lunedì 19 settembre 2016

Verba volant (307): fertilità...

Fertilità, sost. f.

Questa è una parola difficile da raccontare, perché bisogna affrontarla con giudizio, e senza pregiudizi. Nei giorni scorsi ne abbiamo parlato male, perché trascinati da una serie di slogan che erano riusciti a unire la volgarità della retorica clerico-fascista con la banalità del peggior marketing pubblicitario; ma anche noi, che abbiamo criticato quegli infelici manifesti, non siamo quasi mai riusciti ad alzare il tono della discussione, preferendo per lo più l'inevitabile sfottò.
Il tema è complicato perché unisce una questione pubblica fondamentale, anzi forse la questione pubblica per eccellenza, ossia quella della crescita demografica di una società, con le storie personali di ciascuno di noi, di chi ha figli e di chi non ne ha, e quindi riguarda strettamente il privato di ogni famiglia. La somma delle nostre scelte intime - di cui giustamente ciascuno di noi è geloso - incide sull'intera società, e come tale diventa un fatto politico, di cui occorre parlare in pubblico. E richiede che vengano pensate e messe in pratica quelle azioni per favorire la crescita della società, a partire dalla tutela dei diritti economici e sociali delle donne. La questione demografica è essenziale in ogni società e quando, come avviene ormai chiaramente nella nostra, non si fanno figli, o almeno non abbastanza per segnare un dato positivo nel bilancio demografico, dovremmo cominciare a ragionarci - e nel caso a preoccuparci - tutti, perché quella società è destinata a invecchiare e a morire. Però io posso sapere le ragioni e conoscere le circostanze che hanno portato mia moglie e me a non avere figli, ma non posso sapere quelle degli altri, in qualche caso le posso intuire, ma le devo comunque rispettare, come spero gli altri facciano con le nostre. E il primo modo di esprimere questo rispetto è quello di non ricavare una teoria generale - valida per tutti - dalle ragioni della mia famiglia e di quelle poche altre che conosco.
Noi uomini lo dimentichiamo spesso, ma siamo animali - homo sapiens, secondo la classificazione di Linneo - siamo primati della famiglia degli ominidi, l'unica specie vivente del genere homo. E come tutti gli animali di questo mondo tendiamo a riprodurci. La natura ha fatto anche in modo che riprodursi sia un'attività piuttosto piacevole, se escludiamo i dolori della donna che deve partorire. Solo che noi siamo diventati animali strani, abbiamo questa mania di pensare, ci siamo perfino inventati la iattura della filosofia e tutto quello che facciamo, anche le cose più naturali, le vogliamo provare a capire, ad analizzare, a discutere e, in qualche caso, a contestare.
Questo ci è successo anche con l'essere madre e padre, abbiamo cominciato a chiederci se fosse proprio il caso di continuare la specie. O almeno se proprio noi dovessimo farlo. Per molti secoli questo dibattito non è stato evidentemente molto sviluppato, visto che i bambini sono continuati a nascere; in molte parti del mondo ancora oggi questa discussione non pare troppo consueta, tanto che siamo preoccupati del nostro numero su questo pianeta e che in alcuni paesi i governi sono piuttosto impegnati a ridurre il numero delle nascite invece che a stimolarle.
Già gli antichi sentivano che c'era qualcosa che non andava: da un lato c'era la natura che aveva le sue leggi e dall'altra le norme che gli uomini si davano proprio per modificare queste leggi, spesso crudeli. Secondo la legge di natura è giusto che il più forte uccida il più debole, ma gli uomini hanno scritto delle norme proprio per tutelare i più deboli. Possiamo guardare in televisione un documentario in cui un lupo uccide un cucciolo di bisonte, anzi lo facciamo vedere anche ai nostri figli, per spiegare loro le meraviglie della natura e allo stesso tempo ci facciamo prendere dall'entusiasmo per gli atleti delle paralimpiadi, donne e uomini che in natura non avrebbero potuto sopravvivere, sarebbero stati le prede più facili. E viviamo questa contraddizione: da un lato vorremmo che la natura facesse il suo corso, critichiamo l'impatto dell'uomo sulla natura, e dall'altro lato non accettiamo che un bambino muoia per fame e vorremmo che tutti i bambini che nascono potessero crescere, senza pensare che questa è la cosa più innaturale del mondo, perché la crescita senza controllo degli animali uomini è fatalmente destinata a sconvolgere l'equilibro della natura.
Spero che ora qualcuno non mi denunci perché crede che io voglia gettare i bambini più deboli dalla rupe Tarpea. Vorrei solo che chi deve decidere quale day promuovere provasse a pensare in maniera un po' diversa da come evidentemente ha fatto finora. A partire dal fatto che forse è sciocco ragionare della fertilità o dell'infertilità di un solo, piccolo, fazzoletto di terra, mentre il tema è capire quante bambine e quanti bambini nascono al mondo, quante risorse abbiamo per sfamare ciascuno di loro, e quindi cosa dobbiamo fare affinché tutte e tutti possano crescere in salute e avere la possibilità a loro volta di fare figli.
Erodoto racconta l'incontro tra Creso, il ricchissimo sovrano della Lidia, e il saggio Solone. Creso, dopo aver mostrato all'ateniese tutte le sue enormi ricchezze, gli chiese se avesse già visto al mondo un uomo che fosse il più felice di tutti. Naturalmente il re pensava di essere lui, ma Solone gli disse che effettivamente lo aveva conosciuto e che si trattava di Tello, un cittadino di Atene che ovviamente nessuno conosceva. Solone spiegò che uno dei motivi per cui quell'anonimo cittadino era il più felice del mondo era che aveva avuto figli e quei figli a loro volta avevano avuto dei figli e che tutti, figli e nipoti, erano ancora vivi quando lui morì. Noi siamo ricchi, magari non come Creso, ma siamo molto ricchi, anzi tendiamo a misurare ogni cosa, compresa la nostra felicità, in base a questa ricchezza. Però non possiamo dirci felici, perché abbiamo dei figli - li abbiamo anche noi, benché nessuno ci chiami papà - e li vediamo morire. Un nostro figlio è morto giovane in un cantiere perché gli è caduta addosso una gru, una nostra figlia è morta perché aveva deciso di lasciare il fidanzato che la picchiava. Un nostro figlio è morto torturato in Egitto, un altro in un ospedale di Roma picchiato dai carabinieri e non curato dei medici. Un nostro nipotino è morto su una spiaggia in Turchia. Una nostra nipote, ancora bambina, è morta in India, partorendo un figlio non suo, che lei soltanto "ospitava" per una ricca coppia americana.
Di fronte a un mondo così volgarmente ingiusto - a parte che mi arrabbio per la stupidità di un governo il cui unico problema è indire un Fertility day - mi viene la tentazione di dire che in fondo è giusto che smettiamo di fare figli, anzi sono contento di non averne, perché non vorrei lasciare a mio figlio o a mia figlia un mondo che noi abbiamo reso così schifoso. Prima finirà la nostra supposta civiltà meglio sarà. Quando finalmente si estinguerà il cosiddetto homo sapiens sarà sempre troppo tardi. Poi mi passa, poi mi ricordo di essere un vecchio comunista che sogna il sol dell'avvenir e un mondo radicalmente diverso da questo, anche se io non avrò la ventura di vederlo. E mi convinco che nasceranno, da qualche parte, le giovani donne e i giovani uomini che lo cambieranno.

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