giovedì 24 aprile 2014

Verba volant (84): progresso...

Le_ProgrèsProgresso, sost. m.

Lo spunto per scrivere questa definizione mi è venuto guardando un'immagine che ho trovato casualmente su Facebook, che ho condiviso e su cui alcuni amici hanno avviato una discussione interessante. L'anonimo ha unito due foto, una recentissima e una degli anni Settanta: nella prima, a colori, le tre donne che governano Brasile, Argentina e Cile - rispettivamente Dilma Rousseff, Cristina Fernàndez de Kirchner e Michelle Bachelet - nella seconda, in bianco e nero, i militari che governavano quegli stessi paesi quarant'anni fa.
Il primo istinto è quello di tirare un sospiro di sollievo: evidentemente questo tempo non è passato invano, se quelle terribili dittature sono finalmente finite. Questo infatti è stato il mio primo commento, dopo il quale alcune persone hanno sottolineato i danni profondi che il governo di Cristina Fernàndez sta facendo a quel paese.
Ripeto quello che ho scritto là, in un post successivo al mio commento a caldo dell’immagine, rispondendo proprio a queste critiche. Io non sono un sostenitore acritico di nessuna di quelle tre donne di governo, tanto meno della presidente dell’Argentina, che è protagonista di una politica economica che ha fatto e fa danni; se fossi argentino immagino che sarei decisamente all’opposizione, senza farle alcuno sconto, e lo stesso probabilmente farei in Brasile. E, come sapete, ho molte riserve sul funzionamento delle attuali democrazie, sempre più condizionate da poteri economici internazionali, che agiscono senza alcun controllo e sono di fatto legibus soluti.
Però la soddisfazione rimane, perché queste due foto raccontano un mondo che è cambiato, non come avremmo voluto probabilmente, e che dovrebbe essere cambiato ancora, in maniera radicale e rivoluzionaria. Intanto però, se fossi argentino, le critiche a Cristina de Kirchner le potrei esprimere, senza paura di essere ucciso e senza temere per la vita dei miei familiari, come succedeva invece ai tempi di Videla, e questo è comunque un progresso.
Questa parola deriva dal verbo latino progrĕdi, che significa andare avanti, avanzare. Ora andare avanti non è per forza sinonimo che si sta andando nella direzione giusta. Anche chi procede verso un burrone e non riesce a fermarsi, va avanti, ma non per questo il suo procedere è auspicabile o deve essere imitato.
E’ comunque prevalso un significato positivo, per cui il progresso è l’avanzamento verso gradi superiori, con implicito quindi il concetto di perfezionamento, di evoluzione, di una trasformazione graduale e continua dal bene al meglio. E così progresso è diventata parola cara prima agli illuministi e poi ai socialisti e adesso è certamente una parola “nostra”, che ci è molto cara, tanto che amiamo definirci progressisti, anche al netto della campagna elettorale del ’94, in cui la coalizione del centrosinistra - la “gioiosa macchina da guerra” di occhettiana memoria - scelse proprio questo nome, senza troppa fortuna.
In questi quarant’anni, da quando sono nato ad oggi, c’è stato un progresso? Ci sono stati dei cambiamenti in meglio? Sì, ci sono stati.
E’ finita la sanguinosa stagione delle dittature militari nell’America latina. E’crollato il Muro di Berlino e sono caduti i regimi comunisti nell’Europa orientale. Cattolici e protestanti governano insieme l’Irlanda del nord e non c’è più il terrorismo basco. E’ finito il regime dell’apartheid in Sudafrica e i neri governano un paese in cui, fino a pochi fa, non godevano dei diritti civili e politici. Quarant’anni fa alcune di queste cose ci sembravano impossibili da realizzare, in qualche caso impensabili.
Io, come sapete, sono un inguaribile pessimista e per ciascuna di questi miglioramenti potrei citarvi gli aspetti negativi. Nell’89 - l’anno fino ad ora più importante per quelli della mia generazione - avevamo molte speranze che sono andate deluse. Gli esiti sono stati molto diversi, da paese a paese: sono nate democrazie mature, come quelle polacca, quella ungherese, quella ceca, ma sono anche sorte dittature molto dure, come quella di Lukasenko in Bielorussia e regimi autoritari, come in Russia. Ci aspettavamo che in ogni paese ci fosse un Havel, ma ci siamo ritrovati troppi Putin. Alcuni paesi si sono divisi in maniera consensuale, come la Repubblica ceca e la Slovacchia, mentre nei Balcani abbiamo assistito a conflitti sanguinosi, tra il cinismo e l’indifferenza dell’Europa. Srebrenica è una pagina buia della nostra storia, quanto la caduta del Muro di Berlino è luminosa.
Un po’ di strada l’abbiamo già fatta, tanta ne dobbiamo ancora fare. In fondo non potremmo dirci progressisti se non fossimo sempre in attesa di qualcosa di meglio e non provassimo a lottare per ottenerlo.

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