mercoledì 6 aprile 2016

Verba volant (261): petrolio...

Petrolio, sost. m. 
Mi sono caduti per caso gli occhi sulla parola petrolio in un articoletto credo de "L’Unità", e solo per aver pensato la parola petrolio come il titolo di un libro mi ha spinto poi a pensare alla trama di tale libro. In nemmeno un'ora questa "traccia" era pensata e scritta.
Sono parole di Pier Paolo Pasolini, scritte nel 1972 in calce a un foglio di uno dei quaderni, in cui si trova quello che rimane di quello che probabilmente sarebbe stato il suo ultimo lavoro, visto che in una celebre intervista del gennaio 1975, disse che questo romanzo lo avrebbe impegnato per anni, forse per il resto della mia vita, perché doveva rappresentare una specie di “summa” di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie. Petrolio fu davvero la sua ultima opera, perché il 2 novembre di quello stesso anno Pasolini venne ucciso, forse proprio a causa di Petrolio.
Chi lo fece uccidere magari pensava che in quel libro ci sarebbero state rivelazioni scottanti, denunce dettagliate di crimini commessi in nome di quel bene - allora come oggi - così prezioso. Pasolini però non stava scrivendo un pamphlet, non stava raccogliendo prove, non stava preparando un dossier da usare contro i suoi nemici: pensare questo sarebbe ridurlo al rango di un qualsiasi mestatore, come un Mino Pecorelli qualsiasi, anche lui ucciso qualche anno dopo. Pasolini era un artista, un intellettuale - con Italo Calvino ed Eduardo De Filippo, uno dei più importanti dell'Italia del secondo Novecento - e chi l'ha ucciso sapeva benissimo che il pericolo rappresentato da Pasolini non erano le informazioni che poteva aver raccolto, ma la consapevolezza che poteva far nascere nei suoi lettori, contemporanei e futuri. Chi ha ucciso Pasolini ha corso quel rischio perché una voce del genere doveva essere fatta tacere, non per le cose che diceva, ma per le idee che faceva vivere nelle sue opere, perché un uomo come lui insegnava a pensare. Quelli che hanno ucciso Pasolini, anche se erano così potenti, anche se avevano a disposizione tante ricchezze e tanti mezzi, avevano paura di lui, di quell'uomo disarmato, ma credo abbiano sopravvalutato noi italiani: neppure uno come Pasolini ci avrebbe svegliato dal nostro colpevole torpore.
A Pasolini forse importava relativamente poco sapere e far sapere chi avesse ucciso Enrico Mattei, che ruolo ebbe in quell'omicidio Eugenio Cefis, in quali affari fosse allora implicata l'Eni, chi fossero gli uomini a libro paga di quell'azienda nella politica e nel giornalismo. Pasolini, come spiega egli stesso all'amico Paolo Volponi, dice che il suo romanzo è
il grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso capitalismo.
Pasolini in Petrolio descrive da un lato l'arroganza volgare degli uomini di potere e dall'altro la nostra resa a questo potere, non tanto per paura, ma per una volontaria adesione a una pseudocultura senza valori. Racconta il volto più terribile del potere, quello che non solo è disposto a uccidere per garantire i propri privilegi, per accrescere la propria ricchezza, ma soprattutto che ha trovato il modo di renderci schiavi, omologandoci alla sua parte peggiore. Racconta la creazione di un sistema di valori negativi a cui l'intera società pare essersi assuefatta. Pasolini racconta in Petrolio quello che noi siamo diventati.
Basta sfogliare un qualsiasi giornale, aprire un qualsiasi sito e scoprire che, quarant'anni dopo, la storia del nostro paese gira ancora intorno al petrolio - è la parola che in questi giorni ritorna con assillante frequenza - e al potere che questo rappresenta, all'avidità delle classi dirigenti che questo elemento scatena, agli inganni e ai crimini che fa compiere. Ed è inquietante vedere la rappresentazione che il potere offre di se stesso, così simile a quella immaginata da Pasolini. Un potere che rimane arrogante, volgare, che è ancora più forte di quanto non fosse allora, che è disposto a uccidere, ora come allora. In fondo la morte di Giulio Regeni nasce da lì, dagli affari dell'Eni in Egitto, nasce in quel mondo di complicità, che Pasolini ci fa intuire prima ancora di raccontarcelo. 
Però a leggere le cronache di questi giorni prende una sconforto ancora maggiore, un senso di schifata sofferenza, perché i rappresentanti di quel potere non hanno nulla di tragico, ma sembrano usciti da una pochade di infimo livello: la bruttina stagionata ricca e potente, il gagà siciliano che ne sfrutta il nome per entrare in società e per fare i suoi traffici, sono personaggi da farsa e non da tragedia. Eppure noi subiamo una tragedia, subiamo lo sfruttamento sistematico del nostro territorio, veniamo noi stessi sfruttati e derubati, soffriamo per la rapacità del capitalismo, ma rimaniamo imbambolati davanti ai nostri televisori e guardiamo a quel mondo corrotto con malcelata invidia, cercando di scimmiottarne i comportamenti. Non siamo più solo vittime di questo potere crudele, ma ne siamo diventati in qualche modo complici, e infatti non esitiamo a sfruttare quelli che sono ancora più deboli di noi, quelli che arrivano qui dall'altra parte del mondo, anche perché vengono cacciati dai loro paesi da aziende come Eni, come Total, che pur di fare i loro affari, fomentano guerre, distruggono risorse, uccidono chi è un intralcio ai loro guadagni. 
Quarant'anni dopo quel petrolio è ancora più viscido, ha contaminato ormai i pozzi a cui attingiamo l'acqua, il suo odore pesante, nauseabondo, è entrato nelle nostre fibre, lo mangiamo, e ringraziamo chi ci fa vivere così, lo votiamo perfino, affinché possa continuare a sfruttarci. Hanno vinto loro e fanno tutto quello che vogliono, perché sanno che Petrolio non ci ha insegnato nulla: sono solo gli appunti confusi lasciati da un uomo che è morto.  

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