sabato 25 settembre 2010

Filippo Turati parla il 19 gennaio 1921 al Congresso del Partito socialista

Compagni amici e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici.
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Se il nostro Partito è un Partito di classe, se la nostra azione è veramente un’azione di storia, gli errori, fossero pure tali, dei singoli uomini, comunque si chiamino, non possono che scalfirne appena l’epidermide.
Amici e compagni, abbattiamo tutti gli idoli, tutte le idolatrie, anche questa idolatria a rovescio che consiste nel sopravalutare gli atti e le parole dei singoli uomini, si chiamino Turati, Serrati, anche Marx o Lenin, come se la forza, la coscienza, l’azione fossero in determinati uomini che potessero tutto compromettere, e non fossero nella vostra grande coscienza, nella forza grande di tutto il Partito socialista.
Dunque alla pattumiera tutte le misere quisquilie personali. Leviamoci più alto, al di sopra di queste miserie, e soprattutto degli uomini e delle persone.
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Ecco in che senso, pur constatando un dissenso che non giova attenuare con foglie di fico compiacenti, che giova analizzare, che giova denudare, perché la critica è la vita del pensiero, anche nei Partiti, ecco perché, pur constatando un dissenso, noi rimaniamo fermamente unitari. Ecco perché io stesso, che passo per essere – sarà giusta o no questa topografia – il più destro dei destri, io stesso mi unisco con tutto il cuore alla mozione votata a Reggio Emilia – che vi sarà presentata qui con la stessa sostanza, mutata solo la forma, per renderla adatta al Congresso – mi vi associo, malgrado certe concezioni, certe transazioni, certe – se vogliamo dirlo – ambiguità che essa sostiene, dovute ad un onesto opportunismo di Partito, dovute al desiderio di venire incontro a tutti i compagni per fare la reale, la leale unità.
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Nella dottrina, sul terreno dottrinale, io rivendico, noi rivendichiamo solennemente il nostro diritto di cittadinanza nel socialismo, che è il comunismo, che non è per noi il socialismo comunista e il comunismo socialista, perché in queste denominazioni artificiose, ibride, evidentemente l’aggettivo scredita il sostantivo, e il sostantivo rinnega l’aggettivo.
Il comunismo ebbe due sensi – voi tutti lo sapete – nella storia del moderno movimento proletario. O fu il comunismo critico di Engels e di Marx, il comunismo classico, opposto per ragioni tutte tedesche e transeunti ai falsi socialismi che prevalevano un quarto di secolo fa, socialismi filantropici falsi, a tutti i socialismi antirivoluzionari di quel tempo – e tutto questo è superato in Germania, come in Italia, come dovunque – oppure si chiamò comunismo in senso ideologico, nella previsione della forma della futura società socialista, che fosse più in là del collettivismo, che al concetto del sistema collettivista: "a ciascuno secondo il proprio lavoro, salvo gli invalidi, i bambini, ecc.", sostituiva il concetto più vasto: "a ciascuno secondo i propri bisogni" – prendere nel mucchio, come si diceva sinteticamente – che più che due concetti opposti significavano due fasi successive di evoluzione. La prima applicabile ad una società in periodo classico capitalistico, la seconda in una società di abbondanza, di esuberanza in cui le condizioni sociali permettano il grande consumo, la grande distribuzione ugualitaria di tutte le ricchezze.
Compagni, questo comunismo, in un senso o nell’altro, questo comunismo che è il socialismo, può anche espellermi dalle file di un Partito, ma non mi espellerà mai da sé stesso.
Perché io ho detto che quando si fa testamento si può essere un po’ orgogliosi, perché, francamente, compagni, è un diritto di anzianità, niente altro, non è un merito. Questo comunismo, questo socialismo e questo comunismo non solo noi lo abbiamo imparato negli anni della giovinezza sui testi sacri – direi quasi – della nostra dottrina, ma lo abbiamo in Italia, per solo merito di anzianità, ripeto, insegnato alla massa, al Partito nostro, ai Partiti che precedettero il nostro nella evoluzione del socialismo, quando questi lo ignoravano, quando lo temevano, quando lo sospettavano, quando lo avversavano.
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Io posso dunque amichevolmente sorridere di questa novità e di questa scoperta, che furono l’anima della nostra intelligenza e della nostra vita da che cominciammo a pensare. Non è questo che ci distingue oggi. Ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista, la questione dei fini, e neppure quella dei mezzi, ma una pura e semplice valutazione della maturità delle cose e del proletariato a prendere determinate posizioni in un dato momento; è unicamente la valutazione della convenienza di determinati mezzi episodici della lotta.
