lui, computer, stava lì. Che l’uomo (l’uomo in generale, e io in particolare) è solo un bell’aneddoto anche quando (o soprattutto quando) piange, soffre, ride o sogna.

Di modo che morii. Il computer sta ancora li. Ma io ho grandi speranze. Se Dulcinea prende corpo ed Euridice risuscita, questo mondo forse può ancora diventare abitabile.

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