domenica 2 maggio 2010

Considerazioni libere (106): a proposito di un povero cristo...

La storia di Stefano Cucchi descrive bene quello sta diventando - o forse è già diventato - il nostro sfortunato paese. Qualunque sarà l'esito dei processi, che temo arriverà tra molto tempo e sarà pieno di contraddizioni, in questa vicenda c'è un dato certo: il 15 ottobre Stefano è entrato in carcere con le proprie gambe e il 22 ottobre è uscito dall'ospedale morto.
Come è ovvio, adesso la magistratura ha il dovere di verificare le responsabilità e di punire i colpevoli. In questi giorni la pubblica accusa ha presentato l'esito delle proprie indagini, descrivendo un quadro preoccupante di responsabilità: Stefano sarebbe stato prima picchiato da alcuni agenti della polizia penitenziaria, poi trasferito in ospedale dove medici e infermieri avrebbero sottovalutato colpevolmente le sue condizioni di salute. Sarà probabilmente molto difficile stabilire se Stefano sia morto per le lesioni inflitte in carcere o per la noncuranza con cui è stato trattato in ospedale e su questo sicuramente si aprirà un lungo cammino processuale, il cui esito adesso non è prevedibile. Ma non è su questi aspetti giuridici, per quanto importanti, che ora voglio riflettere.
Stefano è morto, trascorrendo gli ultimi sette giorni della sua vita in due strutture pubbliche, un carcere e un ospedale, e di questo dobbiamo parlare. Stefano non è stato vittima di un incidente, ma, nella migliore delle ipotesi, di una serie impressionante di incapacità e di omissioni: Stefano è vittima di quello Stato che lo aveva arrestato e lo doveva punire, ma che lo doveva anche tutelare e curare. Ma ora, anche da morto, continua a essere vittima della nostra colpevole indifferenza.
Sul "Corriere della sera" di ieri l'articolo in cui si parla della morte di Stefano Cucchi e della decisione della Procura di Roma di indagare le persone coinvolte occupava due terzi di pagina 30; a fianco l'intera pagina 31 era dedicata a una nuova prova, un capello biondo, sul caso di Garlasco. Ammetto di non avere letto questo articolo, ma sinceramente non credo possa avere la stessa rilevanza. Eppure il "Corriere" si è occupato del caso di Stefano, con articoli e editoriali, non ha nascosto nulla, è stato duro nel sottolineare le responsabilità: non si tratta di volontà di nascondere o di insabbiare, semplicemente di una scelta di gerarchia delle notizie. Non ho a disposizione nessun dato, ma sono certo che la morte di Stefano Cucchi abbia avuto sui giornali e in televisione molto meno spazio di uno dei casi di cronaca che hanno acceso la curiosità dell'opinione pubblica in questi mesi, ad esempio l'omicidio di Chiara Poggi. Con tutto il rispetto per chi è morto e per le loro famiglie, che hanno vissuto e stanno vivendo drammi che nessuno può capire, francamente non credo che nessuna di queste storie sia più importante di quello che è successo a Stefano.
Quello che mi preoccupa - e mi spaventa - è l'indifferenza dell'opinione pubblica. Penso a un'altra persona che è entrata in questura con le proprie gambe e ne è uscita morta: il povero Giuseppe Pinelli. Certo per molte ragioni non bisogna rimpiangere quegli anni, il clima di violenza, gli attentati, l'esasperazione della lotta politica, e non posso dimenticare che a quella morte - ancora senza una spiegazione dopo quarant'anni - è seguita la morte violenta di Luigi Calabresi, che pure non era responsabile della morte di Pinelli. Eppure la morte di Pinelli indignò una parte importante e consistente dell'opinione pubblica, spinse giornalisti a scrivere articoli e condurre inchieste, ispirò i versi di poeti e scrittori, animò una discussione profonda nel paese, che ancora continua, tanto che ci sono due distinte lapidi a ricordare quella morte. Non so se ci sarà mai una lapide per ricordare la morte di Stefano Cucchi. Lo ripeto, a scanso di equivoci, non rimpiango quegli anni - che per altro, non ho vissuto, e di cui posso solo parlare per esperienza indiretta - ma la morte di Stefano Cucchi non ha sollevato la stessa indignazione, è passata nella nostra indifferenza.
La stessa indifferenza che ha contribuito a ucciderlo. Stefano in fondo è uno dei tanti ragazzi con problemi di droga che ogni notte vengono portati nei commissariati di polizia e nelle caserme dei carabinieri, uno delle migliaia di volti con cui si scontrano ogni giorno uomini delle forze dell'ordine sotto organico e mal pagati. Uno dei tanti giovani che arrivano nei pronto soccorso degli ospedali, che - lo sappiamo bene - hanno problemi di risorse e di strutture. Uno di quelli che ciascuno di noi scansa per strada, magari cambiando marciapiede. Forse l'agente che ha picchiato Stefano ha pensato che quello era l'unico modo per farlo stare zitto e che non sarebbe successo niente, forse il medico che non ha sentito il polso di Stefano ha pensato che si sarebbe ripreso e che non sarebbe successo niente. Invece qualcosa è successo. Stefano alla fine di quei sette giorni è morto.
A leggere gli stralci dei verbali, mi ha colpito soprattutto l'inumanità di certi passaggi burocratici. Per trasferire Stefano all'ospedale "Pertini" serviva un'autorizzazione dell'amministrazione penitenziaria, ma gli uffici chiudono alle 14 del sabato. Quando i genitori arrivano in ospedale non si capisce chi li può autorizzare a vedere il figlio, che infatti morirà senza che loro possano essergli accanto. Mentre Stefano sta morendo e dopo che è morto vengono scritti documenti, autorizzazioni, referti, vengono apposti timbri e firme, ma nessuno gli sente il polso. Naturalmente so bene che tutte le organizzazioni hanno bisogno di regole e queste si portano dietro una certa dose di formalismo e di burocrazia, ma in questa storia probabilmente le formalità hanno prevalso su ogni altra considerazione, tanto non sarebbe successo niente. E invece qualcosa è successo. O forse non è successo davvero niente, perché nessuno ha la forza di indignarsi, di scrivere una canzone per Stefano, di firmare appelli o di scendere in piazza. C'è stata anche una commissione parlamentare d'inchiesta che ha, nel limite delle proprie competenze, accertato delle responsabilità, ma non ha detto nulla sulle "regole" e sul "sistema"che hanno portato alla morte di Stefano.
Rimane la lotta della famiglia, la dignità con cui la sorella di Stefano risponde alle domande dei giornalisti, rimangono le foto di Stefano, quelle allegre quando era vivo e quelle terribili dopo la sua morte. Ha scritto Adriano Sofri in un articolo pubblicato su "la Repubblica" il giorno di Pasqua, intitolato significativamente "Resurrezione":
Le carceri sono fitte come non mai, anche se è improbabile che vi si trovi un Gesù. Ancora meno probabile che ci sia più qualcuno capace di riconoscerlo. Ma poveri cristi sì, a migliaia. Dentro, e fuori. A volte lasciano un’impronta su un sudario, l’impronta di un ragazzo macilento tossico e pestato.

Stefano è questo povero cristo e noi siamo quelli che non lo sappiamo riconoscere.

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