La violenza, che per noi non è un programma, non può e non deve essere un programma, che alcuni accettano in toto e vogliono organizzare e preparare – i cosiddetti comunisti puri, chiamateli come volete – che altri accettano a mezzo, guadagnando tutte le conseguenze dannose e nessun utile che la violenza potrebbe per avventura, nella mente di quegli altri, contenere in sé, noi, come programma, la rifiutiamo.
La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana.
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Tutte forme queste – violenza, culto della violenza, dittatura del proletariato, persecuzione dell’eresia – che si risolvono in una sola: nel culto della violenza interna, dirò così, e esterna, e che hanno un solo presupposto – semplifichiamo la questione nella quale è il vero punto di ogni divergenza – e cioè quello – che per noi è l’illusione – che la rivoluzione sociale, intendiamoci, non una rivoluzione politica, che abbatte e cambia sistema, sia il fatto volontario di un giorno o di un mese o di qualche mese, sia l’improvviso alzarsi di un sipario, il calare di uno scenario nuovo, sia il domani di un posdomani di un calendario, mentre il fatto di ieri, di oggi, di sempre, che esce dalle viscere stesse della società capitalistica, di cui noi creiamo soltanto la consapevolezza, che noi possiamo soltanto agevolare nei molteplici adattamenti della vita politica, ma non possiamo né creare, né apprestare, né precipitare, che dura da decenni, che si avvererà tanto più presto quanto meno lo sforzo della violenza, quanto meno il culto della violenza provocante, bruta, prematura, e quindi destinata al fallimento, esasperando resistenze avversarie e provocando reazioni e contro rivoluzioni, le ritarderanno il cammino e l’obbligheranno di ritornare su se stessa.
Onde è che per noi la via vera, quella dell’evoluzione, è la più breve.
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La violenza è propria del capitalismo e delle minoranze che intendono imporsi e schiacciare le maggioranze, e non può essere il principio delle maggioranze che vogliono e possono, con le armi intellettuali, redimersi ed imporsi. La violenza è il contrapposto della forza, la violenza è anche la paura, la poca fede nell’idea, la paura delle idee altrui, il rinnegamento della propria idea. E rimane tale anche se trionfa per un’ora, se per un’ora sembra trionfare, seminando dietro di sé la reazione della insopprimibile libertà della coscienza umana, che diventa controrivoluzione, che diventa vittoria, ad un punto dato, dei comuni nemici.
Ma, soprattutto, questa è verità profonda, che voi riconoscerete un giorno: in regime di suffragio universale, ancora non saputo adoperare, ancora incosciente, che dovremmo rendere cosciente, ma che vuol dire: "siete i sovrani, i dominatori", potete fare tutto quello che volete, senza versare una stilla di sangue umano, vostro ed altrui, se con la violenza, che desta la reazione, non metterete il mondo intero contro di voi.
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Noi siamo figli del Manifesto del 1848. Tutti! Soltanto noi siamo i figli di quel Manifesto, che accettiamo come una cosa che non si accetta come un dogma religioso, ma nel suo spirito, ponendolo nel suo tempo, integrandolo colle revisioni, i perfezionamenti, gli sviluppi che i tempi consigliano e che gli stessi autori e i più autorizzati interpreti del loro pensiero hanno solennemente consacrato nella dottrina. Io citai a Bologna la celebre prefazione alle Lotte di classe in Francia di Marx, prefazione del suo continuatore più autorizzato, del suo, non dico braccio destro, ma cervello destro, di Federico Engels, in cui, dopo quasi mezzo secolo dal Manifesto dei comunisti, se ne faceva dai più autentici interpreti la revisione confessando come, non per gioventù di uomini, ma per la giovinezza del Partito nel tempo essi avessero sopravalutata la possibilità insurrezionale, avessero creduto a ciò che non volevano più. E la potete vedere, questa citazione, negli opuscoli che l’hanno diffusa: è una vera sconfessione del culto della violenza; ed essi confessano che si erano ingannati, che la storia li ha completamente smentiti, e che essa dimostra come le classi che detengono il potere hanno più paura dell’azione legale del proletariato che dell’azione illegale e dell’insurrezione. La légalité nous tue. Per cui essi ci provocano sulle piazze, dove sanno che saremo sconfitti, mentre sanno che nell’esercizio dei mezzi legali essi stessi dovranno rompere la legalità, non noi, la legalità che li uccide, veramente, definitivamente.
