giovedì 18 settembre 2014

Verba volant (126): tutela...

Tutela, sost. f.

Il sostantivo latino tutela deriva da tutus, participio passato del verbo tueri, il cui primo significato è quello di guardare - e da qui la radice del verbo italiano intuire - e, in senso figurato, proteggere, curare, a cui è stata aggiunta la desinenza -ela propria dei termini astratti. Non credo sia un caso che la parola tutela in Italia descriva sempre più un concetto astratto, in particolare per quel che riguarda il mondo del lavoro.
Nella sua furia riformatrice, in questi giorni il governo si è inventato il contratto di lavoro a tutela crescente, con l'obiettivo neppure troppo sottaciuto di cancellare definitivamente dalla legislazione italiana l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Come noto è da alcuni anni che i nostri governi cercano di ottenere questo risultato ed è probabile che ci riesca proprio l'attuale sedicente governo di centrosinistra, votato e finora sostenuto acriticamente dalla maggioranza della Cgil. Risulta perfino un po' patetico chi adesso, dall'interno del Pd, dice che in questo modo si tradisce il mandato degli elettori; con tutto il rispetto, caro Bersani, una parte di responsabilità se adesso c'è Renzi è anche tua e quindi è meglio che rimani a Bettola, a riposare come meriti.
Al di là della demagogia che Renzi ha fatto e farà su questo tema, l'idea di cancellare l'art. 18 non è nuova ed è figlia di una precisa visione ideologica, quella del finanzcapitalismo, di cui questo governo è assolutamente succube. Non ci sono ragioni di politica economica per sostenere la necessità di abrogare quella norma. Non esiste un motivo "tecnico" - nonostante questo sia un cavallo di battaglia dei tecnici - per cancellare questo articolo.
La rigidità del mercato del lavoro nel nostro paese è molto sopravvalutata, è una di quelle bugie che, a forza di esser dette, finiscono per essere considerate vere. L'Ocse ha definito un indice per misurare proprio la rigidità dei regimi di protezione dell'impiego, quindi uno strumento per misurare la facilità o la difficoltà delle imprese a licenziare i lavoratori. L'Ocse - badate bene, non la Terza Internazionale, ma l'Ocse, che è proprio uno dei centri del finanzcapitalismo - ha calcolato questo indice per quarantasei paesi. In un rapporto, quello riferito al 2008 - ossia prima della stagione dei governi tecnici e prima della lettera di Draghi con cui il nostro paese è stato commissariato di fatto dalla Troika - si mette in evidenza per l'Italia una relativa facilità di licenziare i lavoratori a tempo indeterminato, nelle imprese con più di quindici dipendenti, proprio quei lavoratori a cui si applica il famigerato art. 18; l'indice Ocse posiziona l'Italia al decimo posto, al livello della tanto decantata Danimarca, che - a sentire un solone come Ichino - dovrebbe essere il modello a cui tendere.
Chi sostiene la necessità di abolire l'art. 18 spiega che una minore rigidità nelle norme che definiscono i licenziamenti favorirà la crescita dell'occupazione. Non è vero. Questa correlazione non è dimostrata empiricamente da nessun risultato statistico, per nessun paese al mondo. Anzi, si può provare il contrario. In Italia il progressivo calo dell'occupazione - che ha ormai una tendenza strutturale e appare purtroppo irreversibile - non è stato né fermato né rallentato dalle riforme del 1997 e del 2003, varate rispettivamente da un governo di centrosinistra e da uno di centrodestra, tese proprio a rendere più flessibile il lavoro. In sostanza l'introduzione di una proliferazione di nuovi contratti, la crescita di sempre maggiori forme di precarietà non ha significato un aumento dell'occupazione. Tutt'altro.
I dati dell'Istat - e l'esperienza di ciascuno di noi lo può confermare - ci raccontano un'Italia in cui c'è sempre meno lavoro. Si tratta di una realtà drammatica, soprattutto per i giovani, per le donne e per il Mezzogiorno: per una giovane donna campana o siciliana, per quanto brava, trovare un lavoro è un'impresa al limite dell'impossibile.
Sulle conseguenze dell'introduzione di leggi per favorire la diffusione dei contratti cosiddetti atipici c'è un documento - redatto da quei comunisti del Fondo Monetario Internazionale - in cui si dice esplicitamente che nei paesi in cui sono state introdotte riforme tese a introdurre una maggiore flessibilità, specialmente con l'estensione dei lavori a tempo determinato - per non parlare di altre bizzarre fantasie della legislazione italiana, a cui si aggiungerà tra poco la tutela crescente - c'è stato un aumento della disoccupazione. Nel documento si spiega che questo aumento della disoccupazione è certo e provato nei periodi di crisi, come quello che stiamo vivendo; a chi sostiene che comunque, superata la crisi, queste riforme genereranno nuovi posti di lavoro, il documento risponde in questo modo:
In principio, il mercato del lavoro duale dovrebbe portare benefici durante la ripresa, poiché le imprese dovrebbero essere più pronte a reimpiegare i lavoratori con contratti temporanei, piuttosto che permanenti. Se ciò si verificherà è ancora da vedere.
Ci permettiamo anche noi di dubitare, come fanno i compagni del Fmi.
C'è infine un'ultima considerazione, che naturalmente a un uomo di destra come Renzi non importa molto, ma che a noi di sinistra dovrebbe interessare. Chi analizza queste cose ha verificato che esiste una relazione precisa tra minore rigidità dei regimi di protezione dell'impiego e diminuzione dei salari: ossia nei paesi dove è più facile licenziare i salari tendono a essere più bassi. Questo è facilmente verificabile anche tra i giovani italiani: i loro salari medi sono inferiori a quelli dei loro genitori.
Se allora l'abolizione dell'art. 18 non garantisce affatto la crescita dell'occupazione, non sarà che Renzi - e chi per lui - pensa che questa riforma sia utile proprio per ridurre i salari dei lavoratori? Il sospetto viene perché pare strano che Renzi e i suoi complici si incaponiscano in una lotta per puro spirito ideologico, per il solo gusto di togliere una norma che ritengono sbagliata o che dicono sia ininfluente. A qualcosa - e a qualcuno - deve servire togliere l'art. 18. Visto che ai lavoratori non serve, forse servirà ai padroni, che infatti lodano tutti il nuovo governo.
Mi rendo conto che al punto in cui siamo già la difesa dell'art. 18 pare un compito troppo duro per le nostre deboli forze, eppure la nostra scelta dovrebbe essere quella di rilanciare, bisognerebbe fare una battaglia culturale, prima ancora che politica, per chiedere l'estensione dell'art. 18 anche alle aziende con meno di quindici dipendenti, per estendere a tutti questa forma di tutela. Per nulla astratta.

post scriptum
Magari i più attenti di voi se ne sono già accorti. Per scrivere questa definizione di Verba volant ho utilizzato molto materiale che avevo già usato in una "considerazione libera" di più di due anni fa, quando al governo c'era Monti. Devo purtroppo sottolineare che in questi due anni la situazione è peggiorata, la disoccupazione è aumentata e gli attacchi al mondo del lavoro sono sempre più violenti. Mi ha colpito una cosa: potevo togliere dal mio vecchio articolo il nome di Monti e sostituirlo con quello di Renzi e il discorso continuava a filare, perché quest'ultimo fa esattemente le stesse cose che faceva quello.

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