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Tutti i Partiti giovani sono caduti nello stesso errore, rovinando così la causa che pretendono di servire, il che vi dimostra che noi abbiamo qualche ragione di ritenerci gli eredi più fedeli del marxismo più puro e più completo. Il culto di qualche frase, la famosa violenza che fa tutto nella storia, e via via, parole da comizio, che per accidia intellettuale si affacciano al cervello dei meno colti, che per loro sono come le chiavi che aprono tutti i chiavistelli della storia, e velano il vero fondo della dottrina.
Quel culto delle frasi isolate, dei periodi isolati, per cui Marx dichiarava volentieri e spesso – lui di non essere marxista, come io – uomo di cento cubiti più sotto, si capisce – ho avuto tante volte, di fronte a certi pettegoli, da dichiarare che non sono punto turatiano.
Perché nessuna formula, fossero anche i 21 punti di Mosca, nessuna formula scritta ci dispensa dall’avere un cervello pensante, sostituendosi all’azione del cervello che, al cimento dei fatti che mutano, si serve bensì di certe leggi intellettuali, di certi punti di orientamento acquisiti, ma modifica continuamente le proprie vedute a seconda del le necessità della storia e dell’ora.
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Il nucleo solito quindi che rimane di tutte queste lotte, che sono sempre le stesse nelle diverse forme transitorie e caduche, il nucleo solido è nell’azione. Nell’azione che non è l’illusione, che non è il miracolo, la rivoluzione in un giorno o in un anno, ma è la abilitazione progressiva, faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale: sindacati, cooperative, potere comunale, parlamentare, cultura, tutta la gamma, questo è il socialismo che diviene! E non diviene per altre vie: ogni scorciatoia non fa che allungare la strada; la via lunga è la sola breve.
E l’azione è la grande pacificatrice, è la grande unificatrice; essa creerà l’unità di fatto, che noi non troviamo nelle formule, che non troveremo mai nelle parole né negli ordini del giorno, per quanto abilmente ponzati con dosature farmaceutiche di fraterno opportunismo. Azione perenne, azione fatale, prima e dopo quella tale rivoluzione che si avvera sempre, nella quale siamo dentro, perché essa stessa, questa azione è la rivoluzione.
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Dovete fare questa azione graduale, e dovendo fare questa azione, che non può essere che quella, non ce n’è altre e tutto il resto è clamore, è sangue, è orrore, è reazione, è delusione, dovendo fare questa opera voi dovrete poi anche fare da oggi un’opera di ricostruzione sociale.
Io sono già imputato, e dovrei essere oggi alla sbarra, con le guardie rosse accanto, di un discorso pronunziato alla Camera il 20 giugno: Rifare l’Italia, in cui cercavo di delineare, co me lo penso io, il programma di ricostruzione sociale del nostro paese, perché abbiamo parecchio da fare nel nostro paese.
Leggetelo. Probabilmente non lo avete letto ed avete fatto male! Leggetelo e vedrete altre profezie e vi accorgerete che questo corpo di reato è il comune programma.
Voi temete oggi di costruire per la borghesia.
Preferite lasciar crollare la casa comune al conquistarla per voi. Fate vostro il "tanto peggio tanto meglio" degli anarchici. Credete o sperate che dalla miseria crescente possa nascere la rivendicazione sociale: non nascono che le guardie regie e il fascismo, la miseria, l’ignoranza, lo sfacelo.
Voi non intendete ancora che questa rivoluzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, sarà il maggior passo, il maggior slancio, il maggior fondamento per la rivoluzione proletaria completa di un giorno. E allora, in quel giorno, noi trionferemo insieme!
Io forse non vedrò quel giorno. Troppa gente nuova è venuta per forza di cose, che renderà più aspra e difficile la nostra via, ma indubbiamente si trionferà in quella via; maggioranza, minoranza, non conta niente, non si tratta di numeri, frazione scacciata o frazione tenuta, alleanza di frazione o non, collaborazione di frazioni o non, fortuna di uomini scacciati via o tenuti, tutto questo è ridicolo di fronte alle necessità della storia, tutto questo non ha importanza, ciò che ha importanza è la forza operante, per cui io vissi, nella cui fede onestamente morrò, con voi o senza di voi, uguale sempre a me stesso, e combattendo io resto, e credo nel suo trionfo, con voi, perché questa forza operante è il socialismo.
Ebbene: Viva il socialismo!

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